Open World Jazz Festival Ivrea 17-18-19 ottobre 2013
di Gianni Montano
L'Open World Jazz Festival giunge alla trentaquattresima edizione e propone tre
serate coerenti con la linea portata avanti dal Music Studio e dal direttore artistico
Massimo Barbiero.
Nella prima serata, a Banchette, si
celebra il connubio fra Maurizio Brunod ed
Enrico Rava.
I due sono reduci da alcuni concerti tenuti durante l'estate nel Nord Ovest e sono
accolti in modo festoso dalla platea della sala "Pinchia", per la consuetudine dei
rapporti con il chitarrista e per il prestigio del suo partner. Brunod cuce le fila
del discorso e organizza un programma a servizio del trombettista. E' lui il regista
dell'incontro, quello che definisce la scaletta del concerto, il carattere prevalente
dell'esibizione e il campo dove situare il confronto. Siamo sostanzialmente di fronte
a una sorta di omaggio a
Enrico Rava,
alle sue passioni, alle sue inclinazioni. Dal suo repertorio vengono ricavati, infatti,
alcuni pezzi degli anni Settanta, non fra i più noti, ma sicuramente significativi.
Viene sottolineato il feeling con la musica brasiliana, un vero pallino per il musicista
triestino. Non possono mancare brani del repertorio di Miles Davis e di
Chet Baker,
i modelli di riferimento del musicista torinese. La chitarra svolge un lavoro prezioso
e sofisticato, costruendo un tappeto ritmico e armonico diritto e trasversale, su
cui può prendere agevolmente il volo il Rava "Aladino": dalla sua tromba esce un
fraseggio limpido oppure opaco, brillante o malinconico, ma sempre collegato all'
epopea della musica afroamericana. Ogni nota racconta una storia, un particolare
indicativo del percorso artistico di un monumento vivente del jazz italiano. Il
musicista valdostano è preciso e meticoloso nella costruzione di una specie di gabbia
fissa o mobile, in cui deve inserirsi la voce magica e ispirata che scaturisce dal
tubo di ottone. Ogni brano è pensato per una determinata chitarra, dall'acustica,
alla semiacustica all'elettrica, all'uso misurato della loop station. E' un continuo
cambio di strumento alla fine di ogni pezzo. Si distinguono, fra le altre, "All
Blues" sdoganata dal carattere sacro e sospeso nel tempo della versione di Davis,
qui arricchita, per contro, da un andamento vagamente rockeggiante, sostenuto con
lo spirito giusto. "Just Friends" è rallentata alquanto, rispetto all'esecuzione
tradizionale, ma acquista nuove sfumature. Si chiude con una "Night And Day"
resa abbastanza fedelmente, come bis di un'esibizione gradita dal pubblico presente.
Per Brunod è il coronamento di un sogno affiancare un idolo, un personaggio di riferimento
della sua infatuazione per il jazz dall'età di diciannove anni in poi. Per Rava
è l'occasione per ritornare indietro e rispolverare principalmente la sua vena compositiva,
tante volte trascurata a vantaggio di originals pensati da altri o per dedicarsi
a classici evergreens. Gli applausi finali convinti e partecipi certificano
la riuscita dell'esordio del festival.
Il 18 ottobre, ancora a Banchette, entrano in azione Giovanni
Guidi e Gianluca
Petrella, di cui è uscito recentemente un cd molto apprezzato: "Soupstar".
Qui i due giovani leoni sono da soli sulla scena, senza l'ausilio degli effetti
elettronici, come nel disco citato. Il concerto si snoda come una libera improvvisazione
che, a tappe concordate, tocca alcuni motivi presenti nell'album. Giovanni Guidi
conferma la sua predilezione per un pianismo introspettivo dai colori scuri, adeguatamente
articolato, con periodiche scorribande atonali, come sbocco di un discorso preparatorio
su un registro più raccolto. In alcuni brani viene in luce, invece, la sua propensione
verso temi semplici, orecchiabili, su cui fermarsi a lungo, salvo poi muovere da
lì per esplorazioni più azzardose.
