Correggio Jazz 2018 XVI Edizione Teatro Asioli, 15 maggio – 1 giugno di Aldo Gianolio foto di Tiziano Ghidorsi
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Correggio Jazz, come consueto in coda alla ampia e poliedrica
programmazione di Crossroads a cui è associato,
ha avuto in cartellone nella sua sedicesima edizione tredici gruppi (quattordici
con l'orchestra dei seminari) divisi in dieci appuntamenti dal 15 maggio al primo
giugno. Da segnalare, appunto, facendone encomio, i seminari Play On Time,
che stanno avendo sempre più successo (ormai sono una consuetudine), sia per il
numero di partecipanti che per la qualità dimostrata nel saggio finale organizzato
verso la fine del festival, il 27 maggio: i seminari sono diretti da Marcello
Alulli e Alessandro Paternesi, con Cristiano Arcelli come direttore
della band costituita dai "borsisti" che si sono distinti nel 2017 (Michele Paccagnella
e Fabio Mazzini alle chitarre, Matteo Pontegavelli alla tromba,
Mauro Pallagrosi al sax soprano, Francesco Zaccanti al contrabbasso,
Filippo Morini al pianoforte) coadiuvati dagli stessi docenti, oltre Alulli
e Arcelli ai sax e Paternesi alla batteria, anche Cristina Renzetti (voce),
Francesco Diodati (chitarra) e Francesco Ponticelli (contrabbasso).
Correggio Jazz si distingue e caratterizza per avere scelto
da anni di impostare il programma sulle produzioni più innovative della musica improvvisata
italiana (per alcune edizioni in gemellaggio con lo Young Jazz Festival di Foligno)
dando spazio anche a ospiti internazionali di alto livello, scelti impostando un
indirizzo o un minimo comun denominatore (questa volta focus sulle diverse connotazioni
geografiche: Cuba, Marocco, Stati Uniti, Armenia, oltre all'Italia).
In programma nella sedicesima edizione: il quartetto di Giovanni Guidi, il
duo Marialy Pacheco e Rhani Krija, l'Aaron Goldberg trio, la
"Meravigliosa fisarmonica della Regina Loana" spettacolo suonato alla fisarmonica
e raccontato da Gianni Coscia, il "Tenco: come ti vedono gli altri" del trombonista
Mauro Ottolini che ha diretto l'orchestra con al canto Vanessa Tagliabue
Yorke e Vincenzo Vasi, il piano solo di Tigran Hamasyan, il quartetto
del sassofonista
Bobby Watson, il duo Gianluca Petrella-Pasquale Mirra,
il Ghost Horse, il trio di
Franco D'Andrea
e due gruppi del batterista Zeno De Rossi: il Zenophilia e il Pipe Dream.
Non siamo riusciti a seguirli tutti.
Il nuovo quartetto di Giovanni Guidi, atipico, perché mette di fronte al
contrabbasso di Dezron Douglas e alla batteria di Gerald Cleaver le
tastiere dello stesso Guidi (piano e Fender Rhodes) e di David Virelles (Wurlitzer
e synth), allontana il leader dalle sue ultime sortite rarefatte e un po' sdilinquite,
pur non tradendole: adesso, con la trasformazione dell'astrattezza tendente al sublime
nella concretezza della trance derivata dalla reiterazione, c'è più robustezza di
suono, più eccitazione di ritmo. È tutto improvvisato, tranne qualche fugace passaggio:
si parte da una idea che trova realizzazione e sviluppo in lunghe sequenze ossessive
di mutevoli colori e intensità.
Il duo di Marialy Pacheco, pianista cubana, e Rhani Krija, percussionista
marocchino, ha funzionato alla perfezione, probabilmente anche per le radici africane
che congiungono il loro sentire; ma a condurre le danze è stata la Pacheco, che
con caraibico flavour e forte groove esalta il proprio energico e percussivo improvvisare
con l'eccezionale indipendenza delle mani che disegnano linee melodiche differenti,
come un McCoy Tyner cubanizzato.
Il trio di Aaron Goldberg, con Matt Penman al contrabbasso e Leon
Parker alla batteria, segue la linea direttrice stilistica
Bill Evans-Brad
Mehladu, ma li estetizza ancora di più, esibendo un tocco delicato e una abilità
di fraseggio di grande precisione e logicità.
Gianluca Petrella,
trombonista, e Pasquale Mirra, vibrafonista, hanno fatto largo uso, nel loro
duo, di elettronica e di effetti, creando un tappeto timbrico-ritmico che ha ben
sostenuto e a tratti avvolto le loro performance solistiche, antitetiche per sonorità
(potente, cruda e rude quella di Petrella, cesellata, riverberante e intensa quella
di Mirra), ma che anche per questo hanno saputo creare una fascinosa atmosfera,
giocando con maestria sulle dinamiche, sugli intrecci, sulle ripetizioni a loop,
sui ripieghi intimi di meditazione, sulle aperture più palpitanti.
Il Ghost Horse del tenor sassofonista Dan Kinzelman (con Filippo
Vignato al trombone, Glauco Benedetti all'euphonium e alla tuba, Gabrio
Baldacci alla chitarra baritono, Joe Rehmer al contrabbasso e Stefano
Tamborrino alla batteria), mantenendo la medesima poetica riservata al precedente
trio Hobbie Horse, di cui il Ghost è un allargamento, ha esperimentato sul campo
musica di nuova composizione (a tratti si sentiva qualche passaggio non perfettamente
rodato), basantesi su metri composti, tempi dispari, groove da drum'n'bass, complicate
costruzioni tematiche e arrangiamenti ingarbugliati e potenti, eseguiti con apollineo
distacco.
Il pianista
Omar
Sosa, col trio formato da Yilian Cañizares al violino e al canto
e Gustavo Ovalles alle percussioni, ha presentato il disco "Aguas" in cui
riflette sulle prospettive degli artisti cubani che vivono lontano dalla Madre Patria,
interpretando le loro radici e tradizioni (che sono poi le sue) con un pizzico di
spirito jazz e molto (forse troppo) spirito pop.
Il trio del pianista
Franco D'Andrea
con Mauro Ottolini al trombone e Daniele D'Agaro al clarinetto (doveva
essere allargato a quartetto con l'ospite Han Bennink al rullante, che non ha potuto
esser presente per motivi di salute) ha perseguito l'idea, dimostrandone la validità,
che tradizione e contemporaneità possono coniugarsi senza alcun attrito. Il repertorio
ha ricalcato, nei titoli ("I Got Rhythm", "Basin Street Blues",
"Muskrat Ramble", "King Porter Stomp", "St. Louis Blues", "Savoy
Blues"), ma soprattutto nello spirito, il periodo aureo del jazz, quello di
New Orleans delle marchin' band e delle prime orchestre e di Chicago degli Hot Five
di Louis Armstrong,
riprendendo anche Duke Ellington e Thelonious Monk. Sono esplorazioni
del cuore e della mente che elaborano una trama fra passato e presente, un filo
diretto con la contemporaneità attraverso baluginanti improvvisazioni collettive
che rasentano gli astrattismi del collettivismo free.