Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.
Il ruolo del Jazz nell'immaginario politico
La musica di
Archie Shepp,
è la grande bellezza nera del potere nero.
Stokely Carmichael.
In occasione di un viaggio a Parigi, di poco successivo al maggio
francese, Stokely Carmichael si incontrò proprio con Shepp in un locale. "I soli
rivoluzionari che io abbia visto a Parigi, li ho incontrati in un locale jazzistico,
erano Archie
Shepp e i suoi musicisti" [1]. Carmichael esprimeva così in maniera
tranchant la scarsa fiducia di cui godevano studenti e forze rivoluzionarie
europee per i neri del Black Power; ma l'aspetto da porre in rilievo risiede nel
momento di accostare lo pseudo-rivoluzionario al rivoluzionario autentico, dove
il secondo termine, quello positivo, viene incarnato da un musicista jazz. Ad avvalorare
il ragionamento viene poi la dichiarazione riportata in epigrafe di capitolo, scaturita
da una domanda di Shepp a Carmichael, al quale il primo aveva chiesto una sua definizione
di Potere Nero. La musica di Shepp, e il free jazz, sono il miglior mezzo di esemplificazione
di Potere Nero. Per un verso si è assistito negli anni Sessanta ad un tentativo
di politicizzazione della musica operato dagli stessi musicisti spinti dalla situazione
sociale e da una raggiunta piena consapevolezza. Questo clima, che ha prodotto musicisti
nuovi, come
Archie Shepp o Max Roach, ha visto anche emergere, sull'esempio di Malcolm
X, una nuova classe politica, rivoluzionaria ed internazionalista, ma legata ad
un feroce nazionalismo culturale. Il "Potere Nero" non è altro che uno spostamento
d'attenzione al vivo del problema politico, sociale ed economico dell' idea di "bellezza
nera" espresso nell'ambito culturale. Lo stesso Malcolm X si è servito del jazz
per indicare la strada che dovrebbe prendere il nero per arrivare ad una vera libertà
culturale, quella che secondo Malcolm è sempre stata negata all'uomo di colore:
"ho visto dei musicisti neri produrre del jazz, mentre suonavano con dei bianchi
ad una jam session –la differenza è enorme. Il musicista bianco può produrre se
ha un foglio di musica davanti. Può produrre qualcosa che ha già sentito. (…) Ma
il nero…prende la sua tromba e tira fuori dei suoni che prima neanche si immaginava.
Improvvisa, crea, gli viene dal di dentro. E' la sua anima, è soul music. E' l'unico
campo sulla scena americana in cui il negro sia stato libero di creare. Ed egli
ne è diventato maestro".[2] Anche in quest'occasione, Malcolm X mostra la propria
capacità di toccare sempre la corda giusta della sensibilità nera. [3]
Il jazz è stato riconosciuto dai militanti
e dai leader neri come la più importante manifestazione culturale nera, e, nello
stesso tempo, un'arma di propaganda e come tale questi hanno iniziato ad utilizzarla.
Barbara Ann Teer, un' attrice impegnata del Black Power ha scritto: "La gioventù
negra d'America ha bisogno di un'immagine nuova: dovrebbe spettare all'artista negro
il compito di dargliela". L'arte come veicolo di messaggi e comportamenti positivi,
in grado di educare la comunità, laddove falliscono le scuole pubbliche disastrate
e il tessuto sociale disgregato del ghetto. "Ad eccezione dei cantanti di rhythm&blues,
di suonatori di jazz e di personalità della portata di una
Nina Simone,
pochissimi negri nel mondo dello spettacolo hanno un concetto chiaro dell'immagine
che dovrebbero riflettere" [4]. Così la Teer individua nei musicisti neri una
delle poche categorie di artisti in grado di influenzare i comportamenti soci-culturali
della popolazione di colore, nel proporre dei modelli di riferimento validi. Per
Larry Neal, collaboratore di Leroi Jones nel Black Arts Movement, è necessaria l'elaborazione
di una estetica nera in grado di contrapporsi all'estetica occidentale dominante;
tenendo presente che questa costruzione teorica, che passa per i Black Studies,
ha un punto di partenza: la musica nera contemporanea, in tutte le forme, dal blues
al soul di
James Brown, rappresenta la più alta conquista culturale della razza
e propone un esempio già operante di "estetica nera". L'importanza della musica
nell'immaginario collettivo della popolazione di colore è altissima: dal recupero
di una memoria africana, alla rilettura epica dell'esistenza dello schiavo e poi
dell'ex schiavo in una terra straniera. L'importanza della musica per il movimento
nero non è solo recupero del passato o modello positivo di comportamento: "Otis
Redding, Sam Cooke, Bessie Smith, Billie Holiday, Charlie Parker, Coleman Hawkins,
Eric Dolphy e John
Coltrane sono, nelle menti della gente di colore, più che intrattenitori.