Gianluca Petrella,
da parte sua, offre un campionario di scienza trombonistica applicata; sa fare tutto
per mezzo della sua propaggine con la coulisse: note doppie, triple, multiple, sale
ad altezze vertiginose o, più spesso scende in basso, mai perdendo il senso del
ritmo o la volontà di rimanere ancorato ad uno swing più o meno evidenziato, ma
palpabile. Il suo trombone è melodico e antimelodico, politonale, sporco, eterogeneo
o puro, chiaro e cristallino. Si esibisce in un solo con sordina, attraverso la
respirazione circolare, di rara plasticità e bellezza. Si distinguono, fra
gli altri pezzi, impastati nel flusso continuo del dialogo a due, "Over the rainbow"
e "Pom pay" di Ricardo Vilalobos. Il finale, gioioso, è riservato a "You
ain't gonna know me ('cos you think you know me)" di Dudu Pukwana, tirato per
le lunghe, contrariamente alla breve esecuzione contenuta nel cd, accattivante e
coinvolgente nella sua cantabilità. Gli spettatori, non numerosissimi, decretano
il buon successo di un concerto sicuramente riuscito. Tutto bene, quindi, tutto
secondo le aspettative? Certamente sì, anche se sembra che i due abbiano trovato
una formula vincente e la replichino senza sforzo, sfiorando la ripetitività. Da
artisti così dotati ci si può attendere il tentativo continuo di mettersi in gioco,
in discussione, evitando di guardarsi e rimirarsi troppo allo specchio...
La terza serata il teatro Giacosa di Ivrea offre un colpo d'occhio
davvero soddisfacente. C'è il pienone per Odwalla. Per la cittadina del canavese
questo evento sta diventando una sorta di appuntamento da non perdere, come la battaglia
delle arance a carnevale. Lo spettacolo segue un copione già rodato con, ogni volta,
alcuni elementi di novità. E' ospite, ad esempio, il batterista e percussionista
messicano Israel Varela, che si presenta in scena con un tempestoso solo
di batteria e suona, poi, come se avesse sempre condiviso il palcoscenico con Barbiero
e soci. Al trio di cantanti abituali, si aggiunge Gaia Mattiuzzi, la voce
di una avanguardia colta, accanto a due rappresentanti di un canto jazz meno ondulato,
ma solido, la Conti e la Olivieri e alla ricercatrice di una sperimentazione poggiata
sulla cultura popolare della terra d'origine e non solo, Marta Raviglia.
Pure fra i ballerini ci sono delle new entry, ma è Sellou Sordet, come al
solito, a guidare le danze e a visualizzare con movimenti idonei quanto produce
la macchina percussiva subito dietro. Massimo Barbiero
accentua l'importanza del quartetto di cantanti, a cui affida una parte trainante
dell'esibizione. Per il resto si va avanti con la riproposizione dei cavalli di
battaglia, dove lo scambio di ruolo fra i musicisti, con un polistrumentismo diffuso
procede quasi in automatico, secondo un meccanismo oliato a dovere, ma in ogni occasione
la musica che si sente è, comunque, un po' diversa rispetto all'esperienza precedente.
Si distinguono i riferimenti al progressive rock degli anni Settanta, alla musica
di Stravinskij come al patrimonio etnico asiatico o africano. Questo è Odwalla.
Non lo scopriamo certo oggi. Il pubblico va letteralmente in delirio, però, nel
momento in cui prendono in mano la situazione i tre africani battendo sui loro tamburi
e invitano tutti ad accompagnare il ritmo battendo le mani. Alla fine è un trionfo
scontato e annunciato. E' la conclusione di un rito che esalta la prossimità di
idioma fra quanto si produce a Ivrea e il continente nero. La lontananza, in questo
frangente, è solo geografica.
Al pomeriggio Alberto Bazzurro è il moderatore di un convegno
dal titolo "Odwalla, l'Africa e la contemporaneità". Gli interventi dei relatori
e il dibattito vertono su aspetti musicali e extramusicali con uno sguardo non scontato
verso i problemi dell'integrazione, anche sollecitato dal fresco ricordo degli avvenimenti
di Lampedusa. Alle tante vittime di questa tragedia del mare e della disperazione,
viene dedicato, infatti, il concerto serale. Al termine dell'incontro il gruppo
locale "Satoyama" si esibisce in un jazz rock non certo dozzinale su brani
originali dei componenti. Nella chiesa di Santa Marta, poi, sono esposte le foto
di sette illustri fotografi, con il coordinamento di Luca D'Agostino, per
i 25 anni di Odwalla. Sono bellissimi scatti impegnati a fermare il gesto, il movimento
di una performance difficile da bloccare, da fissare in un istante preciso.
Una curiosità, in conclusione. Alla precisa domanda di Bazzurro
"Se non faccio male i conti, Odwalla è stato fondato nel 1989. Quest'anno compie
24 anni, non 25. Come mai questo anticipo? " Barbiero risponde: "Hai ragione,
ma temevo una chiusura del festival nel 2014 e mi sono messo a vento..." Auspichiamo
che la rassegna, invece, continui e conduca avanti una tradizione lungamente consolidata.
In realtà si conoscono già le date dell'appuntamento primaverile, attorno a metà
marzo. Con i tempi che corrono c'è da essere, perciò, abbastanza ottimisti sulla
prosecuzione dell'open, almeno fino all'anno venturo.