Da un po' di tempo a questa parte la mia mente si interroga spesso su quali siano
le caratteristiche stilistiche da prediligere nel momento in cui si canta un qualunque
brano di jazz o per chiarire meglio il mio pensiero, quali caratteristiche sono
più salienti di altre nell'interpretare un brano, o ancora cosa fa più "jazz" quando
si canta.
Ho ascoltato e tuttora ascolto tantissimi cantanti di jazz, sia le grandi star del
passato che quelle attuali, e anche altri interpreti meno "geniali" e famosi, apprezzabili
in maniera maggiore o minore a seconda dei casi e del proprio gusto personale. Se
possibile vado ai concerti. Cerco video su You Tube.
Sono molto curiosa di conoscere e ascoltare tutto e tutti, perché sicuramente in
un modo o nell'altro si impara qualcosa dagli altri, e se c'è un principio in cui
credo è proprio il fatto che non si smette mai di imparare, altrimenti come potremmo
"crescere" artisticamente, evolverci in questa o quella direzione, trovare nuovi
stimoli?
Certo, con gli anni ho scoperto che non tutti gli artisti sono sempre persone pignole
alla ricerca della "perfezione" o del massimo come la sottoscritta (che ovviamente
non ci riesce), anzi, ce ne sono molti che vivono la loro passione per la musica
in modo più "spensierato" (non intendo in senso negativo!) ed immediato, senza porsi
troppi interrogativi "filosofici", e forse sono più sereni di me, ma comunque ognuno
a seconda del proprio carattere e delle esperienze di vita sceglie la sua strada
ed io nella mia mi sento perfettamente a mio agio, anzi, ci provo gusto a studiare
e cercare di fare sempre meglio il mio lavoro.
Non c'è sensazione più piacevole che quella di riuscire con le proprie forze, a
volte dopo mesi, altre dopo anni e anni, a fare qualcosa che fino ad un po' di tempo
fa ti sembrava impossibile….
Ogni tanto su questa terra nascono talenti artistici fuori dal comune (non è ovviamente
il mio caso), personaggi talmente pieni di talento che anche con le sole doti naturali
riescono ad offrire al pubblico irripetibili momenti di pura arte, ma costoro purtroppo
fanno parte solo di una piccola schiera di eletti.
Il "resto", ossia la maggior parte dei "talentuosi", ha bisogno per emergere di
studiare (da autodidatti o con altri insegnanti) e tra individuo ed individuo i
risultati possono essere estremamente variabili.
Per esempio, ci sono talenti importanti che possono venir fuori solo realizzando
un serio percorso di studi, e magari raggiungere vette di eccellenza artistica di
pari importanza a quelle di un grandissimo talento "naturale".
Altre persone meno dotate possono a loro volta trarre vantaggio da un carattere
volitivo e determinato, col quale supplire ad un talento in origine meno "stupefacente"
e col tempo, la pazienza e la costanza nello studio raggiungere a loro volta traguardi
artistici importanti.
Sono doti che contano anche nella ricerca del lavoro….
Le variabili individuali dunque sono tante, i fattori caratteriali ed esperienziali
insieme al percorso di studi si mescolano in vario modo col talento artistico, dando
esiti diversissimi a seconda dei casi.
Ma alla luce di quanto esposto, quale consiglio potrebbe essere più adeguato sul
da farsi?
La mia risposta è sempre la stessa: il talento può essere maggiore o minore, i percorsi
di vita ed i caratteri delle persone diversi, ma comunque chiunque può trarre vantaggio
ad essere un musicista competente e preparato nella sua professione.
Potrebbe mai qualcuno affermare che studiare musica FA MALE ALLA MUSICA? Beh, non
credo proprio….
Ma torniamo all'argomento oggetto del presente articolo, col quale spero di essere
utile a chi vuole dei suggerimenti pratici (senza presunzione di "completezza")
per orientarsi sul come affrontare l'interpretazione di uno standard.
Voglio chiarire che quanto esporrò è frutto dei miei studi, delle mie esperienze
lavorative e di vita, e dei lunghi anni di "ascolti" di musicisti e cantanti jazz
del presente e soprattutto del passato.
Sono comunque delle opinioni personali, non "leggi universali", ed in quanto tali
opinabili e criticabili, anzi spero sempre di trovare degli interlocutori per discutere
su quanto esprimo nei miei articoli.Premesso ciò, cominciamo da quello che per me è un "nodo" fondamentale.
IL TEMA VA SEMPRE CANTATO COSI' COME E' STATO COMPOSTO IN ORIGINE?
FINO A CHE PUNTO E' LECITO "STRAVOLGERE" IL TEMA SIA DAL PUNTO DI VISTA RITMICO
CHE MELODICO?
