Giunto al sesto album da leader, con Blue of
mine,
Felice Clemente ha raggiunto, nella doppia veste di sassofonista
e compositore, una consapevolezza che lo porta ad evitare approcci scontati per
colpire in pieno il bersaglio utilizzando il proprio virtuosismo (influenzato da
maestri come
Sonny Rollins, Joe Henderson e
Wayne
Shorter) per percorrere a modo proprio le strade del passato, con sguardo
nuovo e penetrante. Blue of mine si propone così come un affresco formicolante
di idee, suoni, ritmi e colori sempre cangianti – dal post bop più energico a echi
latin e afro, da suggestioni neoromantiche a un lirismo asciutto che punta dritto
al cuore melodico dei brani. Un affresco che trova il suo mastice soprattutto nella
forza di uno stile ormai maturo, capace di tenere insieme con coerenza struggenti
tenerezze e improvvise accensioni, rigore e libertà esecutiva, amalgamando il tutto
con la perfetta empatia tra i musicisti, che si destreggiano abilmente anche come
solisti. Del resto, si tratta di strumentisti del calibro di
Bebo Ferra
alle chitarre,
Massimo Colombo al piano,
Giulio Corini
al basso e
Massimo
Manzi alla batteria.
I nove brani di Blue of mine lasciano una traccia duratura nell'ascoltatore
sia per la loro grande forza espressiva sia per l'inesauribile emotività che ogni
brano possiede e che fa sì che ognuno dei piccoli riflessi della musica sprigioni
la verità e la bellezza di un emozione provata, di un ricordo serbato a lungo, di
un piccolo richiamo al sogno e all'innocenza. "Questo disco", osserva
Clemente
nelle note di copertina, "rappresenta per me il frutto e la fusione delle esperienze
e degli incontri musicali fatti finora, oltre che delle vicende importanti che hanno
segnato la mia vita e la mia carriera. Il tutto animato dalla profonda esigenza
di far incontrare le culture musicali che amo - il jazz, la musica classica, l'afro,
il latin e il tango - allo scopo di raggiungere l'anima di tutti coloro che sanno
lasciarsi attraversare dal flusso dei suoni, senza frapporre filtri e fisime concettuali,
ma solo vivendoli pienamente con la naturalezza di un respiro o del battito del
cuore".
Blue è la parola chiave del tuo ultimo album: fa parte del titolo del
cd e del nome di uno dei brani più intensi, ma è anche la cromia predominante della
copertina. Una parola polisemica, ricca di significati. Blue è un colore, ma anche
uno stato d'animo, visto che in inglese significa malinconia, così come, soprattutto
in ambito jazzistico, viene spontaneo associarla alle blue notes...
Che cosa volevi comunicare con questa parola?
Blue rappresenta tutti quegli stati d'animo che il jazz, in tutte le sue sfaccettature,
suscita in me ogni volta che ne entro in contatto: dalla malinconia alla serenità,
dalla passionalità alla razionalità. Ma "blue" è anche il colore dell'elemento ispiratore
di questo disco, ovvero, l'orizzonte: quell'incantevole punto di congiunzione tra
cielo e mare, quella linea apparente dove si fondono due entità, terra e cielo,
completamente diverse ma compatibili in modo del tutto fluido e naturale. Quindi
"blue" diventa, in quest'ultima accezione, anche la metafora di quella fusione tra
stili che ricerco nella mia musica, una fusione che comunque non va confusa con
pratiche modaiole come il pastiche postmoderno.
Dopo "Danzon", pubblicato
nel tuo Live del 2007, hai inciso nel nuovo cd un altro brano di Tino Tracanna,
"Imaharat". Quali stimoli interpretativi ti danno le composizioni del tuo maestro?
Tino ha sempre rappresentato per me un punto di riferimento musicale e professionale.
Trovo che le sue composizioni siano molto profonde, ispirate e godibili, sia dal
punto di vista dell'interprete, sia dell'ascoltatore. Mi piace la sua ricerca della
melodia e della bellezza formale, rielaborata con soluzioni stilistiche e compositive
mai scontate e fedeli alla sua accesa sensibilità in continua evoluzione.
