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Intervista con Ferdinando Faraò e concerto della Artchipel Orchestra
Suoni, immagini e suggestioni nell'arcipelago musicale di Ferdinando Faraò

Fasano Jazz Festival – XVII edizione - 7 giugno 2014
di Alessandra V. Monaco
foto di Simonetta Salinari

A conferma delle scelte artistiche intraprese e coerentemente portate avanti negli anni, il programma della XVII edizione del Fasano Jazz ha visto tra i protagonisti l'Artchipel Orchestra diretta da Ferdinando Faraò: una formazione unica nel suo genere, impegnata nel valoroso percorso di rivisitazione in chiave jazz del repertorio progressive rock legato alla scuola di Canterbury. E non solo. Perché, quando alla guida di una portentosa big band c'è un musicista eclettico del calibro di Ferdinando Faraò, ci si può aspettare davvero di tutto. La chiacchierata fatta con lui prima del concerto ne è la dimostrazione.

Come nasce l'ambiziosa idea di mettere insieme tanti musicisti in un grande ensemble?


L'idea nasce contestualmente all'AH-UM Jazz Festival di Milano e a C-JAM, l'Associazione che lo ha animato e che ha visto tra i fondatori Paolo Botti (che fa anche parte dell'Orchestra), Alberto Tacchini e Tito Mangialajo, musicisti che ruotano attorno alla scena musicale milanese. Nel 2010 ricorreva il decimo compleanno dell'Associazione e, per celebrare l'evento, l'attuale direttore artistico del Festival (Antonio Ribatti, ndr) mi chiese di fare qualcosa di speciale. Così mi venne l'idea di radunare un gruppo di musicisti e fare un concerto. Suonammo una mia partitura intitolata Orecchie Unite. La serata andò molto bene e così nacque l'idea di proseguire in questa avventura: non è stata una cosa pensata a tavolino, si è evoluta abbastanza naturalmente. All'inizio ci siamo concentrati sul repertorio di Mike Westbrook e in particolare su una sua opera del 1998, Platterback, che avevo avuto modo di vedere - e apprezzare tantissimo - al Teatro di Porta Romana a Milano. Gli spartiti per piano e voce ce li ha forniti lo stesso Westbrook. In seguito, con Alessandro Achilli abbiamo pensato di portare avanti un lavoro su Alan Gowen, grande compositore legato alla scuola di Canterbury, di cui l'anno dopo, nel 2011, ricorreva - purtroppo - il trentesimo anniversario della scomparsa. Abbiamo contattato Aymeric Leroy - massimo esperto di musica canterburiana al mondo - per poter avere le partiture di Gowen: realizzarle con una grande orchestra era il suo sogno nel cassetto. Lui purtroppo è prematuramente scomparso e non è riuscito a farlo. In qualche modo, ci abbiamo provato noi: ho arrangiato le sue musiche per big band e abbiamo inciso il primo disco con l'Artchipel Orchestra, Never Odd or Even (2012, ndr). E adesso andiamo avanti, non ci siamo ancora fermati.

Invece, il nome Artchipel?
È un nome francofono, di origine creola, che indica l'arcipelago. È stato scelto in riferimento a quell'edizione dell'AH-UM Jazz Festival che ha fatto nascere questa realtà e che si svolgeva nel quartiere di Milano chiamato Isola. Inoltre, la conformazione stessa dell'orchestra fa pensare ad un arcipelago: tante piccole isole come tanti musicisti provenienti da diverse esperienze. Molti componenti dell'Artchipel non avevano mai suonato insieme prima, ma volevo proprio riunire persone che tra loro non si conoscessero. Le differenze creano ricchezza. Per cui, c'è il musicista che arriva dal jazz un po' più legato al mainstream, quello che invece è più legato alla musica d'avanguardia, qualcuno un po' più conservatore, qualcun'altro più progressista etc. In sostanza, abbiamo lavorato insieme su un piano per tutti nuovo, visto che pochi di loro, anzi, quasi nessuno, conosceva questo repertorio. E ha funzionato.