Sono dei poeti e dei filosofi dell'America "nera". Ognuno di questi artisti
ha dedicato la sua vita ad esprimere ciò che W.E.B. DuBois ha definito: le anime
del popolo nero[5]. Ancora negli anni Ottanta ci sono intellettuali neri che
insistono su questo punto: "la ripoliticizzazione degli operai e dei poveri dovrebbe
puntare anzitutto sull'eredità culturale nera, specialmente sulla forma e il contenuto
ideologico della musica popolare nera. La vita afroamericana è permeata dalla musica
popolare nera. E dal momento che i musicisti neri rivestono un ruolo così importante
nella vita degli afroamericani, essi hanno una missione e una responsabilità
particolari: presentare cioè della buona musica che sostenga e dia motivazioni alla
gente nera e fornisca delle idee di ciò a cui essi dovrebbero aspirare. Nonostante
la ricchezza della tradizione musicale nera e la vitalità della musica nera contemporanea,
la maggioranza dei musicisti neri vengono meno a questo compito cruciale" [6].
Per il sociologo Cornel West gli attivisti neri devono rendere coscienti i musicisti
neri delle esigenze più urgenti urgenti della comunità nera. Nota Luigi Onori, riguardo
a questo articolo di West, che l'autore può aver ragione se si riferisce agli anni
Ottanta e Novanta, ma all'inizio degli anni Sessanta il rapporto tra attivisti e
musicisti era esattamente rovesciato [7]. "Roach, Weston e Coltrane incarnavano
una lotta ispirando ed essendo a loro volta ispirati dal movimento, veicolando idee
ed utopie se non per i proletari di colore senz'altro per gli studenti universitari,
le frange intellettuali e i bianchi progressisti" [8]. La visione di Luigi Onori,
rispetto a quella critica di West, restituisce ai jazzisti e ai promotori come Jones
la giusta considerazione per il lavoro svolto al di là della realizzabilità di alcune
utopie; quando poi West invita gli attivisti a interessare i musicisti alle problematiche
dei neri più poveri, cade in contraddizione: chiede a dei militanti di svolgere
lo stesso lavoro già tentato da Leroi Jones e dimostratosi velleitario nel lungo
periodo[9].
Perché la musica è al centro di questo discorso e non altre arti?
Perché la musica ha una manifestazione pratica che possiede una precisa caratteristica
sociale: si svolge in ambienti aperti all'influenza del pubblico e alla interazione.
Arte collettiva nel senso pieno della parola, il jazz è anti individuale perché
esprime, punto di assoluto rilievo per una pratica artistica, un pensiero comunitario.
Tornando a West, va rilevato che questo intellettuale professore di studi afroamericani
ad Harvard, critica il rovesciamento culturale degli ideali di bellezza anglo-americani,
tra cui il riscatto del jazz, perché voluto da giovani intellettuali della "nuova"
borghesia nera. E' una critica a Ron Karenga, Leroi Jones, A.B. Spellman che non
rende giustizia all'opera compiuta da questi infaticabili organizzatori culturali
ed intellettuali globali. La critica da rivolgere loro ed ai musicisti come Shepp
o Roach, consiste nel non essere riusciti a parlare davvero alle classi sociali
"umili" come era nelle intenzioni: la musica di protesta non ha tenuto conto del
fatto che il free jazz era una forma d'espressione intellettuale e come tale richiedeva
mezzi di comprensione che un ragazzo del ghetto senza istruzione non poteva possedere.
Il segno proposto non era facilmente decifrabile, mentre quando
James Brown,
urlava: "sono nero e orgoglioso", si rendeva immediatamente comprensibile a tutto
l'universo giovanile afroamericano. Il jazz ha proposto nel suo linguaggio e con
i segni che gli sono propri, un'estetica della ribellione artistica, quale nessun'altra
arte poteva permettersi. Il nero diventa il paradigma dell'oppresso e la sua musica,
il jazz, diventa il simbolo nobile, perché sublimato in forma artistica, di questa
ribellione contro la schiavitù.
