Jazzitalia - Lezioni Voce: Alcuni suggerimenti per un vocalizzo in chiave jazz.
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Alcuni suggerimenti per un vocalizzo "in chiave" jazz.
di Sandra Evangelisti
evasama@tin.it


"Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre ma avere nuovi occhi"
Marcel Proust

Ricordo che una della maggiori difficoltà che ho incontrato quando ho cominciato a studiare canto jazz è stata quella di dover adeguare la mia voce a "percorsi vocali" completamente diversi da quelli appresi attraverso i "vocalizzi".



Una delle domande che più frequentemente mi ponevo e che, tuttora, mi pongo è perché bisogna educare la propria voce a muoversi in sentieri che non si dovranno mai percorrere.

Sia i pattern melodici, che la ritmica, che il modo di usare la voce nel suo complesso variano da stile a stile per cui anche il modo di eseguire i vocalizzi dovrebbe mutare in funzione del genere vocale che si decide di studiare.

Perché vocalizzare frasi tratte dal repertorio classico se dobbiamo cantare il jazz?

Estrapoliamo, quindi, le frasi da "vocalizzare" dal nostro stesso repertorio (1) in modo da educare la voce a percorrere quei sentieri che realmente dovrà percorrere.

Tra le varie funzioni del vocalizzo vi è quella di educare la voce ad intonare intervalli, scale e accordi nelle diverse altezze tonali. Per questo motivo ho deciso di cominciare questo breve "excursus", dedicato al vocalizzo, proponendovi alcuni "esercizi" mirati ad affinare la percezione e l'intonazione degli intervalli inserendoli, però, all'interno di pattern più "in linea" con il genere vocale che abbiamo scelto di studiare.

Prima di procedere è, però, necessario fare una piccola puntualizzazione.

La parola stessa "vocalizzo" ci rimanda ad una delle molteplici differenze tra "bel canto" e "canto sporco". E, cioè, alla maggiore enfasi che nel "bel canto" viene data alle vocali. Quindi il fatto di scegliere per i nostri "vocalizzi" delle frasi tratte dal nostro stesso repertorio ci consente anche di lavorare in modo più "realistico" sulla dizione. Per quanto le varie frasi possano essere, comunque, vocalizzate se lo si desidera o lo si ritiene necessario, è per noi molto più utile usare lo scat (2) oppure le parole del testo. Come dicevo prima, nel canto classico sono le vocali ad essere privilegiate. Nel canto "non classico", ed in particolare in quello jazz, sono, invece, le consonanti a ricoprire un ruolo di primo piano. E, come tutti noi sappiamo, la gestione delle consonanti non sempre è cosa semplice da realizzarsi.

Ma ritorniamo agli intervalli (3).

Cominciamo col dire che se io canto un semitono discendente intonandolo a partire da una nota qualsiasi della tastiera, avrò un effetto. Se, però, considero l'intervallo come l'inizio di una melodia più complessa l'effetto sarà diverso sia per il diverso contesto emotivo a cui l'intervallo mi rimanda sia per la ritmica che potrà mutare a seconda della melodia a cui l'intervallo è legato.

Se io canto le prime due note di "Stella By Starlight", per esempio, non avrò lo stesso effetto che avrò nel momento in cui canto le prime due note di "Sophisticated Lady". Questo perché, come dicevo prima, i due intervalli pur essendo della stessa natura sono ritmicamente differenti oltre al fatto che mi richiamano contesti emotivi diversi.

È, pertanto, importante tenere presente che uno stesso intervallo può produrre effetti differenti a seconda del contesto in cui esso è inserito (4). Per cui percepire ed intonare il semitono discendente, o qualunque altro intervallo, in contesti diversi ci aiuta a coglierne meglio la natura affinando la nostra capacità di "riconoscerlo" nonostante siano presenti altri elementi che potrebbero confonderci.

Inizieremo con lo studiare l'unisono per procedere, poi, con il semitono discendente, quindi quello ascendente e così di seguito. Dapprima cercheremo di lavorare con frasi costituite da un solo intervallo. Ad esempio per quanto riguarda l'unisono lavoreremo sulle prime due note di "Just Friends" oppure per quanto riguarda il semitono discendente useremo le prime due note di "Stella By Starlight" e così via. Sceglieremo, cioè, delle piccole frasi che racchiudono il solo intervallo che ci interessa studiare.

