Nell'agosto del 2002, seguendo
per Jazzitalia la XVIIa edizione del festival di
Sant'Anna
Arresi, Ai Confini tra Sardegna e Jazz, ho avuto modo di avvicinarmi all'arte
e alla musica di un gigante del jazz moderno: David Spencer Ware. David (nato
nella medesima città che diede i natali a
Bill Evans),
aveva da poco acquistato una macchina portatile per dializzati, avendo avuto una
grave ed inguaribile infezione ai reni. Spesso, tra una prova o una cena e l'altra,
la conduceva con se, cercando di prendere l'abitudine nel conviverci. Era un'immagine
molto triste e penosa vedere un grande musicista come Ware ridotto in quelle precarie
condizioni di salute. Proprio lui che, facendo il tassista a New York per sbarcare
il lunario, ebbe anche un incidente automobilistico che gli causò una brutta meniscopatia
al ginocchio destro, del tutto mal curata. Non avendo alcuna previdenza assicurativa,
David fece quello che poté per quel suo ginocchio, ma senza giungere a risultati
efficaci. Dunque zoppicante, malconcio e in più debilitato per quella quotidiana
dialisi. Un tipo dolce e taciturno David. Ho pranzato e cenato per una settimana
intera insieme a lui e al suo gruppo storico citato in questa intervista (William
Parker, Mattew Shipp e Guilermo E. Brown). In quei giorni
non ho mai ascoltato un discorso fuori posto, un momento di goliardia da parte di
tutti i componenti del gruppo, ma invece percepito sempre, una dimensione catartica,
addirittura "spirituale" nelle nostre profonde conversazioni (mi scuso con i lettori
ma la parola "spirituale", non a caso è ripetuta più volte nell'intervista).
Nessuna sigaretta, niente alcol, nessun ringraziamento
sul palco durante i vari concerti. Solo una mano alzata di apprezzamento del musicista
verso il pubblico. Talvolta nessun bis. Solo un'uscita di scena per niente plateale
ma invece umile e silenziosa, come del resto era nel carattere di David e lo è tuttora
in quello dei suoi compagni.
David mi concesse questa breve intervista esclusiva, fin'ora
mai pubblicata, dopo la sua quotidiana dialisi e una doccia, presso l'Hotel nel
quale alloggiavamo. Credo sia la prima concessa ad un critico qui in Italia, ma
sono disponibile a raccogliere dati e pubblicazioni in merito. David si scusò inoltre
per il breve incontro poiché reduce da un'altra intervista. Era stanco. Aveva bisogno
di riposare, per cui fu breve nelle risposte. Insieme al sottoscritto nella hall
dell'albergo erano presenti Giorgio Mortarino, vice direttore all'epoca,
della Splasc(h) Records, il giornalista statunitense Steve Dollar che lo
aveva intervistato poco prima e Achille Silipo, discografico, rivenditore
di dischi, amico di Ware.
Nel corso degli anni successivi con Ware ci incontrammo più volte:
in due occasioni sempre a Sant'Anna Arresi, poi a Terni col quartetto, quella volta
senza Brown ma col grande
Hamid Drake.
Di lui rimane una musica dolente, irrefrenabile, stridula ma anche gentile e ricca
di un blues introspettivo; un blues perpetrato come memoria storica della musica
dei nostri padri fondatori. Di un jazz dell'anima che resta nei solchi dei suoi
lavori e nel cuore di chi lo ha apprezzato come musicista e innovatore.
Ricorderò sempre con emozione e affetto il concerto che David tenne in sax solo
alla spiaggia di Porto Pino, di notte, con il palco montato sul mare...
So long David…
Leggendo la tua biografia appare sempre ed in maniera abbastanza
evidente, la tua celebre collaborazione con Cecil Taylor. Me ne vorresti
parlare?
Ebbene, devo dire che di certo la mia collaborazione con Taylor è stata importante
per diverse motivazioni artistiche. Una di queste è stata quella di approfondire,
imparare ed eseguire direttamente il suo modo espressivo di intendere la sua musica.
Tutto questo è confluito nella mia prima collaborazione con Cecil iniziata negli
anni Settanta…
Ti riferisci ala concerto dato alla Carnegie Hall?
