Festival Internazionale
"Ai Confini tra Sardegna e Jazz"
XXIVa EDIZIONE
Sant'anna Arresi (Ci) - 26 Agosto/5 settembre 2009
di Gianmichele Taormina
foto di Ortensia Coloru
Da Chicago a
Sant'Anna
Arresi (e vice versa). Questo e altro è stato l'esplosivo leitmotiv della
ventiquattresima edizione del Festival Internazionale "Ai Confini Tra Sardegna e
Jazz" svoltosi tra la fine di agosto ed i primi di settembre nella piccola e accogliente
cittadina sarda.
A quarantaquattro anni di distanza dalla fondazione della AACM (Association
for the Advancement of Creative Musicians), storico movimento chicagoano nato
dall'idea rivoluzionaria di un artista come Muhal Richard Abrams, bene si
è pensato di celebrare all'interno della manifestazione le gesta memorabili di un
periodo, di una fase storica, di una filosofia musicale e politica che ha influenzato
profondamente il jazz contemporaneo e non solo.
Nel corso delle dieci serate di festival, ricco
e interessante è stato il cartellone composto dalla presenza dei principali protagonisti
dell'avanguardia storica di quel movimento; innanzitutto con The Trio, formazione
costituita dal nucleo fondamentale di quella meravigliosa stagione. Muhal Richard
Abrams, George Lewis e Roscoe Mitchell hanno così ricostruito
le fila di un discorso in realtà mai interrotto, anzi, continuamente alimentato
dall'evoluzione di una formula che negli anni ha fornito profondi input creativi
nella complessa vicenda chicagoana. Lo ha spiegato lo stesso Lewis nel corso
di un'intervista pubblica realizzata da Pino Saulo per la programmazione
di "Battiti" (in onda su Radio 3 da mezzanotte in poi). Raccontando il libro scritto
di suo pugno – "A Power Stronger Than Itself: The AACM and American Experimental
Music" - il grande cinquantasettenne trombonista ha narrato le vicissitudini
storiche della nascita della AACM, i vari percorsi musicali, aneddoti ed
episodi divertenti svelati attorno a quel focolaio e legati ai musicisti che ne
hanno fatto parte. Lewis ha inoltre sottolineato come lo sviluppo della sua
musica ha progressivamente tenuto conto delle istanze della musica contemporanea
orchestrale e di quella elettronica. Si è poi parlato di "sperimentazione"; tendenza
che per il trombonista pur considerando l'evoluzione europea di taluni musicisti
delle "altre avanguardie", si è sempre misurata mantenendo le distanze da certe
influenze eurocentriche. Nei concetti di Lewis esse si sono via via modificate
in forme e archetipi mai convenzionali ma sempre esposti alla continua poliedricità
delle varie tematiche contemporanee.
Il concerto è stato quindi una sorta di sommatoria di taluni concetti espliciti
della AACM come l'improvvisazione istantanea atonale, spesso coincidente
con soluzioni e linguaggi espostivi carichi di quel trascinate pathos che
solo tre grandi musicisti di quel calibro potevano generare. Lewis non ha
virato verso derive elettroniche a lui care (il trombonista si è dedicato negli
anni alla programmazione di software per la composizione orchestrale, tra l'altro
con esiti assai brillanti). E se un personaggio come Roscoe Mitchell esponeva
quanto di meno ascetico vi è nella sua musica - sempre divinamente controcorrente
all'interno di quel magico caleidoscopio che furono gli Art Ensemble Of Chicago
- eccellente e multicolore nelle sue colte e frizzanti invettive è stato l'apporto
insostituibile di Muhal Richard Abrams, fantasioso guru di una musicalità
profonda e senza tempo.
Altre tre grandiose esibizioni hanno caratterizzato l'esponente forse più
geniale della nuova scena di Chicago, quella Nicole Mitchell flautista, direttore
d'orchestra, notevole compositrice dalle mutevoli logiche espressive, con i suoi
ensembles sempre vivaci, coinvolgenti, ricche di elevata caratura contenutistica.