Tuttavia, come dice sempre la professoressa Nishiyama Kuniku, a proposito dello studio degli ideogrammi, è consigliabile studiare gli ideogrammi (5) inserendoli all'interno di piccole frasi. Lo stesso, a mio avviso, deve essere fatto nel momento in cui studiamo gli intervalli (6). Per cui man mano che procederemo nello studio dei nostri intervalli cercheremo di inserirli in frasi sempre più articolate. In questo modo alleneremo l'orecchio e l'apparato fonatorio non soltanto a percepire e ad intonare l'intervallo preso nella sua individualità ma, inserendo l'intervallo nel suo contesto stilistico, educheremo l'orecchio e la voce anche a percepire e riprodurre un tipo di fraseggio che è quello in uso nel linguaggio jazzistico. Esperienza, questa, che ci tornerà molto utile quando lavoreremo sull'interpretazione di un brano o quando sceglieremo di improvvisare.

Ma passiamo, adesso, alla parte pratica.

Unisono (7)



Semitono discendente.




NB: le note sono le stesse ma il contesto ed il "sapore" sono diversi.

Semitono ascendente.




Ma attenzione in "My Romance" non possiamo staccare il semitono dal resto della frase per cui avremo un pattern più complesso costituito da un semitono ascendente più un tono ascendente.
Ci prepariamo, così, al passo successivo, cioè, allo studio del tono ascendente.



Lo stesso dicasi per "Beautiful Love" dove avremo un pattern costituito da un semitono ascendente più un tono ascendente più un altro tono sempre ascendente.



Tono ascendente.

Riallacciandoci al discorso introdotto dalla "frase precendente" ci studiamo, adesso, il tono ascendente dapprima individualmente...



...quindi, ponendolo all'inizio di frasi sempre più complesse.




Con quest'ultimo pattern ci prepariamo alla percezione e all'intonazione del Tono discendente.

NB: come potete osservare le note che costituiscono la frase corrispondono alle prime tre note della scala maggiore più la ripetizione del secondo grado in senso discendente. Ne risulta che oltre a lavorare sul tono ascendente, con questo "pattern", lavoreremo anche sulla percezione ed intonazione delle prime tre note della scala maggiore.

Tono discendente.

Andiamo avanti e studiamoci il tono discendente. Anche nei casi che seguono, l'intervallo non può essere separato dal resto della frase.



Le nostre frasi, come dicevo precedentemente, diventano, quindi, sempre più articolate man mano che impariamo intervalli nuovi.

Un po' di ripetizione:






NB: In "Fly Me to the Moon", come potete osservare, abbiamo le prime cinque note della scala maggiore discendente a partire dall'ottava.

In "God Bless the Child", così come in "These Foolish Things", abbiamo ancora le prime tre note della scala maggiore. In questo caso, però, prima della ripetizione del II grado in senso discendente abbiamo il III grado ribattuto. La ritmica è differente. Le due frasi hanno un "sapore" totalmente diverso!

In "My Funny Valentine", invece, abbiamo le prime tre note della scala minore. Il pattern prosegue con il II grado in senso discendente dopodiché il compositore risale ancora al III grado minore per ridiscendere nuovamente sul secondo grado. Con questo pattern, dunque, oltre che sui toni e semitoni, ci alleniamo a cantare i primi tre gradi della scala minore.

E così di seguito... è inutile dire che le frasi non devono necessariamente essere prese dall'inizio di un brano ma possono essere prese anche da parti interne ad esso.

Scegliete, dunque, dai vostri standard preferiti, le frasi su cui vi interessa di più lavorare. Provatele in tonalità differenti in modo da esplorare le diverse possibilità timbriche della vostra voce.
Non fossilizzatevi su un'unica "versione". Cercatene diverse. Ricordate che nel jazz non si improvvisa soltanto con le note ma anche con le timbriche.

Inoltre ci tengo a sottolineare che, a mio avviso, il jazz non è solo un modo di cantare ma anche un modo di studiare... un modo di pensare. In altre parole è un modo di essere.

A presto e buon lavoro, Sandra Evangelisti.

NOTE:
(1) Tra le diverse raccolte di "standard" reperibili in commercio mi limito a segnalare "The Real Vocal Book" (http://www.amazon.com/Real-Vocal-Book-Second/dp/0634060805), "The Ultimate Jazz Fake Book" (http://www.amazon.com/Ultimate-Jazz-Fake-Book-Books/dp/0881889792) e "The New Real Book" (http://www.amazon.com/New-Real-Book-Key/dp/0961470143). Sono da segnalare, inoltre, i diversi volumi della serie "Aebersold Play-A-Longs" che oltre alle partiture includono anche le basi registrate dei brani (http://www.aebersold.com/Merchant2/merchant.mvc).

