Intervista a Jean-Luc Ponty
Roccella Jonica, 22 agosto 2009
di Vincenzo Fugaldi
foto di Sergio
Cimmino
Sei stato uno dei primi musicisti europei ad avere un
grande successo internazionale, in particolare negli Stati Uniti, negli anni '70.
Vuoi ricordare quel periodo?
È stato davvero entusiasmante, perché c'era molta sperimentazione: era lo spirito
del tempo. Avveniva nella società, con i movimenti per cambiarla, ed era lo stesso
nell'arte e nella musica. Erano gli artisti a tracciare la strada, mentre oggi sono
gli uomini d'affari a decidere ogni cosa. Tutti, nei programmi radio, i dj, le case
discografiche, specialmente in America, erano veri appassionati di musica, molto
spesso musicisti loro stessi, così noi eravamo totalmente liberi di esplorare, di
sperimentare, e infatti le novità erano molto apprezzate. Sono arrivato negli Stati
Uniti verso la fine di quel periodo di libertà per gli artisti, ma in tempo utile
per avere un contratto discografico, crearmi un pubblico e gettare le basi del mio
successo.
Hai creato un nuovo stile per il violino, ed hai anche
introdotto il violino elettrico nel jazz. Come sei arrivato a realizzare tutto questo?
Ho iniziato suonando il clarinetto. Quando ho cominciato
a interessarmi al jazz, non conoscevo alcun violinista che lo praticasse, così le
mie influenze furono trombettisti, sassofonisti, pianisti. C'era già l'hard bop,
e subito dopo arrivò l'avanguardia.
John Coltrane
formava il suo gruppo, lo ascoltai dal vivo a Parigi. C'erano anche Miles Davis,
Tony Williams,
Herbie Hancock,
Chick Corea,
e quella fu la musica che mi affascinò. Ecco perché ho adattato il violino al jazz.
I musicisti manouche hanno adattato il jazz ai loro strumenti, cercando un modo
europeo di suonare. Io ho fatto l'opposto, il che mi ha indotto ad usare il violino
elettrico, scelta che è iniziata con la necessità di un volume più alto, poiché
suonavo con batteristi che percuotevano con energia come se accompagnassero un sassofonista.
Ma dal giorno che ho usato l'amplificazione mi sono reso conto che il suono era
differente, che non potevo riprodurre un vero suono acustico. Non era una cosa negativa,
forse avere un suono più forte era anche meglio per suonare jazz moderno. Usando
l'amplificazione poi, ho attirato l'attenzione di alcuni musicisti rock come
Frank Zappa, anche se io non ascoltavo quel genere musicale. La mia generazione
di musicisti jazz è la prima cresciuta nell'era del rock'n roll, per questo abbiamo
maturato l'idea di usare gli strumenti elettrici. Poiché noi jazzisti improvvisiamo,
e i musicisti rock erano interessati all'improvvisazione jazzistica, collaborammo
con gruppi come quelli di Zappa e McLaughlin. Negli anni
'70 in California c'era molta sperimentazione
nel campo dell'elettronica, e a volte mi piaceva il suono che producevo, mi spingeva
a comporre certi brani per incorporare il sound elettronico. Non era più possibile
per me suonare acustico, ero in una fase della mia vita totalmente elettronica,
ma ora sono cambiato, sono tornato a esercitarmi al violino acustico e utilizzo,
a volte, solo un po' di effetti per dare un colore moderno alla musica.
George Duke, Frank Zappa e John Mclaughlin sono tre figure
molto importanti per la tua evoluzione musicale.
Con George abbiamo iniziato insieme in California, lui era giovane e sconosciuto
e veniva da San Francisco nel periodo in cui io arrivavo a Los Angeles già con un
contratto discografico. Aveva mandato un demo alla mia etichetta, il produttore
ci mise in contatto, e fu come magia: ci ingaggiarono per suonare in un club a Los
Angeles, George arrivò e non facemmo alcuna prova, avevamo solo una lista di standard
e di blues e iniziammo a suonare in jam come se avessimo suonato insieme per anni.
Il motivo era che lui mi conosceva già, aveva ascoltato le mie incisioni per l'etichetta
tedesca MPS. In quel periodo il produttore Richard Bock aveva la principale
etichetta jazz della West Coast, la Pacific Jazz, per la quale incidevano
Wes Montgomery e
Chet Baker.
Ma era interessato alla musica indiana, produceva anche Ravi Shankar, fu
il primo a farlo conoscere in Occidente. Aveva anche un'altra etichetta, la World
Pacific. Fu lui a spingermi verso diversi territori musicali. Io ero interessato
solo al bebop, all'hard bop, e non volevo ascoltare musica pop, ma stranamente lui
mi convinse a provare a suonare qualcosa di differente. Nel corso di una delle nostre
lunghe discussioni, fece il nome di Frank Zappa. Zappa era molto conosciuto
- anche in un periodico jazzistico francese c'era un articolo su di lui - perché
la sua musica era diversa, era già una sorta di fusion. Richard organizzò un incontro,
e chiese a Frank di produrre un mio disco, e di scrivere e arrangiare la musica
["King Kong", n.d.r.]. Frank scelse tutti i musicisti, e la mia unica richiesta
fu quella di portare con me George Duke. Fu così che Frank ascoltò George,
e gli piacque moltissimo, tanto che in seguito lo inserì nella sua band. Poi c'è
McLaughlin, che aveva già letto di me sulla stampa specializzata in Inghilterra,
perché avevo suonato al Ronnie Scott. Ci siamo incontrati a New York, quando
suonava col Lifetime Trio di Tony Williams, sempre nel
1969, subito dopo la mia registrazione con
Frank Zappa.