Una idea recepita dalla comunità nera (che magari non ascolta
jazz, ma ne è in qualche modo consapevole e orgogliosa) ed esportata presso l'universo
bianco. Come fanno notare Carles e Comolli, la cultura dell'oppresso non solo non
scompare, come era nell'intendimento dei "padroni", ma riesce addirittura ad imporsi
all'interno del pensiero dominante [10].
Loretta V. Mannucci, giornalista americana, bianca, parlando
della democrazia partecipatoria (siamo nel 1968), da lei contrapposta al modello
americano di democrazia autoritaria, arriva al jazz. "Il mondo americano ha già
da cinquant'anni un esempio intensissimo di democrazia partecipatoria: il jazz.
Questa musica assolutamente indigena, per quanto presupponga una lunga storia musicale
e sorga da una tradizione che ha radici distanti e primitive, è la società tecnologicamente
avanzata. E' l'America. Nessuno, sentendola, ha mai avuto un momento di dubbio in
questo senso. Nel jazz ogni singolo musicista, ogni voce, è autonomo. Ma ognuno
canta intorno ad un tema unico. Ognuno interpreta e svolge in libertà e ognuno s'accorda
con gli altri, tirandosi indietro quando un compagno improvvisa un assolo e suonando
a commento e a completamento, per sostituirlo poi a sua volta.(…) E' un esempio
di ordine basato su un gioco di rapporti, un ordine relativo e dinamico. (…) Il
grande favore che il jazz ha incontrato nelle università americane degli ultimi
anni – con festivals, conferenze, corsi e cattedre- segue assai bene la fortuna
dei nuovi movimenti radicali quanto a consistenza ed ubicazione geografica"
[11].
All'interno di questo ribollente calderone in cui stanno studenti,
predicatori, attivisti non-violenti, uomini di chiesa alla reverendo Cleage, nazionalisti
e musulmani neri, musicisti arrabbiati, ci sono anche molti scrittori. Il loro urlo
non é certamente stato meno forte o deciso di quello dei musicisti, ma per le motivazioni
connaturate all'importanza "sociale" della musica, essi non sono stati così al centro
dell'attenzione. Praticamente tutti questi nuovi scrittori (James Baldwin, Ralph
Ellison, Eldrige Cleaver, oltre ai già citati Leroi Jones, A.B.Spellman e altri)
si sono occupati della condizione nera e sovente ne hanno fatto oggetto di opere
letterarie. Più o meno tutti gli intellettuali attivi negli anni Sessanta e Settanta
hanno riconosciuto l'importanza e la forza morale del jazz, come caratteristica
pregnante, sviluppata dal nero per difendere la sua integrità culturale. [12] Come
nota Walter Mauro, chiosando un'intervista a James Baldwin: "la letteratura,
in un simile sconvolto universo, finisce per diventare ragione primaria di vita,
e va a confondersi con la musica, con il jazz, con la supremazia del negro (mio
padre doveva essere bellissimo…), (…) l'espressione, la parola e la nota musicale
si confondono in un continuo ricambio che isola il negro, gli consente di aprire
ancor più i confini del dolore e della soppraffazione…" [13].
Per alcuni scrittori (come Baldwin) il passaggio dall'idea di
integrazione a quella della violenza è tormentato, seppur inevitabile dopo la morte
di M.L. King; altri come Jones, si inseriscono fin dall'inizio della loro attività
su posizioni radicali, qualcuno come Cleaver rinuncerà ad una carriera letteraria
promettente e comoda per militare nel BPP. [14] Per tutti loro l'idea di jazz è
univoca e può valere quello che ha affermato Baldwin: "il jazz nacque dallo scontro
frontale fra due modi di vivere". [15]
La capacità del jazz di porsi come alternativo è proprio derivata
da questo fattore: la sua esistenza è stata sempre caratterizzate dallo scontro
culturale.
Ralph Ellison fa parziale eccezione: come scrittore nero è convinto
di dover assolvere una funzione dal momento che la cultura negra non contrasta ma
è parte di quella americana. Ellison ammette che le forme espressive della cultura
negra nascono in contrasto con la civiltà bianca: è il caso della parlata nera,
un idioma originale, inventato dagli schiavi per non farsi comprendere dai padroni.
Dunque "se è vero che la cultura nera è destinata ad arricchire la cultura americana,
è pur vero che la dinamica con cui essa confluisce nel filone centrale è una dinamica
di contrasto, una dialettica di antitesi e sintesi", che porta comunque come
risultato quello di una interiorizzazione della cultura e del costume nero all'interno
della società statunitense.[16] Ellison con questa posizione si espone alle critiche
dei giovani intellettuali neri durante gli anni Sessanta, dai quali viene definito
"Zio Tom" conservatore; lui replica che "la generazione attuale pretende di strumentalizzare
l'arte alla pianificazione ideologica", mentre il separatismo degli studenti
impedisce di lavorare per la formazione di valori nuovi e comuni con i loro compagni
bianchi.