E come si suona un repertorio progressive rock in chiave jazz?
Il jazz è un po' come una casa che accoglie qualsiasi cosa, la sua bellezza è proprio questa. Ha un grande forza di inglobamento. Quindi non è difficile. Il fatto che questo repertorio sia suonato da un'orchestra jazz è un valore aggiunto: Il jazzista ha nel suo modo di porsi una spontaneità, un'estemporaneità che dà leggerezza e ironia a tutto, cosa che invece manca nel prog, dove i musicisti si prendono molto sul serio. D'altronde stiamo parlando di musicisti che il jazz lo ascoltavano. I Soft Machine sono nati nel momento in cui è scomparso un grandissimo maestro, John Coltrane. Quindi è un passaggio che hanno sicuramente ereditato.

Parliamo del concerto pensato per il Fasano Jazz. Qual è la particolarità?
In questa serata ci sono degli elementi che per la prima volta abbiamo modo di realizzare, come le visuals di Fabio Volpi, create appositamente per Artchipel. E poi gli ospiti: Keith e Julie Tippett. È la prima volta in assoluto che li incontriamo e ne siamo onorati, veramente. Quindi la partecipazione di Artchipel al Fasano Jazz ha sicuramente la sua esclusività.

Come interagiscono musica e immagini?
In modo molto semplice. Fabio Volpi ha lavorato sulla musica e sugli arrangiamenti che gli abbiamo dato. Ci ha ascoltato, ci ha seguito e ha creato queste mappature visuali - a volte astratte, a volte con riferimento a immagini reali - che interagiscono con l'orchestra grazie a un programma che segue i cambiamenti sia ritmici sia di intensità dell'orchestra e che quindi rende tutto più dinamico. Ha il suo aspetto spettacolare, ma la cosa non è mai gratuita: serve a creare un filo conduttore e a dare unicità al tutto.

In effetti, il filo conduttore sembra non mancare mai nella tua produzione.
Ho fatto sempre progetti a tema. Ho prodotto tre dischi utilizzando la formula della suite e del concept album: il primo dedicato a Maurits Cornelis Escher, grafico e incisore olandese, il secondo al grande pittore Jackson Pollock, il terzo – ricorrendo il bicentenario della nascita di Darwin – dedicato al vecchio scienziato inglese.

Ma tra arti visive e musica c'è una particolare connessione?
Tra tutte le arti esistono punti di connessione: i linguaggi sono collegati tra loro. Per quanto riguarda il rapporto tra immagini e musica, basti pensare al fatto che molti pittori erano anche musicisti: Paul Klee, ad esempio, suonava il violino e Kandisky aveva riferimenti musicali nelle sue opere.

Cosa pensi della scena jazz in Italia?
Mi sembra molto attiva. Concerti e festival se ne fanno. Ci sono musicisti che sono cresciuti molto e che contribuiscono notevolmente: soltanto quindici anni fa (non cinquanta, quindici) sarebbe stato difficile poter realizzare a Milano il progetto dell'Artchipel. Inoltre, tantissimi musicisti italiani stanno conquistando riconoscimenti a livello internazionale. Quindi la situazione è positiva. Forse non c'è ancora molta voglia di rischiare sui contenuti da parte degli operatori, ma anche in questo senso si sta muovendo qualcosa.

Perciò manifestazioni come questo festival sono importantissime.
Assolutamente sì. Il Fasano Jazz, con la direzione artistica di Domenico De Mola, è fantastico. Noi siamo contentissimi. Siamo rimasti esterrefatti per l'organizzazione, per l'accoglienza, la disponibilità. Veramente notevole.

