Il Primo ricordo personale di Butch Morris è quello di una persona seria,
profondamente legata al suo lavoro, estremamente disponibile ad ogni confronto e
dialogo col pubblico, con gli appassionati, con la critica.
Era il 1999 quando lo incontrai per la prima
volta al festival jazz "Rumori Mediterranei" di Roccella Jonica. Butch mi
concesse ospitalità dentro questa aula bollente invasa dalla violenta calura che
caratterizza da sempre le estati concertistiche roccellesi. In fondo ad un angolo
seguivo le prove dell'orchestra formata da validi giovani musicisti provenienti
dall'area della musica classica e gli innesti di jazzisti oramai navigati come
Enzo Rocco,
già da qualche tempo chitarrista al fianco di Carlo Actis Dato.
I movimenti della conduction di Butch, plastici, leggiadri, estatici, di tanto in
tanto si bloccavano nell'approfondimento e nell'analisi dettagliata dei passaggi
affrontati dall'orchestra. Morris si arrabbiava. Si adirava avendone motivo, su
una nota fuori posto, su di un passaggio forse irregolare che nessuno, nemmeno i
loro interpreti, riuscivano ad individuare concretamente, cercando di comprenderne
il perché.
Morris era fatto così: spiegava in ogni suo dettaglio la propria legge fisica, la
traduzione gesticolare delle proprie strutture. Spesso impiegava giorni – tre o
cinque – soltanto per far entrare i propri musicisti nel vivo dei suoi contenuti
filosofici. Diceva che era più importante parlare dei propri concetti prima che
agire con la musica.
Ed ecco che il suo volto si infervorava. Il suo sangue evidente, ribolliva su tutto
il corpo e l'espressione illuminata esplodeva in tutta la sua forza, in tutta la
sua energia, in quella sua capacità di comunicare e di sottolineare, sempre a gesti,
la necessità delle proprie argomentazioni. Gli occhi prendevano fuoco. Le vene e
i muscoli delle braccia quasi emergevano evidenti dalla pelle. Butch dirigeva un'orchestra
anche quando parlava... Rimeditava addirittura le proprie frasi, anche con pause
definite, a marcare ciò che un attimo dopo avrebbe espresso proprio come un silenzio
tra una pagina e un'altra di un suo arrangiamento.
L'ho ritrovato così ancor più energico e motivato, saggio e ironico quando lo riteneva,
nel corso del triennio 2006-2008
ospite a Sant'Anna Arresi in Sardegna per il festival Ai Confini tra Sardegna e
Jazz.
Si usciva insieme la sera, si assisteva comodamente ai concerti sorseggiando sempre
con qualcosa da bere in mano, oppure si andava al mare di buon mattino, presso certe
calette irraggiungibili a strapiombo su scogliere nascoste dalla statale. Luoghi
in un primo momento apparentemente anonimi ma che Butch conosceva molto bene per la
frequenza e l'affetto che lo legava al festival sardo ma soprattutto alle persone
che ne realizzavano il cartellone. Si. Butch si dimostrava anche amicone e cordiale
con chi lo avvicinava al bar condividendo qualche buon bicchiere di vino o al ristorante
mangiando del pesce appena pescato.
Gli argomenti che esternava erano trai più vari. Toccavano la politica e il disarmo,
il razzismo e la poesia. Oppure incuriosito chiedeva lui sullo stato e la condizione
del mostro Paese.
Anche le notti del dopo concerto, si trascorrevano così. Discutendo animosamente
di certi colleghi americani dei quali per correttezza non diceva il nome che nei
tempi passati criticarono le sue scelte, tra le quali quella di abbandonare la tromba
per le proprie idee compositive o di essere troppo rigido nella propria visione
personale riguardo la sua musica rischiando spesso l'incomprensione anche da parte
degli addetti ai lavori. Ribadiva inoltre che "non si sarebbe mai prostituito davanti
a compromessi che altri musicisti hanno vergognosamente accettato".
Non era un suo vanto ma ci teneva a sottolineare, quando poteva, questo suo tipo
di integrità.
Butch in Sardegna amava avventurarsi a piedi effettuando un percorso lunghissimo
di quasi un'ora che andava dalla spiaggia di Porto Pino, nei pressi della quale
si svolgevano le prove delle sue conduction, fin sopra al paesino, raggiungendo
infine il palco dove si svolgeva il festival di Sant'Anna Arresi. Diceva che pur
non separandosi mai dai suoi toscani, era comunque salutare compiere questo gesto
quotidiano che lo riconnetteva col mondo, con la natura.
L'intervista
concessa al sottoscritto nell'estate del 2008
che qui potete
leggere è il frutto di una lunghissima disquisizione durata ben due ore
sulla sua conduction. Il suo sogno era quello di pubblicare un libro rappresentativo
ed esplicativo delle proprie concezioni portate avanti in più di trent'anni di studio
e di scrittura profonda del proprio materiale.
Purtroppo attualmente l'uscita del volume "Conduction Workbook" di cui ampliamente
si parla nell'intervista, non ha visto ancora la luce per la complessità dell'opera
e per le molteplici rivisitazioni che lo stesso Morris operava nella continua ottimizzazione
del progetto.
Il lavoro di un'intera vita che non si sa bene se abbia subito uno stop considerata
la scomparsa del Maestro ma che ci auspichiamo sia presto edito negli States e in
contemporanea anche in Italia grazie all'accurata traduzione di Daniela Veronesi.
Ci piace comunque pensare che Butch Morris sia stato un innovatore puro.
Uno di quelli che mai scese a compromessi di qualsiasi sorta. E questo non perché
lo ha decretato la Penguine Guide to Jazz o qualche raro lungimirante articolo di
trent'anni fa uscito per Down Beat.
Butch, seguendo il suo affascinante istinto e il pericoloso gusto del rischio,
ha mosso con passione e infaticabile dedizione un originalissimo linguaggio che
a compimento di un lavoro quaratennale riteneva ancora perfettibile e mutabile di
variazioni. Morris lo ha affrontato coraggiosamente infischiandosene delle correnti
accomodanti che tra gli anni Settanta e questo nuovo secolo si sono susseguite nell'affollato
vocabolario del jazz. A questo progetto, quello della conduction, si è dedicato
con rigore e precisione indiscutibile, scegliendo accuratamente volta per volta
i musicisti, i luoghi, i progetti e le intenzioni. Sfidando la propria natura con
ideali irraggiungibili di bellezza e ricercatezza fino a raggiungere vette estreme
difficilmente realizzate da altri compositori.
Seppur apprezzando il lavoro altrui, Butch Morris resterà nel suo ideale
e inattaccabile rifugio, sempre un "non allineato" col mondo, avendo portato a compimento
una preziosa parte di quello che tiene ancora in piedi lo spirito, il vortice e
la rivoluzione storica della musica afroamericana.