Solo una veste per un pianista risulta più impegnativa della formazione in trio: il solo piano. Considerato, infatti, che nel jazz difficilmente sarebbe possibile intervenire sulla sessione di registrazione, ne consegue che, salva fatta l'esigenza di disporre della scelta fra differenti
takes, ogni brano viene registrato "in presa diretta", e dalla prima all'ultima nota tutto d'un fiato. E dunque il piano solo offre la dimensione più vera e tangibile dell'anima dell'artista: e Matthew Shipp ha ed è una bella anima d'artista. Una formula, questa in solo, che al nostro è particolarmente congeniale, date le analoghe passate esperienze al suo attivo, sebbene sia pure titolare di altrettanto egregie combinazioni in gruppo (trii e quartetti, affiancato spesso dal contrabbassista
William Parker) e perfino un pregevole duo con Roscoe Mitchell (il disco 2-Z).
Un pianismo, il suo, iperbolico, percussivo ed energico, senza però barocche ostentazioni o ricercatezze di maniera, con rari spazi lasciati alle note acute, e nello stesso tempo non rude né mai approssimativo. Introspettivo come Bill Evans ma meno lirico, dissonante e sottilmente ironico come
Monk, debitore anche nei confronti di Powell in quanto a fisicità: difficile dare una collocazione alla sua cifra pianistica. Shipp è Shipp, punto e basta.
E questo Songs conferma tutto ciò. Una carrellata di "canzoni" evidentemente care al jazzista, che in qualche modo hanno accompagnato la sua crescita musicale, dagli spirituals alle
ballads, passando per alcune pietre miliari della storia del jazz. Imponente il pezzo d'avvio, We free Kings, a tratti velato di una certa mestizia che solo il taglio orchestrale e deciso del pianista riesce a riscattare: lascia semmai perplessi l'averlo scelto come apertura dell'intero cd, anziché qualcosa di più accattivante per l'ascoltatore. Diversa There Will Never Be Another You, nella quale se muscolare resta l'approccio, il verso tematico è invece ben rintracciabile e dunque tranquillizzante. Il suo fraseggio si avvinghia alla struttura armonica, scavandovi fino a trasformare l'inciso in un cantilenante ghirigoro fra le cogitabonde note dell'estemporaneo monologo, e affermando nella padronanza tecnica le indubbie fondamenta classiche della sua formazione musicale. L'inclinazione di Shipp per il registro grave e la sezione medio-alta della tastiera trova piena affermazione in Almighty Fortress Is Our God, tipico spiritual della tradizione religiosa nero-americana reso prima in minimale lettura cameristica – amplificata dall'impiego del pedale a renderne maestoso il clima sonoro – e poi spezzettato nelle sue frasi più topiche.
Di prismatiche rifrazioni e pervasiva energia viene caricata la celebre Con Alma gillespieiana, svuotata così della sua originaria leggiadria bop dall'overdose di reiterazioni tematiche insistenti su porzioni ristrette della tastiera; matrice bop poi recuperata solo nella traccia del tema, ridotto alla semplice esposizione, quasi mera "citazione" rispetto all'intera esecuzione. Destrutturato e scarnificato
Angel Eyes, popolare blues di cui il pianista mantiene la caratteristica aura di mistero, anzi nel suo tocco sprizzante e discontinuo tale carattere viene in qualche modo accentuato. L'improvvisazione indugia appena un attimo, con nervosi tintinnii, sulla parte alta della tastiera, guizzi spumosi nella tempestosa visione pianistica del nostro. Pianisticamente risorta a nuovo splendore la rilettura di On Green Dolphin Street, fra le meglio riuscite dell'intero lavoro, in cui Shipp, pur dando libero sfogo alla sua
vis interpretativa, mantiene la rotta della linea melodica, facendosi seguire dall'ascoltatore molto più facilmente e con tale trasporto da far risultare addirittura troppo brevi i quasi 4 minuti di durata.
Rimane nell'alveo bop di cui mantiene il saltellante groove Bag's Groove, briosa sì, ma, in modo insistente, sempre sulla sezione centrale della tastiera, da cui scaturiscono, surrettizie, cerebrali dissonanze monkiane. Corale e polifonica Yesterdays, anch'essa ricoperta dall'addensarsi delle ombrosità del piano di Shipp, ma anche alleggerita in differenti frangenti da cenni di inaspettato stride piano ed una certa velata ironia, mentre la malinconia del brano viene restituita dall'intensa coda finale. Celato dietro l'intreccio combinato di scale, accordi e annotazioni apparentemente sconnesse l'irrequieto motivo della rollinsiana East Broadway Run Down, sul cui scheletro modale sembrano moltiplicarsi le voci, e dove la ritmicità serrata ben si attaglia agli echi quasi tribali che il granitico "Colossus" e compagni riuscirono a trasferire nella stesura originale pianoless.
Sconsigliato a chi si avvicini adesso al jazz, l'album richiede e merita più ascolti, necessari per superare l'iniziale impatto con quelle corpulente sonorità, fra le cui pieghe è tutta da scoprire la profondità di un linguaggio che attinge alla migliore tradizione del piano jazz, mantenendo tuttavia una propria personalità musicale distintiva e ben riconoscibile ai già "iniziati": cogliere e rendere negli aspetti interpretativi delle varie "songs" proposte, una prospettiva per così dire laterale, quella che si addice ad un piano solo di moderna concezione.
Antonio Terzo per
Jazzitalia