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Intervista a Massimo Colombo
di Alceste Ayroldi

photo by Roberto Cifarelli

A.A.: Quando hai pensato di fare della musica la tua professione?
M.C.: Ai tempi del liceo conducevo una vita musicale parallela abbastanza impegnativa, tra esami in conservatorio e concerti in diversi gruppi locali. La mia prima tournè l'ho fatta tra la quarta e la quinta liceo ed è quindi in quel periodo che ho iniziato ad affrontare l'attività professionale.

A.A.: Che ruolo ha la composizione nella tua evoluzione di musicista?
M.C.: Da quando ho iniziato a suonare (avevo circa otto anni) ho sempre improvvisato ed appena ho avuto i mezzi per poter scrivere, la composizione si è sempre alternata all'improvvisazione. Ho scritto parecchie raccolte di pezzi per pianoforte, studi, preludi, sonate, anche con forme che alternano la scrittura all'improvvisazione. Gli studi op. 66 sono la mia prima raccolta di brani per pianoforte e risalgono al 1988, da allora ho scritto oltre cinquecento brani di vario genere e stile, per formazioni semplici e complesse.

A.A.: Hai rivolto particolare attenzione alla musica elettronica ed alla musica etnica: cosa significano oggi per te questi generi musicali?
M.C.: La musica elettronica mi è sempre piaciuta perché il mio primo strumento è stato un organo elettronico. Nei primi gruppi suonavo i brani di gruppi italiani come PFM, Orme ed ero fanatico di Emerson Lake and Palmer. Il jazz non mi piaceva, avevo sedici anni e gli interessi erano completamente diversi. L'interesse per la musica etnica nasce invece dai diversi viaggi che ho fatto con mia moglie e che oggi continuo a fare anche con mio figlio. Ho visto una bella fetta di mondo e le conoscenze musicali extraeuropee sono tutte autentiche e trasposte nella mia musica.

A.A.: Con Walter Calloni e Stefano Cerri nasce il trio Linea C
M.C.: ...un favoloso trio che per i tempi ed i pregiudizi di questo paese era decisamente troppo avanti. Le composizioni erano complesse ma melodiche e lo spettacolo era completo, con una scenografia, le luci, i profumi. Ogni concerto era un viaggio vero e proprio, musica classica, etnica, funk rock, jazz, una miscela che richiamava alcune atmosfere dei Weather Report (l'unico riferimento possibile per i critici) ma che non aveva nulla a che fare con quel gruppo. E' durato quasi un decennio ed è stata una magnifica esperienza che si è conclusa con la prematura morte di Stefano.

A.A.: Hai collaborato con l'orchestra Filarmonica della Scala, diretta da Riccardo Muti: ritieni che sia un passaggio "obbligato" la musica classica?
M.C.: Un formazione classica è fondamentale per una buona preparazione sullo strumento e per la cultura musicale. E' fondamentale incontrare il "maestro" giusto, se incappi nell'insegnante mediocre sei "fregato", la musica classica diventerà inspiegabilmente brutta ed inutile. Io sono stato fortunato, il mio maestro (Alberto Colombo) è un famoso concertista ed un ottimo didatta. Se non avessi studiato musica classica non avrei avuto i mezzi per affrontare l'esperienza con Muti e la Filarmonica. Un consiglio per i giovani studenti è: diffidate di chi afferma che la musica classica è inutile per suonare jazz, in quel caso avete incontrato un idiota e quindi allontanatevene immediatamente.

A.A.: La tua passione per le percussioni ti ha portato a realizzare dei lavori come Game e Conserto nonché a comporre per la Great Naco Orchestra: pianoforte e percussioni sono distanti….
M.C.: Il pianoforte è uno strumento percussivo per eccellenza e questo l'ho imparato principalmente da autori classici come Bela Bartok ed Alberto Ginastera. In "Conscious", l'ultimo disco che ho registrato per Splasch è evidente nel brano "Rumori molesti"

A.A.: Chi sono i compositori a cui ti riferisci?
M.C.: I miei autori preferiti vanno da Bartok, Hindemith, Ginastera a Powell, Parker, Monk a Djavan, Veloso, Guinga, sono tanti ed appartengono a generi diversi.