[1] A.Barbon, D.Albani-Baribieri, op. cit., p.15, entrambe
le citazioni di Carmichael sono tratte da questo articolo.
[2] Malcolm X, Con ogni mezzo, prefazione di George Breitman, Torino, Einaudi, 1973.,
p.68.
[3] W. Mauro, Storia dei neri d'America, Roma: Newton Compton, 1997., p.85. Già
nel 1948, Harrison Dillard, primatista alle olimpiadi sui 100 metri e definito "l'uomo
più veloce del mondo", dichiarò: "Quando i bianchi si decidono a finalmente a lasciarci
fare qualcosa, noi cerchiamo di rifarci. Così è nello sport, come è stato nel jazz".
[4] A.A.V.V., Il black power in azione, a cura di Floyd B. Barbour, Milano: Sugar,
1969, pp.293-294.
[5] Larry Neal, "Any day now: Black art and black liberation", in Woodie King, Earl
Anthony, "Black poets and profets", New York: New American Library, 1972, p. 154,
traduzione mia. The Souls of Black Folk, è il titolo di uno studio di W.E.B. DuBois,
pubblicato a Chicago nel 1904.
[6] Cornel West, "Il paradosso della ribellione afroamericana", in Senza illusioni,
a cura di Bruno Cartosio, Milano: Shake Edizioni, 1995, pp.55-56.
[7] Ecco un passo in cui Charles Silberman, (op. cit., p.107) rilegge l'esperienza
giovanile di Baldwin e spiega fino a che punto possano contare i condizionamenti
della cultura dominante: "Il giovane Jimmy cercò con tutte le sue forze di non credere
ciò che i bianchi dicevano, e si sforzò così di evitare qualsiasi cosa che potesse
ricordare la sua immagine stereotipata, rifiutandosi di mangiare cocomeri, o di
ascoltare jazz negro. Fu solo quando cominciò a vivere la vita dell'americano espatriato
a Parigi che Baldwin cominciò a risolvere il problema della propria identità". Così
tornò ad ascoltare il "jazz negro", che divenne poi una delle fonti primarie della
sua attività di narratore: "Non ho certo intenzione di paragonarmi a due jazzisti
che ammiro incondizionatamente, Miles Davis e Ray Charles, ma mi piace pensare che
almeno in parte coloro ai quali Un altro mondo è piaciuto e piace, abbiano nei confronti
del mio romanzo una sensibilità non dissimile da quella per la musica di Miles e
di Ray. Anche se in maniere molto diverse, i blues di questi due musicisti hanno
un linguaggio universale: (…)svelano fino in fondo cosa significa essere veramente
vivi. Nella loro musica c'è pietà, non compassione". Questa la visione "letteraria"
del jazz di James Baldwin, nell'introduzione a: James Baldwin, Un altro mondo, Milano:
Feltrinelli, 1963.
[8] Luigi Onori, Jazz e Africa, roma: De Rubeis, 1996, pp. 176-177.
[9] La pretesa che il jazz sia stato recuperato da intellettuali nazionalisti neri
e che la valorizzazione del jazz sia stata fatta dalla "nuova borghesia nera" alla
ricerca di una propria identità, mentre i neri poveri continuavano a rimanere nel
loro isolamento, è da rigettare. Leroi Jones infatti, non ha nulla dell'intellettuale
classico, inteso nella tipica accezione occidentale del termine. Il nostro non si
rinchiude nell'isolamento dell'artista, e neanche si limita a fare della "retorica
politica" radicale come pretenderebbe West. Parla per lui la sua biografia. Poeta,
saggista, romanziere, organizzatore culturale e politico, dopo l'assassinio di Malcolm
X, abbandona il Greenwich Village e la comunità degli artisti bianchi per trasferirsi
ad Harlem, dove fonda il Black Arts Theatre, una scuola strutturata in forma di
comune, che si occupa di sviluppare studi e progetti artistici legati alla diffusione
del nazionalismo nero. Tra i collaboratori in quest'esperienza c'è Larry Neal (poeta
e saggista, già citato come teorico e poeta del nazionalismo nero.) Finita l'esperienza
della Black Art, dopo altre avventure simili, fondò nel 1968 una struttura politica,
la Black Community Development and Defense Organization, un gruppo musulmano che
affiancava agli interessi culturali la lotta più squisitamente politica, prende
in questo periodo il nome arabo di Amiri Baraka Negli anni Settanta si avvicinò
al marxismo-leninismo e ad un socialismo terzomondista: "Sono diventato comunista
attraverso la lotta, l'intensità della passione capita, compresa, e infine presa,
come forza, mia ideologica chiarezza, come scia di un jet, forza nucleare di ragione,
che viene da molto indietro, dalla nascita nera, innescata dalla storia, diretta
dall'esperienza". Sempre impegnato a portare il nazionalismo nero tra la gente del
ghetto Amiri Baraka/ Leroi Jones è un infaticabile "lavoratore culturale", che "si
tiene sempre sul punto di massima tensione di quella politica che viene plasmata
dall'arte". Le citazioni virgolettate sono di Anne Waldman, in A.A.V.V., "The beat
book", op. cit., p.183.