Si. L'orchestra si chiamava "Carnegie Hall big band", ed insieme a me c'era
anche William (Parker). Era il 1973. Poi le
successive collaborazioni sfociarono in un disco "Dark to Themselves" (Enja,
1976), insieme ad alcuni tour europei con la
Unit. Dopo queste esperienze decisi però di cessare definitivamente la mia collaborazione
con Cecil. Era ormai tempo di dedicarmi alla "mia" musica. Avevo la necessità di
farlo. I critici ritengono che quella con Taylor sia stata per me una fase importante
della mia carriera. Vorrei ridimensionare questo concetto. Per me è stata solo una
tappa di un lungo percorso che è iniziato proprio quando ho lasciato Cecil.
Oggi in molti ti ritengono, e a ragione, l'erede spirituale
di Albert Ayler e John Coltrane. Come ci si sente a raccogliere gli
insegnamenti e il patrimonio incalcolabile lasciato da questi due "giganti"? Per quanto riguarda il percorso che ho costruito col mio strumento, confermo
che la figura di Albert Ayler è stata per me fondamentale e "arricchente".
Ayler rappresenta per me un musicista grandissimo, capace di trasmettere una forza
devastante per mezzo del suo strumento. Tu parli di spiritualità… Quella è stata
invece la dimensione che ho amato di più in
John Coltrane.
E ammetto che per molte mie composizioni ho dovuto necessariamente misurarmi col
bagaglio lasciato da Coltrane. Anzi, devo dire, lo faccio ogni giorno della mia
vita di musicista! Tutti i sassofonisti e non solo questi, dovrebbero tenere presente
questi due pilastri del jazz. La nostra musica si basa su di loro.
Da qualche anno porti in tour e in sala di incisione questa
tua formazione composta da William Parker, tuo amico storico, Mattew Shipp
e Guillermo E-Brown… Anche questa è un'ennesima fase della tua carriera artistica?
Ho voluto esprimere con questo quartetto una forma di band stabile dove ci si esprima
liberamente ed in maniera naturale.
Telepatica?
Si. Telepatica! Oggi più che mai credo si sia concretizzato il mio progetto musicale
con questo quartetto che rappresenta la mia musica. Adesso.
Hai però dovuto faticare a lungo prima di trovare un degno
sostituto di Susie Ibarra…
Si. Ho cambiato diversi batteristi nel corso degli anni. Ho voluto dare fiducia
a "Iermo" perché lui è la gioventù di oggi… L'energia e la capacità di tradurre
il mio suono in maniera moderna ed efficace. Si cambia sempre per trovare il suono
perfetto, ma dopo bisogna anche stabilizzarsi.
C'è un disco, un tuo lavoro che pensi attualmente ti
rappresenti?
Sicuramente "Corridors & Parallels"…
Invece, quartetto a parte, hai inciso un album in solo
realizzato dal vivo in Olanda per l'italiana Splasc(h) Records: "Live In The Netherlands".
In che modo ti approcci quando lavori in solitudine?
Nella medesima dimensione personale con la quale esprimo la mia musica. Non faccio
alcuna differenza nel suonare in trio, in duo, in quartetto o in solo. Cambiano
solo le persone e il dialogo con esse. Ringrazio la Splasc(h) per avermi dato l'occasione
di incidere questo lavoro. È stata un'operazione coraggiosa… Il sax solo è una connessione
unica che apro verso l'Universo. Con il desiderio di spiritualità verso il quale
tendo. In questo caso sono più libero. Sono me stesso. Sono io…
Le note di copertina sono state scritte da Michael Brecker…
Si. Ringrazio lui di questo suo omaggio. È stato magnifico e ha usato parole bellissime
nei mie riguardi.
Da ragazzi eravate insieme al Berkley College of Music
di Boston, giusto?
Esattamente. Sono stati anni intensi e formativi ma dopo di questi capii che la
mia direzione musicale sarebbe stata un'altra…
Chi apprezzi come musicista o sassofonista della scena
attuale? David Murray senza dubbio… ma ho amato molto anche JuliusHemphill…
Che progetti hai in programma per il futuro?
Vorrei incidere un disco dal vivo con questo mio gruppo. Un lavoro che sia una testimonianza
del nostro attuale percorso. Siamo un po' come fratelli. Tutti insieme rivolti verso
un'unica direzione comune. Verso un'unica visione….