Scrivo questo perché colpita dalla eterogeneità di "esposizioni" dello stesso tema
da parte di cantanti diversi. C'è chi si attiene abbastanza fedelmente a quello
che dovrebbe essere la melodia concepita dall'autore e chi invece offre riletture
molto distanti dall'originale…senza voler entrare nel merito di quali strade possano
offrire le soluzioni artisticamente più valide, è possibile trovare dei "principi"
ai quali riferirsi in linea di massima in sede di studio onde evitare di fondarsi
esclusivamente sul proprio istinto?
Tanti musicisti vengono attratti dalla "libertà" espressiva offerta dal jazz e questo
è valido sia per gli strumentisti che per i cantanti.
L'improvvisazione è ovviamente il momento più creativo, ma anche nell'esposizione
del tema si notano le variazioni personali, sia da un punto di vista ritmico che
melodico.
Per lo strumentista di jazz, l'improvvisazione su un brano è un must, mentre
in realtà moltissimi cantanti non praticano lo scat per cui, volendo esprimere
la propria creatività, l'artista è più portato a concentrarla esclusivamente sul
tema.
Ora, l'interrogativo che mi sono posto precedentemente, ossia fino a che punto possiamo
modificare a nostro piacimento il tema, entra nel vivo.
Avrete notato che ho usato l'espressione "fino a che punto" il che vi fa intuire
che parto dal punto di vista (opinabile!) di chi ritiene che il tema debba essere
pur con delle variazioni riconoscibile dal pubblico.
Le mie affermazioni sono supportate dall'osservazione fatta ascoltando i "grandi"
musicisti e cantanti jazz che sembrano di solito rispettare questa "regola", anche
se qualche lodevolissima eccezione la troviamo.
Avete mai ascoltato la meravigliosa Betty Carter? Chi più di lei "rivoluzionava"
gli standards? E con quali stupefacenti risultati?
Una scelta usuale (e credo sensata) nei cantanti è di solito un tema iniziale più
aderente alla scrittura originale ed un tema finale più o meno "libero" rispetto
a quello iniziale.
Ho ascoltato anche interpreti che sfruttano la parte armonica del brano come pretesto
per proporre un esposizione molto distante dal tema originale e su quella sfogare
la loro creatività.
Niente vieta che la propria creatività usata anche in maniera più "esasperata" possa
dare ottimi esiti artistici, unita magari ad altri artifici tecnico-espressivi,
come dinamiche, uso dei risuonatori per ottenere variazioni di sonorità nel timbro,
ecc.
La mia opinione a riguardo è che, specialmente nelle prime fasi dello studio, conviene
conoscere e imparare molti standards, utilizzando come prima fonte uno spartito
con una trascrizione "affidabile".
La lettura della musica scritta fornisce un punto di riferimento "sicuro". Se diamo
temporaneamente per certo che dobbiamo cantare solo le note che sono scritte sullo
spartito, oltre a conoscere con precisione il tema, possiamo lavorare sulla parte
ritmica, definendo per esempio una corretta pronunzia degli accenti all'interno
del testo (cosa per me importantissima), lavorare frase per frase scegliendo dei
punti in cui usare le dinamiche, ecc. ecc., un tipo di lavoro che è impossibile
fare se ogni volta che cantiamo un tema lo modifichiamo all'istante.
Se la nostra attenzione si concentra troppo (e soltanto) su quest'ultima possibilità,
potrebbe succedere di trascurare molti aspetti interessanti all'interno di un brano.
Certo, qualcuno a questo punto obietterà: ma questo è jazz, non è proprio del jazz
essere così "rigidi" nel riferirci ad un modello, ed in realtà sono anche io d'accordo
su ciò.
Questo modo di studiare il pezzo non esclude affatto di poterlo cantare in modo
diverso, ma credo sia un modo più corretto di avvicinarsi alla conoscenza del brano
cercare PRIMA di apprenderlo così come (trascrizione fedele permettendo) è stato
composto dal suo autore.
Non dimentichiamo la grandezza di autori come Porter,
Gershwin, Ellington, ecc.
Se le loro melodie sono rimaste nella storia della musica non è certo un caso….sono
così belle che tutti le ricordano, e allora vale la pena di conoscerle se possibile
così come sono state create.
Nella costruzione delle melodie di un grande compositore, e del testo ad esse legato,
vi è una grande abilità nell'utilizzo delle ritmiche e delle note da abbinare alle
parole, così come nella scelta delle armonie, c'è un senso di equilibrio tra le
parti e di padronanza sullo sviluppo della melodia…perché non approfondire i vari
aspetti ed analizzarli per trarne utili insegnamenti?