(2) "Lo scat è una forma di canto, quasi sempre improvvisato, appartenente alla cultura musicale del jazz. Il canto scat non prevede l'uso di parole compiute, bensì di fonemi privi di senso (...) che il cantante utilizza in chiave ritmica oltre che melodica. (...) Se ne attribuisce la paternità, o quanto meno la diffusione, a Louis Armstrong, verso la metà degli anni Venti (...)" ("Scat", http://it.wikipedia.org/wiki/Scat).

(3) Per quanto riguarda gli intervalli rimando ad un qualunque testo che tratti di teoria della musica. Ad ogni modo, su www.jazzitalia.net, alla voce "ear training" è stato pubblicato, ad opera del maestro Gianni Azzali, un ciclo di lezioni dedicato interamente a questo argomento (http://www.jazzitalia.net/lezioni/eartraining/indiceeartraining.asp).

(4) "In un contesto musicale gli effetti possono essere infatti intensificati, modificati, annullati o snaturati da combinazione di altre note, dall'azione ritmica, dall'orchestrazione, e dal registro sonoro", Leonard G. Ratner, Armonia: Struttura e stile, Milano: Ricordi, 1996 (1962), p. 22.

(5) Gli ideogrammi (kanji) vengono usati nella scrittura giapponese in congiunzione con due sistemi sillabici, (hiragana e katakana). "In generale gli ideogrammi si usano per rappresentare le parti morfologicamente invariabili delle espressioni giapponesi. Un kanji può quindi rappresentare la radice dei verbi, degli aggettivi o, integralmente, una buona parte dei sostantivi della lingua giapponese" (http://it.wikipedia.org/wiki/Kanji).

(6) Riguardo alle similitudini, dal punto di vista delle neuroscienze, esistenti tra musica e linguaggio non essendo argomento di facile esposizione ne rimando la trattazione ad un momento successivo. Per il momento mi limito a segnalare alcune riviste "online" dove è possibile trovare diverse pubblicazioni sull'argomento: Brain (http://brain.oxfordjournals.org/), Cerebral Cortex (http://cercor.oxfordjournals.org/current.dtl), The Journal of Neuroscience (http://www.jneurosci.org).
Inoltre, per un ulteriore approfondimento, consiglio i seguenti motori di ricerca: Elsevier (http://www.elsevier.com/wps/find/homepage.cws_home), PubMed (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/entrez/query.fcgi?db=PubMed), Sirelib (http://www.sirelib.unina.it/index2.html).

(7) "Due voci che cantano la stessa nota intonano un unisono. Questo termine si riferisce in genere ad un intervallo armonico. Quando invece in una linea melodica una voce rimane alla stessa altezza, si ha la ripetizione del suono all'unisono", Leonard G. Ratner, op.cit., p. 13. Sempre a proposito dell'unisono Ettore Pozzoli dice: "Due o più suoni occupanti lo stesso grado nella scala e nella stessa ottava non formano intervallo ma sono all'unisono", Ettore Pozzoli, Sunto di teoria musicale, Milano: Ricordi, vol. I, 1988 (1903), p. 12. Anche Flora Gallo non considera l'unisono come intervallo e ne dà la seguente definizione: "L'unisono è costituito da due suoni di uguale nome e di uguale altezza", Flora Gallo, Elementi fondamentali di teoria della musica, Napoli: Edizioni S. Simeoli, 1973, p. 21.

Nicoletta Caselli, invece, lo definisce un intervallo di prima giusta ma soltanto se considerato nella sua forma armonica, Nicoletta Caselli, Manuale di teoria musicale: con riferimento alla musica moderna, Milano: Nuova Carish, 1993, p. 86. Piero Rattalino, addirittura, esclude che l'unisono possa essere considerato alla stregua di una melodia. "Parlando di melodia ho già implicitamente parlato di più suoni, perché la ripetizione di uno stesso suono non è considerata melodia", Piero Rattalino, Il linguaggio della musica, Milano: Garzanti Editore, 1977, p. 20. E così di seguito.






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Data pubblicazione: 08/02/2007

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