Mi sembra che in "Blue of mine" affronti in maniera
diversa, più ricercata e creativa, la relazione tra composizione e improvvisazione.
E' solo una mia impressione o c'è del vero?
Il rapporto tra composizione e improvvisazione in questo mio ultimo disco è effettivamente
molto più stretto. Ho cercato di creare nuove soluzioni nella composizione e nell'arrangiamento
che dessero alla mia musica una fluidità e una freschezza maggiori e che potessero
spingere i musicisti a sentirsi più liberi e coinvolti. E, infatti, c'e stata una
grande partecipazione e collaborazione da parte di tutti i musicisti coinvolti nella
realizzazione di Blue of mine. Credo e spero che ne sia venuto fuori un dialogo
aperto, privo di forzature e dogmi stilistici. Un'interazione dove ogni strumentista
ha avuto lo spazio per mettere in risalto le sue peculiarità.
Usi con sempre più frequenza il sax soprano, strumento
sul quale hai raggiunto un controllo invidiabile. Lo suoni di più per questioni
di colore e di timbro o per una particolare urgenza espressiva (penso, per esempio,
alla possibilità di muoverti meglio sui sovracuti)?
Considero il sax soprano uno strumento a sé, ricco di risorse, che va suonato
in maniera del tutto diversa dal sax tenore. Suonandolo si può passare dalla liricità
più profonda al fraseggio più grintoso. Inoltre, ho avuto un approccio davvero positivo
con il soprano. Già dalla prima volta che l'ho suonato, mi sono sentito a mio agio.
Per la prima volta in un tuo disco da leader, compare
la chitarra, suonata nell'occasione da un asso come
Bebo Ferra. Mi puoi
spiegare i motivi di questa scelta?
La scelta di Bebo ha dato alla mia musica e al gruppo una sonorità più ricca
e moderna per la varietà delle soluzioni timbriche e stilistiche che le sue chitarre
hanno immesso nel tessuto sonoro. Bebo è davvero un asso, uno dei massimi esponenti di questo strumento, e la sua
bravura, sensibilità e intelligenza musicale hanno arricchito molto il disco.
Quanto hanno inciso nella tua crescita musicale
Massimo Colombo,
Giulio Corini e
Massimo Manzi, i
tuoi partner in "Blue of mine", ma anche i musicisti con i quali suoni dal vivo?
Sono incredibili, riescono sempre a stupirmi per il talento, la spiccata sensibilità
e la rara generosità, una qualità, quest'ultima, indispensabile per riuscire a rimettersi
sempre in gioco, a non adagiarsi mai sui risultati raggiunti. Ogni volta che suoniamo
in studio e dal vivo non c'è mai routine, succedono sempre cose incredibili, sorprendenti.
Tra noi lo scambio di idee, suggestioni ed emozioni è continuo e sempre fertile.
E ciò è dovuto, oltre che alle loro indiscutibili qualità musicali, a un legame
di amicizia che dura ormai da anni.
Stai avendo un'attività live piuttosto intensa. Ultimamente
ti ho ascoltato in concerto un paio di volte e mi pare che i brani di "Blue of mine"
siano particolarmente efficaci anche dal vivo. Sei d'accordo?
È vero, questi brani hanno un'efficacia "live" notevole, perché hanno una struttura
compositiva che permette di dare molto spazio all'improvvisazione e all'interazione
tra i musicisti, di creare il giusto equilibrio tra i momenti più strutturati e
quelli liberi. Ogni concerto diventa così una continua sorpresa sia per noi che
per il pubblico.
Finiamo con un gioco. Se potessi fare un viaggio a ritroso
nel tempo, diciamo negli anni Sessanta, e scritturare quattro musicisti dell'epoca
con cui incidere un album, quali sceglieresti?
Domanda divertente ma anche molto ostica, non è affatto facile scegliere tra
i tanti musicisti degli anni Sessanta che mi hanno influenzato, che ho sempre ammirato
e con i quali sarebbe stato un sogno suonare. Fatta questa premessa, sto al gioco:
Bill Evans
al pianoforte,
Jim Hall alla chitarra, Paul Chambers al contrabbasso e
Elvin Jones alla batteria. Mica male, vero?
Enrico Pessina per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 18/04/2009
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