Per concludere: prossimi progetti?
Un disco che uscirà per Musica Jazz, focalizzato sul repertorio dei Soft Machine – con composizioni estratte prevalentemente dal loro terzo album, Third (1970) - riproposto in chiave jazz. Contiene brani di Hugh Hopper, alcuni arrangiati da me, come Facelift, Mousetrap, Kings and Queens, altri arrangiati da Giuseppe Barbera (pianista dell'Artchipel), come Noisette e Dedicated to you but you weren't listening. E poi, quella che io definisco una perla, Moon in June di Robert Wyatt, nella trascrizione di Giovanni Venosta, di cui ho curato l'arrangiamento.
Inoltre, con Artchipel, mi piacerebbe portare avanti il lavoro iniziato su Mike Westbrook, visto che di Platterback abbiamo realizzato soltanto i primi tre brani. In realtà ce ne sono molti altri, è un'opera estesa, un piccolo musical con personaggi un po' grotteschi, metafore etc.: davvero interessante. Infine, vorrei riprendere e registrare un progetto realizzato con dei cantanti africani: un lavoro iniziato cinque anni fa, ancora prima che cominciasse l'esperienza di Artchipel. Mi ci dedicherò contestualmente a un viaggio in Africa.

ARTCHIPEL ORCHESTRA diretta da Ferdinando Faraò
"Canterbury & Soft Machine"
Ospiti: Keith & Julie Tippett

Marco Mariani, Gianni Sansone - trombe
Massimo Cavallaro, Rosarita Crisafi, Massimo Falascone, Paolo Profeti - sassofoni
Francesca Petrolo - trombone
Simone Mauri - clarinetto basso
Carlo Nicita - flauto traverso e ottavino
Paolo Botti - Eloisa Manera - archi
Mariangela Tandoi - fisarmonica
Massimo Giuntoli - tastiere
Beppe Barbera - pianoforte
Giampiero Spina - chitarra elettrica
Gianluca Alberti - basso elettrico
Lorenzo Gasperoni - percussioni
Stefano Lecchi - batteria
Naima Faraò, Serena Ferrara, Giusy Lupis, Filippo Pascuzzi - voci
AU + Fabio Volpi e Rosarita Crisafi
: visuals

L'arcipelago musicale si rivela in tutta la sua bellezza armonica aprendosi al pubblico nella Shining Water (non a caso) di Alan Gowen. L'interazione tra le sezioni strumentali è sublime: voci ed archi si levano all'unisono, i fiati dirompono, gli assoli di sax e flauto traverso creano, di volta in volta, un ponte tra le diverse sonorità. Sullo sfondo, le alchemiche proiezioni visive di Fabio Volpi seguono la ritmica, esplodono nei passaggi più intensi e rendono l'ascolto un'esperienza totalizzante. Lo spettacolo (perché di spettacolo si può parlare) prosegue sulle note di Arriving Twice (ancora Gowen) e di Moeris Dancing, brano di Fred Frith che, col suo incedere energico e serrato, toglie letteralmente il fiato all'orchestra e al suo direttore che, approfittando della pausa di ripresa, presenta i vari musicisti e annuncia il brano successivo: Big Orange, toccante composizione di sua firma - dedicata allo scomparso batterista Pip Pyle - piena di un pathos che raggiunge il climax nelle sonorità dominanti della viola.

Chiude la prima parte del concerto (incentrata sul repertorio canterburiano), scrivendo il prologo per la seconda (focalizzata sull'opera dei Soft Machine), l'altissima Moon in June di Robert Wyatt, il cui "faraònico" arrangiamento va oltre la prospettiva prettamente jazz rock, inglobando passaggi da opera omnia della storia musicale. L'ingresso in scena di Keith e Julie Tippett scrive il resto. Con discrezione ed eleganza i due artisti si inseriscono nell'orchestra, ritagliandosi il loro spazio mai ingombrante, ma dai contorni decisamente inconfondibili.

Sulle quattro composizioni di Hugh Hopper - Facelift, Mousetrap, Kings and Queens, Noisette - e su Cider Dance (di Tippet), il magnetico piano di Keith e l'incantevole voce di Julie dialogano a distanza, creando un flusso sonoro che congiunge e raccorda ogni angolo dell'arcipelago. Nel finale a sorpresa, un Happy Birthday per Mrs. Tippett e un accenno di Mah-nà Mah-nà (con tanto di collettivo Muppett sullo sfondo), prima dell'immancabile bis che chiude e suggella una magnifica atmosfera.







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Data pubblicazione: 30/06/2014

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