Ero
andato ad ascoltare il Lifetime Trio dal vivo al Village Vanguard,
dopo il concerto ci siamo presentati, così quando lui e Billy Cobham costituirono
la Mahavishnu Orchestra pensarono a me come violinista. Ma sarebbe stato
complicato, perché vivevo in Francia, e loro stavano costituendo la band con pochi
soldi, iniziavano proprio come una garage band. Ecco perché scelsero Jerry Goodman,
che apportò un bel contrasto all'energia del gruppo. In seguito Zappa mi ingaggiò
per un tour nel 1973, e decisi di stabilirmi
a Los Angeles. Lì c'era molto lavoro, diversamente dalla Francia, e io ero sposato
e avevo due bambini, così vi trasferii la mia famiglia.
Dal 1975 al 1985 hai registrato dodici album per l'Atlantic.
Non sapevo se stessi sognando o se fosse vero. Pochissimi musicisti jazz europei
avevano avuto successo negli Stati Uniti sino ad allora. Quando mi sono trasferito
negli Stati Uniti decisi di scrivere la mia musica e costituire una mia band, nel
1975. Non mi aspettavo di avere un tale successo:
l'anno dopo avevo il mio album in classifica, e iniziavo a suonare nei teatri, improvvisamente
iniziava una grande carriera. Così capii che il mio sogno era diventato realtà.
È stato un periodo molto importante nella mia vita.
In seguito hai suonato in concerto e registrato con musicisti
africani …
Nel 1988 ero in tour in Europa con la mia
band e quando suonai a Parigi una giornalista mi chiese se conoscevo i musicisti
africani lì attivi. Dissi di no, perché tornavo in Francia solo per pochi giorni
per dei concerti o per rivedere la mia famiglia e non avevo contatti con la scena
musicale locale. A metà degli anni '80 un certo
numero di musicisti delle ex colonie francesi si erano trasferiti a Parigi. La giornalista
ne aveva intervistato alcuni e il mio nome compariva spesso nelle loro risposte.
Ciò mi incuriosì, chiesi i loro nomi, ed erano in particolare cantanti come Salif
Keita. Acquistai i loro dischi, e scoprii che ad accompagnare i cantanti c'erano
dei buoni musicisti. Ne contattai alcuni e misi su un gruppo con strumentisti di
paesi dell'Africa occidentale come il Camerun, il Mali, il Senegal. Chiesi loro
di insegnarmi ad ascoltare le musiche dei propri paesi. Mi fecero ascoltare i loro
ritmi e le melodie, provai a improvvisare con loro e a volte fu molto facile, perché
potevo sentire le radici del jazz, mentre a volte li sentivo estranei, molto difficili
da comprendere. Ma ero entusiasta, e ne parlai alla mia etichetta, che all'epoca
era la Epic. A loro l'idea piacque, così mi produssero un album, e portai quei musicisti
in tour in America per otto settimane, solo io e i musicisti africani, senza tastiere
o altro. Era una musica con strumenti tradizionali come il balafon, e chitarra e
basso elettrici, e mi sentivo come se fossi di nuovo studente, dopo così tanti anni
di carriera. Stavo imparando nuovi ritmi, concentrandomi su di essi, come quando
scoprivo il jazz provenendo dalla musica classica. Mi piacque talmente che da allora
ho preso alcuni musicisti africani nella mia sezione ritmica, perché alcuni di loro
sono in grado di suonare qualsiasi cosa.
Provi mai nostalgia per il tuo paese nativo nella Bassa
Normandia?
No, in realtà ho di nuovo una base in Francia, a Parigi, da circa dieci anni,
e ho ripreso i contatti con i miei amici di gioventù, nel mio paese natio. Sono
stato anche a suonare nella mia città, invitato dal sindaco. Mi piace viaggiare
per il mondo, incontrare gente diversa, sapendo che posso ritrovare le mie radici.
Viaggiare e vedere le differenze mi ha fatto apprezzare maggiormente il mio paese,
e comprendere ciò che è buono e ciò che lo è meno nella mia cultura.
Hai in progetto delle collaborazioni con dei musicisti
europei?
Ho rincontrato il pianista tedesco Wolfgang Dauner, un fantastico compositore,
molto lirico e poetico, e mi ha molto emozionato suonare con lui in un duo acustico.
È un'esperienza che forse si ripeterà.
05/09/2010 | Roccella Jazz Festival 30a Edizione: "Trent'anni e non sentirli. Rumori Mediterranei oggi è patrimonio di una intera comunit? che aspetta i giorni del festival con tale entusiasmo e partecipazione, da far pensare a pochi altri riscontri". La soave e leggera Nicole Mitchell con il suo Indigo Trio, l'anteprima del film di Maresco su Tony Scott, la brillantezza del duo Pieranunzi & Baron, il flamenco di Diego Amador, il travolgente Roy Hargrove, il circo di Mirko Guerini, la classe di Steve Khun con Ravi Coltrane, il grande incontro di Salvatore Bonafede con Eddie Gomez e Billy Hart, l'avvincente Quartetto Trionfale di Fresu e Trovesi...il tutto sotto l'attenta, non convenzionale ma vincente direzione artistica di Paolo Damiani (Gianluca Diana, Vittorio Pio) |
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Data pubblicazione: 31/05/2010
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