Quindi io suggerirei, dopo la prima fase di approfondimento, di provare a fare delle
variazioni sul tema, cercando inizialmente di non distaccarsi troppo dalla melodia
e di creare cose molto semplici.
Si possono "arricchire" dei versi o delle frasi di una canzone utilizzando ad esempio
il cromatismo, o modificando il profilo melodico in fine di verso (cioè modificare
la direzione della melodia alla fine di un verso o frase concludendola con una modifica
della melodia in senso ascendente o discendente, coerente con lo sviluppo della
"forma" del brano).
Solo in un secondo momento, se il proprio gusto personale ed una certa sicurezza
acquisita man mano lo fanno ritenere opportuno, "allargarsi" maggiormente, cercando
una maggiore "indipendenza" dalla melodia originaria.
Dovremmo tutte le volte che è possibile cercare di registrare le nostre performances
dal vivo o in fase di studio, e valutarle serenamente per capire dove e come lavorare
per migliorare la qualità.
Spesso si tende ad "esagerare", a fare "troppe" cose, ed a cercare soluzioni "complicate",
utilizzando ad esempio fraseggi con intervalli il più dissonanti possibili, o a
tentare vari esercizi di "funambolismo" vocale.
Invece spesso le cose più semplici, più orecchiabili, in apparenza elementari, diventano
particolarmente efficaci nell'impressionare l'uditorio, MOLTO più di quanto si pensi.
Me ne sono resa conto trascrivendo gli assoli di Chet o di Ella.
Le PAUSE sono anch'esse MUSICA, e contano molto più di quanto comunemente si creda.
A volte si canta (o si parla) TROPPO.
L'ansia di voler fare bene, di impressionare il pubblico, di "imitare" i grandi
musicisti cui ognuno di noi si ispira, porta spesso cantanti ancora acerbi artisticamente
a fare cose al di là delle proprie capacità.
La maturità umana ed artistica che ti consente di far bene il tuo lavoro senza ansie
o tensioni nocive, provando la pura e semplice gioia di fare una cosa che ti piace,
non di pensare cosa potrebbe PIACERE AGLI ALTRI, di pensare alla musica e non al
proprio ego, è una grande (e difficile) conquista per un artista ed è la condizione
giusta per esprimersi al meglio delle proprie capacità, e se queste includono grandi
doti musicali o vocali TANTO MEGLIO, ma solo se vengono usate in modo spontaneo
e per così dire "non voluto", come MEZZO e non come FINE a sé stesse.
La mia personale scelta di stile, che potrei definire in un certo senso "minimalista",
(che non è detto sia l'unica possibile o la migliore) sta nel cantare il tema con
grande semplicità, con poche variazioni specialmente nella prima esposizione, e
curando molto come suggerivo prima la ritmica, l'espressività, le dinamiche, lavorando
frase per frase per eliminare eventuali problemi tecnici, ecc.
Il mio modello preferito è Ella Fitzgerald, ma non disdegno molte altre sue
illustri colleghe/i, come
Anita O'Day e Chet.
Non sono attratta da interpretazioni troppo "caricate" di effettini vocali o "atletiche"
o "autocelebrative" anche se sono sicura che artisti con un carattere e dei gusti
diversi dai miei possano comunque fare cose egregie con modalità stilistiche molto
diverse da quelle da me predilette.
Apprezzo in particolare Ella tra le grandi interpreti perché la trovo elegante nella
sua (solo apparente) semplicità.
Senza sembrare "spremersi" più di tanto, riesce con piccole ma geniali sfumature
espressive (ed infinite, raffinatissime variazioni sia ritmiche che melodiche) ad
interpretare magistralmente qualunque brano.
Nei live rispetto ai cd si "diverte" ad esprimersi con più libertà e snocciola fantastici
scat, sempre con risultati eccellenti.
Ritrovo la stessa "essenzialità" nelle interpretazioni di
Anita O'Day, sulla quale la collega
Sandra Evangelisti
ha scritto molte cose interessanti qui su Jazzitalia. A differenza di Ella, dotata
vocalmente e con una estensione non comune, e nonostante gli evidenti "limiti" di
una voce stressata da abusi di alcool e droghe, Anita ha un grandissimo swing, un
senso del ritmo raro tra i musicisti (che mi ha particolarmente colpito) ed una
grande efficacia nello scat.
Per motivi simili sono rimasta molto colpita da Chet cantante (oltre che dal trombettista),
altro esempio di voce non proprio "perfetta" dal punto di vista dell'emissione e
della timbrica, per non parlare dei suoi fantastici scat.
Penso che questi cantanti in particolare (rispetto ad altri egualmente importanti)
per le loro caratteristiche possano essere degli ottimi punti di riferimento stilistici
per l'allievo che voglia intraprendere questa carriera musicale.
