"Chet", la tromba dannata del jazz
A vent'anni, dalle patinate copertine dei primi 78 giri incisi a Los Angeles, la patria del cool jazz "bianco", sembrava un angelo: bellissimo, il volto liscio e paffuto, lo sguardo dolcemente assorto, gli abiti eleganti di un damerino. Quindici anni dopo quell'angelo, salutato dal successo di critica e pubblico dell'America dei magici "fifties", era diventato un mostro: gli occhi lucidi e spenti, le guance scavate, le rughe precocemente scolpite attorno agli occhi e sulla fronte. L'eroina, la stessa che aveva ucciso a soli 34 anni il grande sassofonista nero
Charlie "Bird" Parker, ma che affliggeva decine e decine di jazzmen in una folle corsa collettiva all'autodistruzione, lo aveva ridotto ad una larva tenuta in vita soltanto dal filo sottile della musica.
Come in un'impressionante metamorfosi il James Dean della tromba si era trasformato in un novello e maledetto Rimbaud, che dopo altri anni di dissoluzione, disperazione e sofferenza, nel 1988, avrebbe concluso tragicamente il suo "volo", planando sul selciato da una finestra d'albergo di Amsterdam in una notte di primavera.
Sulla biografia di Chet Baker, il più grande trombettista jazz bianco, indelebilmente segnato dal marchio della droga nella quale affogava il suo male di vivere, non sono certo mancate le fioriture artistiche come purtroppo spesso accade in questi casi. Si diventa grandi solamente quando già il cielo ci ha consacrati tali!! Letteratura e cinema (si pensi al film-documentario
Let's get lost) si sono tuffate con morboso interesse nel sondare l'esistenza travagliata di questo straordinario talento, figlio di un musicista fallito e di un'impiegata dell'Oklahoma nato proprio nel