Molto bello il concerto della serata d'apertura intitolato "Many Paths Meet The
Sea: For Alice Coltrane". Il progetto, comprendente Myra Melford al pianoforte,
ha visto intercalare composizioni della Mitchell essenzialmente basate su
lunghissimi pedali e intensi tappeti modali dai quali emergevano gli interventi
mirabili dell'intero ensemble. A cominciare da quelli della giovane violoncellista
Tomeka Reid per proseguire col pianismo nervoso e urgente della Melford
nonchè della lucida front line composta da Robert Griffin (tromba),
David Boykin (sax tenore, compagno della flautista) e da un travolgente
Greg Ward al sax contralto.
Assai differente l'altro progetto composto dalla musicista di Syracuse (stabilitasi
a Chicago nel 1990): la "Xenogenesis Suite",
una sorta di nuovo campionario estetico assai aderente agli sviluppi attuali delle
tematiche sorte in seno alla AACM. Lo stesso ensemble ha eseguito in prima
nazionale una recente composizione di Roscoe Mitchell il quale ha diretto
i tre movimenti di "Cards For Orchestra – Made In Chicago". Qui la
musica, assai più complessa e riflessiva, ha rappresentato l'ampia simbologia orchestrale
universalmente riconosciuta in ambito AACM: lirica inafferrabile, corposa
integrazione tra i fiati, trame sonore dalla dirompente natura rivelatoria. Una
libertà che ha alimentato esplorazioni temporali che, guardando all'avanguardia
storica, hanno proseguito la loro marcia verso la ricerca e la non omologazione,
superando grandemente i conflitti tra compiuta composizione ed inquieta esplorazione
formale.
Ma la vera, genuina sorpresa del festival, nell'ampiezza delle proposte alternatesi
sul palco di Sant'Anna è stata la formazione del batterista Mike Reed. Nato
in Germania nel 1974, all'età di cinque anni
Reed si trasferisce a Chicago. Lì come drummer suona con tutta l'avanguardia
possibile: l' Exploding Star Orchestra e Bill Dixon, Fred Anderson, Matana Roberts,
Julian Priester, Nicole Mitchell e Jeff Parker per poi formare i Loose Assembly
e i Peolple, Place & Things (con ancora uno splendido Greg Ward). Quest'ultimo granitico
quartetto ha contrassegnato la manifestazione offrendo freschezza, eleganza, ironia,
divertimento. Partendo dalle orme di
Ornette
Coleman, le composizioni di Reed saltano il passo consequenziale
verso una modernità senza alcun rigido ingabbiamento. Anzi, aderiscono semmai, alle
dinamiche culturali dell'attuale vivace contemporaneità pur considerando certa classicità
di metà anni Cinquanta. Si ascoltino ad esempio i sui ultimi quattro lavori davvero
coinvolgenti, brillanti, prestigiosi.
Altri notevoli concerti hanno caratterizzato diversi aspetti del sound di
Chicago. Tra questi l'esibizione di Dee Alexander. L'affascinante vocalist
reduce dall'incisione del suo nuovo cd intitolato "Wild Is The Wind", ha
proposto parte del repertorio del disco inclusi due omaggi al misconosciuto tenorsassofonista
"Light" Henry Huff" culminati poi con l'interpretazione di "Four Woman",
splendida canzone scritta da
Nina Simone
nel 1965. Ad accompagnarla l'instancabile
Tomeka Reid al violoncello, James Sanders al violino e Ernie Adams
alla batteria (con Ernst Dawkins special guest). Suono incisivo, grande verve
sul palco, una vocalità intensa che abbracciava vaste gamme di colorazioni e di
registro hanno completato un concerto di grande livello qualitativo per poi cedere
sul finale ad un più "populista" medley chiaro omaggio al soul di
James Brown
e Aretha Franklin.