[10] Un jazzista bianco come Charlie Haden, ha più volte veicolato dei messaggi
politici attraverso l'opera della Liberation Orchestra, con cui ha interpretato
i canti della guerra civile di Spagna. Charlie Haden apparteneva a quell'avanguardia
che cercava di trasmettere contenuti attraverso le opere musicali. Durante un concerto
in Portogallo del 1972 dedicò un brano, Song for Che, ai movimenti di liberazione
in Mozambico e Angola facendosi così espellere dal governo portoghese. Questo esempio
testimonia l'esistenza di un free di protesta bianco, con i suoi contenuti e le
sue motivazioni, a fianco di quello nero. Cfr. con Giampiero Cane, op. cit., p.200.
"L'opera presentata da Charlie Haden e dalla "Music Liberation Orchestra", potrebbe
anche nascere da una estensione analoga del lavoro di Shepp al mondo culturale bianco,
ma oggettivamente essa amplia i termini della relazione e li complica. Almeno tematicamente,
essa si annette materiali che non appartengono alla tradizione afroamericana, ma
a quella rivoluzionaria. (…) L'esposizione si s'alterna con la improvvisazione,
i passi afroamericani percorrono un itinerario lasciato da tracce di un altro linguaggio
popolare, nel quale il blues non si colloca per sua natura, ma per mediazione. Si
parlano, dunque, due lingue diverse, ma esse sono ambo rivoluzionarie".
[11] Loretta Valtz Mannucci, I nuovi americani, op. cit., pp. 123-124.
[12] Giuseppina Cortese, Letteratura e coscienza nera, Milano: Mursia, 1973, p172:
"L'America bianca è dunque pazzia e falsità, mentre l'America nera, perpetuamente
alienata dai beni materiali, ha sviluppato una profonda spiritualità, che è l'essenza
della sua cultura e forza vitale. Le conclusioni di Jones sono sostanzialmente analoghe
a quelle di Baldwin e di Ellison, dove sottolineano l'energia morale accumulata
dai neri attraverso la sofferenza(la disciplina morale come essenza dello stile
di vita dei neri è uno dei temi favoriti di Ellison)".
[13] W.Mauro, E. Clementelli, La trappola e la nudità, Milano, Rizzoli, 1964, p.65.
[14] Giuseppina Cortese, op. cit., p.190, su Eldridge Cleaver: "optando per la causa
della rivoluzione ha sacrificato la vena più intime e personale che, intrecciata
al tema politico, è la sostanza vitale di Soul on Ice.
[15] Ibidem, p.70.
[16] Le parole di Ellison sono riportate in: Giuseppina Cortese, op. cit., pp. 108-110.
Su questo concetto dell'integrazione della cultura nera con quella bianca e dei
problemi ad essa connessi, riporto un caso citato nel testo della Cortese: "Nel
corso di una conferenza, tenuta in una università, Ellison predisse che lo stile
afro sarebbe stato presto incorporato nella cultura popolare americana. I giovani
neri, che respingevano per intero la tesi di Ellison circa l'incorporazione progressiva
dello stile dei neri nel costume americano, accolsero il suo discorso con veementi
proteste, ma il tempo ha dato ragione ad Ellison". (p.109).
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
|
Inserisci un commento
© 2000 - 2024 Tutto il materiale pubblicato su Jazzitalia è di esclusiva proprietà dell'autore ed è coperto da Copyright internazionale, pertanto non è consentito alcun utilizzo che non sia preventivamente concordato con chi ne detiene i diritti.
|
Questa pagina è stata visitata 5.487 volte
Data ultima modifica: 27/04/2014
|
|