A.A.: Hai alternato numerose tipologie di formazioni: quale prediligi?
M.C.: Mi piace suonare in trio, per gli spazi e l'interplay che si possono creare. E' la formazione classica del pianista jazz.

A.A.: Parliamo della tua attività didattica….
M.C.: Ho sempre considerato l'insegnamento come un valido punto d'appoggio per potersi permettere un'attività musicale indipendente. Ho iniziato ad insegnare molto presto ed in quasi 25 anni di attività ho maturato una grossa esperienza che mi ha spinto a scrivere due libri per la Carisch (uno dei quali sull'improvvisazione jazzistica insieme ad Attilio Zanchi) ed altri manuali di teoria per il Centro Professione Musica di Milano, la scuola dove insegno da ormai più di dieci anni. Purtroppo vedo che l'insegnamento è diventato oggi un punto d'appoggio per molti musicisti non preparati e questo va a discapito di chi vuole imparare. I più dotati riconoscono il cattivo maestro, ma tutti gli altri?

A.A.: Preferisci la registrazione live o in studio?
M.C.: In studio riesco a concentrarmi meglio, comunque anche una registrazione in studio può essere live.

A.A.: Hai collaborato con tantissimi musicisti: quale ricordi con maggiore piacere?
M.C.: Rimarrà sempre forte il ricordo dell'amicizia che ho avuto con Naco, un formidabile percussionista con il quale ho avuto il piacere di suonare e di registrare insieme più lavori. E' un gran peccato che non ci sia più, era veramente unico come persona e come musicista.

A.A.: Con chi ti piacerebbe collaborare?
M.C.: Non ho mai suonato con Roberto Gatto, mi piacerebbe, ma credo appartenga all'irraggiungibile casta dei Raviani. Sono gli eletti del jazz in Italia.

A.A.: Come nasce il tuo ultimo lavoro "Conscious"?
M.C.: Con "Conscious" ho ripreso la formula del trio senza trascurare l'elettronica, perché ho sempre pensato che è importante affrontare e sviluppare anche sonorità differenti. Chi snobba l'elettronica trascura una parte di sviluppo musicale che è imprescindibile dai tempi moderni e quindi dal mio punto di vista assume esclusivamente un atteggiamento snobbistico ed ignorante (poichè vuole ignorare). Tanti non lo fanno semplicemente perchè non ne sono capaci, non tutti sono in grado di affrontare le peripezie virtuali del computer.

A.A.: Preferisci l'esecuzione o la composizione?
M.C.: Come esecutore ho fatto qualche concerto di musica classica poco dopo il diploma di pianoforte ma ho abbandonato quasi subito perché ho capito che non era proprio la mia strada. I "veri" pianisti classici sono inavvicinabili ed alcuni jazzisti che hanno il vezzo di eseguire opere classiche sono semplicemente ridicoli. A ciascuno il suo. In ogni caso ho sempre preferito comporre ed eseguire musica scritta da me.

A.A.: Ora sei ritornato al jazz. Cosa pensi di fare "dopo"? Quali sono i tuoi programmi?
M.C.: Innanzitutto vorrei fare dei concerti con il trio! Non credo di essermi mai allontanato dal jazz, semplicemente non ho fatto dischi di questo genere a mio nome per alcuni anni, ne ho fatti però con il gruppo di Tino Tracanna, con il quale collaboro da parecchio tempo. Credo che la mia attività di musicista continuerà su strade differenti, perché ho interessi differenti, perché basta guardare dietro l'angolo per vedere che tutto cambia ed il jazz per me rimane comunque solo un genere, affascinante, emozionante ma solo un genere.
Sono curioso delle nuove sonorità pur essendo ferreo nella tradizione, mi rendo conto che il mio atteggiamento musicale è destabilizzante per molti critici ma dopo aver fatto diciassette dischi, sono convinto che l'importante è continuare nella ricerca seguendo tutte le strade possibili, virtualmente o acusticamente.







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Data pubblicazione: 12/03/2005

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