Con motivazioni ed esiti assai differenti Cooper Moore ed i suoi
Digital Primitives (con Assif Tsahar al sax tenore e l'impareggiabile
Chad Taylor alla batteria), ha giostrato le sue sorprendenti variabili sull'utilizzo
di strani e impronunciabili strumenti da lui inventati (come una basso elettrico
da gamba ad una sola corda), senza per nulla toccare quello suo principale ovvero
il pianoforte. Lo aveva spiegato lo stesso pianista nel matinée pubblico che includeva
un'altra interessante intervista realizzata sempre da Pino Saulo. Intensità
emotiva, coinvolgimento fisico e un dolore alla mano non permettono agevolmente
Moore nel cimentarsi al pianoforte con i consueti parametri pianistici che
ben conosciamo. Anche se breve, il concerto ha catturato l'attenzione del divertito
pubblico di
Sant'Anna Arresi, comprensibilmente generoso nelle sue ovazioni.
Dall'altra parte della luna, un mondo ricco di movimenti elettrici, spettacolari
tematiche e affascinanti omaggi per nulla velati al Miles Davis degli anni Settanta,
hanno tenuto banco con l'expolit di Wadada Leo Smith. Lunghe note negli assolo
e infiniti pedali intercambiabili sormontavano le scarne ma efficaci architetture
del trombettista nato nel delta del Mississippi nel 1941, artefice negli anni Sessanta
di splendide storiche incisioni che restano indelebili nel tempo (tra questi il
solitario "Kulture Jazz" preceduto dagli immensi "Creative Music"
e "Reflectativy"). La band è apparsa sprecata considerato la presenza
di Vijay Iyer al pianoforte di John Lindberg al contrabbasso spesso
elettrificato e di Pheeroan Aklaff alla batteria (quest'ultimo riteniamo
decisamente fuori contesto visti i gloriosi trascorsi con Sam Rivers, Cecil Taylor,
Oliver Lake ed
Andrew Hill).
Sempre ben accetto dalla platea del festival, alla guida del suo nuovo trio
Matthew Shipp ha esposto i temi contenuti in "Harmonic Disorder",
un disco che lo avvicina sensibilmente al mondo degli standard riletti fortunatamente
a suo modo. L'intesa instaurata con Michael Bisio (contrabbasso) e Whit
Dickey (batteria) è indiscutibile ma qualcosa forse è mancato. Di certo è affiorata
un po' di routine e talune lungaggini di sicuro evitabili mentre Dickey (splendido
compositore nei suoi dischi da leader), restava in disparte se non nel solo, a chiusura
di un concerto bello ma appunto "standardizzato".
Ma la sfida tra i pianisti in solitudine l'ha vinta decisamente Lafayette
Gilchrist. Quarantadue anni, nato e cresciuto a Baltimora, Gilchrist
ha accompagnato per diversi anni David Murray per poi dedicarsi alla sua band The
New Volcanoes. Il suo stile, profondamente influenzato dagli stride piano di Jelly
Roll Morton, e, per sua stessa dichiarazione dallo stile di Art Tatum, Mary Lou
Williams, Mal Waldron e
Andrew Hill,
ha offerto enorme classicità e inventiva; indice di eccellente maturità artistica
pienamente raggiunta. Di tutt'altro genere il tocco sibillino di Nobu Stowe
più vicino a climi calmi e distesi, quasi new age, pur conoscendo l'ampia
letteratura del free dal quale si è tenuto timidamente lontano. Achille
Succi - in qualità di ospite nell'altra metà del concerto - ha ben interpretato
il ruolo di co-leader per una esibizione che senza la sua presenza avrebbe preso
una piega assai più pericolosa e stancante.