Ma torniamo al discorso lasciato in sospeso in precedenza sul come agire per cominciare
a "creare" variazioni rispetto ad un tema.
Se all'inizio cerchiamo di non perdere troppo il contatto con la melodia originale,
potremo con maggiore facilità evitare nel variare di usare note "stonate", abituando
gradualmente il nostro orecchio a lavorare sulla struttura armonica.
Ho parlato di orecchio, perché devo immaginare che non tutti i cantanti conoscano
l'armonia e sappiano cosa fare con determinati accordi.
Se il nostro approccio al brano è puramente istintivo dobbiamo affidarci solo all'orecchio,
ma se invece vogliamo prendere coscienza, musicalmente parlando, delle possibilità
che abbiamo di scegliere melodie alternative a quella originale, dobbiamo avvicinarsi
allo studio dell'armonia, approfondire gli accordi, le scale, le cadenze, ecc. e
"farle nostre" musicalmente, attraverso l' EAR TRAINING (comunque come vedete sempre
di "orecchio" si tratta!).
E' praticamente lo stesso lavoro che faremmo se invece di cantare un testo, volessimo
lavorare sullo scat, con la differenza che siamo vincolati a delle parole, per cui
nelle variazioni dobbiamo fare in modo di adattarle perfettamente ai cambiamenti
estemporanei, cosa se ci pensate bene non proprio facile, visto che cantiamo tra
l'altro in una lingua che non è la nostra.
Provarlo a fare prima a casa non significa che poi dobbiamo rifarlo "uguale" quando
cantiamo, semplicemente facciamo in modo che tanti "esperimenti" che facciamo da
soli entrino inconsciamente a far parte di un "repertorio" al quale attingere senza
pensarci, quando sul palco diamo libero sfogo alla nostra fantasia ed alle emozioni
del momento.
Allo stesso modo la padronanza a livello ritmico di cui vi ho parlato nelle precedenti
lezioni è fondamentale per dare maggiore energia e slancio alle vostre interpretazioni,
e successivamente avere incisività ed efficacia maggiore nel fraseggio di uno scat.
Nel cantare delle variazioni ritmiche in un tema, bisogna stare molto attenti alla
"quadratura" da un lato e dall'altro alla "sicurezza" nella pronunzia degli accenti
che sono "incorporati" nei versi che cantiamo.
Anche in questo caso una musicalità istintiva può trovare delle soluzioni valide
ritmicamente, ma a parte i soliti "geni" che la natura ci regala ogni tanto, i più
potrebbero trovare grandissimo giovamento nell'approfondimento della parte ritmica
del solfeggio.
Mi è capitato di ascoltare cantanti che ad esempio iniziano un verso di una canzone
"ritardandolo" senza riuscire a terminarlo bene, perché nello "spostamento" non
si è riusciti a suddividerlo appropriatamente sul tappeto armonico, per cui alla
fine o si avverte questo "ritardo" eccessivo, o la mancanza di appoggio "a tempo"
su determinati accenti rende la cosa piatta o senza "energia".
Qui mi riferisco alla percezione dell'ascoltatore, che di solito non è un musicista
e non sa niente di solfeggio ritmico, però può avvertire questo senso di piattezza
e classificare l'interpretazione come monotona o semplicemente poco interessante,
anche se non sa spiegarne razionalmente il perché.
Tutti gli spettatori al contrario avvertono chiaramente quando un musicista è forte
sul piano ritmico, quando il "groove" diventa così coinvolgente che viene la voglia
di battere i piedi, le mani o addirittura di ballare insieme al musicista!
La consapevolezza di un cantante sul piano ritmico regala all'interprete una "sicurezza"
che non lo fa mai "perdere" sul ritmo, o perlomeno lo fa "cadere in piedi" se capita
di sbagliare….succede a tutti, anche ai migliori, ogni tanto.
Per il momento ci fermiamo qui. Buon lavoro a tutti!
(Continua nelle prossime lezioni)
04/05/2008 | 1 marzo 1984: ricordo di Chet Baker al Naima Club di Forlì: "La sua voce sottile, delicata, sofferta, a volte infantile, mi è rimasta dentro il cuore per molto tempo, così come mi si sono rimaste impresse nella memoria le rughe del suo viso, profonde ed antiche, come se solcate da fiumi impetuosi di dolore, ma che nello stesso tempo mi sembravano rifugi, anse, porti, dove la sua anima poteva trovare pace e tranquillità. La pace del genio, la pace del mito, al riparo delle tragedie che incombevano sulla sua vita." (Michele Minisci) |
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Data pubblicazione: 13/05/2012
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