Ai Confini tra Sardegna e Jazz XXX Edizione Conduction: ben tornato Butch Sant'Anna Arresi (CI), 1-8 settembre 2015 Testi e Foto: Gianmichele Taormina
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Agile e sinuoso come il più veloce tra i volatili del pianeta,
giunge sul proscenio di
Sant'Anna
Arresi il suono e il vortice ammaliante di Evan Parker. Con questa
immagine cinematografica, del tutto magica e seducente, si è aperta la trentesima
edizione di "Ai Confini Tra Sardegna e Jazz", quel festival coraggioso, sincero
e incosciente che ancora oggi resiste tra i pochi qui da noi in Italia.
"Bentornato Butch" è stato il pretesto per sviluppare in itinere un cartellone
composto da variegate forme ispirative, entrando e uscendo dal pianeta Morris senza
influenzare con gratuite suggestioni l'affezionato pubblico sardo.
Ma in effetti per chi ha vissuto il triennio di permanenza
di Morris a Sant'Anna Arresi, difficile è stato non emozionarsi alle movenze aggraziate
di Kenny Wollesen alla guida della Nublu Orchestra, la formazione
che con più costanza ha collaborato con l'ideatore della celebre conduction.
In due differenti ma entrambe emozionanti esibizioni, la Nublu ha sbarcato su satelliti
già esplorati, tentando allo stesso tempo di mantenere le distanze - ma non le intenzioni
e le fascinazioni strutturali - ideate sin dagli anni Ottanta dal grande e indimenticato
Maestro di Long Beach.
Sotto la guida prevalentemente di Wollesen, alternata dietro la bacchetta
e la direzione di Brandon Ross e Graham Haynes, il settetto ha elaborato
due conduction dai sapori surreali: rigidi e lungamente trattenuti da pedali
nella prima, molto più docili di melodia e ritmicità coinvolgente nella seconda.
In esclusiva europea, il progetto Nu Grid a nome di Vernon Reid,
Graham Haynes, Jean Paul Bourelly e Dj Logic ha lasciato "diversamente
perplessi" chi attendeva una prova di fuoco, soprattutto per la presenza nel quartetto,
dello storico chitarrista dei Living Colour. Atmosfere intriganti e introspettive
lasciavano spazio a territori più aspri e saturi di macchinose sonorità reiterate,
meno ispirate, talvolta inspiegabilmente ripetitive.
Suddivisa in due parti, l'esibizione di
William Parker,
Hamid Drake
e John Dikeman si è invece snodata su di una lunga sequele di riferimenti
e richiami alla lezione impressa da David S. Ware, del quale lo stesso Dikeman si
è dichiarato allievo spirituale. Un'ora di musica lisergica, vivace, (de)strutturata
su schemi certamente già editi eppure sempre aperti alla ricerca della luce perfetta.
Votata al raggiungimento del Sacro Graal, decisamente conquistato da un trio granitico
che ha acceso l'entusiasmo e infine l'acclamazione dei "fedeli" intervenuti in Piazza
del Nuraghe. Meravigliosi.
Ma il festival non è stato solo questo. Se le esibizioni in solitudine di Rob
Mazurek e Graham Haynes sono scivolate via nel dimenticatoio di un ventre
acquatico, di una quiete tacita, sulfurea, riflessiva - indecisa infine sul suo
concreto svolgersi - di contro l'esplosiva Fire! Orchestra diretta dal muscoloso
Mats Gustafsson, ha chiuso il cartellone in totale dis-conformità col primario
riferimento a "Butch", soverchiando il volume del suono nel suo dispiegarsi estremo
di un'idea (o di una ipotesi volutamente scenica) di saturazione collettiva.
Chi ha esposto senza remore echi e concetti provenienti dal vortice degli anni Sessanta
sono stati Keith e Julie Tippett. Firmando in comproprietà il progetto
di Carved In The Air insieme a tre Maestri del jazz italiano e internazionale
(Roberto Ottaviano, Giovanni Maier e
Cristiano Calcagnile),
i due coniugi inglesi hanno espresso pagine di improvvisazione irregolare, spesso
dettate (e datate) dall'eccessiva presenza della vocalist londinese. Con l'inossidabile
verve del trio italiano, avremmo preferito che il bilancino del concerto tendesse
più verso lo storico pianista dei Centipede (e dei King Crimson), relegato inspiegabilmente
a spazi più armonici che solisti. Di contro, Ottaviano e soci hanno continuato a
dimostrare quell'estro e quell'eleganza distinguibile che per generosità e intenti
da sempre li contraddistingue.
La presenza maggiore nello spazio e nel tempo del festival è stata rappresentata
da Evan Parker a dai suoi molteplici progetti. A partire da Filu 'e Ferru,
quintetto dalle mille emozionanti sfumature, completato da Peter Evans (tromba),
Alexander Hawkins (pianoforte), John Edwards (contrabbasso) e
Hamid Drake
(batteria). Strepitosi.
E poi? E poi il Large Ensamble diretto dal fiatista inglese, sempre, tra
gli altri, con la presenza dei due genietti virtuosi e rampanti (Hawkins e Evans),
Barry Guy e John Edwards, Giancarlo Schiaffini, Walter Prati,
Hamid Drake...
una superba esibizione multicolore che nulla aveva a che vedere con Butch Morris
ma, proprio per questa sua indipendenza, libera da schemi precostituiti, è stata
tra i momenti più intensi e belli dell'intera manifestazione.
Infine, ancora Evan Parker, a capo di un quartetto memorabile con Peter
Evans, Barry Guy e Paul Litton, ci ha immersi dentro un vortice
irripetibile. Soprattutto nel duetto irrefrenabile con Evans, nell'esemplare e ottimale
contrasto tra sax soprano e tenore sapientemente imbracciati, nella caleidoscopica
potenza di una ritmica che ha pochi eguali.
Il festival termina qui. Si riavvolgono le tende. Si smonta il palco. Restano in
loop sullo schermo le straordinarie fotografie in bianco e nero di Luciano Rossetti.
Lui, che ha colto e immortalato per sempre gli attimi, i gesti e le movenze di
Butch Morris. Genio, visionario, profeta, musicista che fu di questa terra
e che pare non tornerà più...