Bravi ma non memorabili i guitar hero Stanley Jordan e Jean Paul
Bourelly. Il primo lo è stato davvero nei quaranta minuti iniziali del concerto
con l'abile Aldo Mella al contrabbasso e Kenwood Denard alla batteria.
Jordan ex pianista passato alla sei corde, si è mosso tra standard ben interpretati
resi spettacolari dal suo celebre tapping ipervirtuosistico. Troppo Hendrix e folate
settantine nel live act di Bourelly dal quale considerato le collaborazioni
con Muhal Richard Abrams e Miles Davis ci si aspettava francamente di più.
Bella senza mezzi termini la conduction di Butch Morris (la
terza degli ultimi tre anni e la seconda di un laboratorio che si chiuderà l'anno
prossimo concludendo così un progetto triennale del festival). Musicisti statunitensi
e italiani si sono ben integrati nella formazione composta tra gli altri da Titta
Nesti, Achille Succi, Enzo Carpentieri e
Andrea Massaria.Questi
ultimi, docenti dei seminari insieme ad Arrigo Cappelletti, si sono poi esibiti
col progetto Interferenze Trio mentre Ernest Dawkins e i suoi allievi
hanno ben figurato nel corso di una lunga esibizione con una specie di interminabile
ma interessante saggio.
Sul versante modern mainstream o neo bop che dir si voglia, hanno raccolto
applausi a scena aperta le formazioni di due giovani e apprezzatissimi musicisti,
sulla scena oramai da oltre dieci anni: Luois Perdomo e Abraham Burton.
Perdomo, pianista di Caracas con già all'attivo diverse incisioni, ha regalato
un concerto fulminante per tematiche e freschezza, non nascondendo quella velatissima
sensibilità latina insita nel suo caleidoscopio espressivo ben esposto nelle sortite
con Ray Barretto, Miguel Zenón,
David Sanchez
e Ravi Coltrane.Accomunato con Perdomo dalla presenza nel suo quartetto di
un eccezionale sfavillante Eric Mcpherson, Abraham Burton ha ancor
più fatto decollare Piazza del Nuraghe con grinta e musicalità decisamente marcata.
Accompagnato dai "funzionali" Dezron Douglas (contrabbasso) e David Bryant
(pianoforte), il sassofonista newyorchese ha ben interpretato la parte del leader
eccedendo talvolta in talune evitabili prolissità, come ad esempio nel pezzo di
apertura del concerto durato "appena" trenta minuti.
Marching band nelle piazze del paesino nuragico (The Hungry March Band)
e sul palco ad aprire il festival (si trattava degli esplosivi Hypnotic Brass
Ensemble) hanno fatto da contorno all'ennesimo appuntamento col jazz in Sardegna.
Pubblico proveniente dal nord Europa ha presenziato come al solito nel corso della
manifestazione che, a detta del suo direttore artistico Basilio Sulis andrebbe
ritoccata nella formula, in attesa del giro di boa dell'anno prossimo quando "Ai
Confini…" festeggerà il suo sospirato meritatissimo venticinquennale.
..::Gallery By Ortensia Coloru::..
Jean Paul Bourelly |
Jean Paul Bourelly |
Pathways - Luis Perdomo |
Stanley Jordan Trio |
Stanley Jordan Trio |
Abrham Burton |
The Trio (Roscoe Mitchell) |
The Trio (Muhal Richard Abrams) |
The Trio (George Lewis) |
Roscoe Mitchell |
Cooper Moore |
Cooper Moore |
Wadada Leo Smith |
Wadada Leo Smith |
Wadada Leo Smith Golden Quartet |
Ernest Dawkins |
Evolution Ensemble - Dee Alexander |
Evolution Ensemble - Dee Alexander |
Hypnotic Brass Ensemble |
Lafayette Gilchrist |
New Music Observatory (Butch Morris) |
Nicole Mitchell |
Nicole Mitchell |
People Places Things - Mike Reed |
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The Hungry March Band |
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Data pubblicazione: 06/10/2009
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