Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.
L'arte nera
"L'arte nera, come qualsiasi altra cosa nella comunità nera,
deve rispondere in modo positivo alla realtà della rivoluzione". Così esordisce
l'ideologo nero Ron Karenga in un saggio dedicato al rapporto tra arte e Black Power.
L'arte giudicata secondo un criterio sociale. L'arte africana si basa su tre caratteristiche:
è funzionale, collettiva, impegnata e -esorta Karenga- "noi dovremmo tentare
di usarla come base fondante per una costruzione razionale che incontri le nostre
attuali necessità".[1]
Funzionale perché il movimento nero non può accettare la "falsa
dottrina" dell' art pour l'art, perché l'arte riflette il sistema di valori
dal quale essa proviene. Fin qui rimaniamo nell'ambito del consueto dualismo arte-engagement,
sul quale Karenga innesta degli elementi di novità: il problema filosofico-politico
dei due tipi di libertà, libertà di o libertà da, applicato nel campo dell'estetica.
Perché questa: "è davvero una questione politica o sociale e fa aumentare le
contraddizioni per quell'artista che rigetta l'interpretazione sociale dell'arte.
Tuttavia quando egli domanda libertà di fare qualcosa o libertà dalle restrizioni
che gli impediscono di fare qualcosa, sta avanzando richiesta di un diritto socio-politico
che, come diciamo noi, rende l'arte primariamente sociale e in un secondo tempo
estetica. L'arte non esiste nell'astratto come la libertà non esiste nell'astratto".
Karenga fornisce un'ottima chiave di lettura per interpretare la radicalizzazione
del free dalla metà degli anni Sessanta. Molti studiosi si sono affannati a dimostrare
che in origine il free era solamente un movimento sovversivo a livello musicale,
che contemporaneamente al free il jazz esprimeva anche musiche commerciali e non
impegnate (vedi il successo internazionale della bossa nova), che la rivoluzione
free riguardava pochi musicisti e interessava pochi ascoltatori. Sono dati incontestabili,
ma non cancellano l'importanza che il free ebbe in seguito, quando i musicisti precisarono
meglio la natura del loro agire, e, spinti dal radicalizzarsi della lotta, sentirono
di doversi gettare nella mischia come artisti, mettendo la loro opera al servizio
della comunità. In quel momento si fece strada una nuova generazione di musicisti,
intellettualmente preparati e consapevoli, che decidevano di restituire all'arte
quel ruolo sociale che le era stato sottratto. Questo ultimo caso è ben rappresentato
dalla figura di
Archie Shepp.
A metà strada tra nazionalismo nero
e black panthers si situa la figura di Shepp, modello di musicista impegnato nella
costruzione di una musica funzionale alla rivoluzione. Su di lui si sono versati
fiumi d'inchiostro, mentre questi riversava contro il pubblico torrenti di note
dal suo sassofono dalla voce sanguigna, rabbiosa e riservava alla critica dichiarazioni
al vetriolo. Affermazioni che riecheggiano da vicino quelle coeve di Karenga e di
Leroi Jones. Per lo Shepp musicista, ma anche per l'uomo sempre pronto alla polemica,
vale l'affermazione che ha fatto James Badwin: "In questo paese, essere negro
e relativamente cosciente significa essere quasi sempre in collera"[2]. Così
va vissuto il sassofono perennemente "collerico" di Shepp. "Il musicista nero
è un riflesso del popolo nero, in quanto fenomeno culturale e sociale. Il suo scopo
deve essere quello di liberare, sul piano estetico e sociale l'America dalla sua
disumanità"[3]. Difficile trovare una consonanza maggiore tra questa affermazione
di Shepp e il ragionamento sull'arte svolto da Karenga. Quando Karenga afferma perentoriamente:
"la reale funzione dell'arte è di fare la rivoluzione usando il suo specifico medium"[4],
pare rivolgersi proprio a Shepp, che per una decina di anni si è fatto portatore
di un messaggio politico e musicale di questo tipo. La critica lo ha sospettato
a lungo di usare il suo impegno politico per farsi pubblicità, perché la sua musica
difficile, impegnativa, non ammette mezze misure. Questo non tenendo conto di quanto
possa pregiudicare una carriera artistica dichiararsi di sinistra in modo così esplicito
per un uomo di colore nell'America degli anni Sessanta. Non sono molti i musicisti
d'avanguardia che si sono espressi con la chiarezza di Shepp. Non dobbiamo dimenticare
che l'America non è mai stata tenera con i suoi dissidenti intellettuali e, se a
questo si aggiunge il problema razziale, non deve stupire la prudenza con la quale
molti altri jazzisti -anche di primo piano- si sono accostati alle problematiche
politiche[5].
Ornette
Coleman, che non ha mai goduto del favore del grande pubblico negli Stati
Uniti, si è imposto in diversi casi una sorta di auto censura: rinunciando ad esempio
ad incidere un brano con il titolo da lui scelto (China Revolution).[6] Ai primi
concerti di Shepp in Europa si assiste addirittura allo scontro verbale e fisico
tra detrattori ed estimatori. In un resoconto del giornalista Pino Candini su di
un concerto tenuto da Shepp a Lecco nel 1967 possiamo vedere, tramite le parole
dell''inviato di "Musica Jazz", quale fu la reazione del pubblico italiano all'arrivo
del primo free jazz americano. "La temperie espressiva è subito rovente, violenta,
chiaramente provocatoria. Appare fuor di dubbio che, se Davis non si cura del pubblico,
Shepp addirittura lo insulta con premeditazione. La platea, infatti, investita
da quella raccapricciante massa d'urto, ha uno scossone, alcuni si alzano, abbandonano
il teatro, altri protestano, si grida buffoni!, vogliamo un po' di jazz!, eccetera,
ma gli applausi superano i dissensi" [7].
Il critico Franco Fayenz, presente allo stesso concerto rievoca:
"Dopo dieci minuti gli spettatori sono già divisi in due partiti opposti, e discutono
gridando per sovrastare i boati sonori che provengono dal palcoscenico. Due critici,
per poco non si picchiano. E' un momento bellissimo -esclama quello che è d'accordo
con Shepp- siamo tornati a litigare". Come se la musica di Shepp riportasse
indietro le lancette al tempo della furiosa battaglia tra i modernisti del bop e
i tradizionalisti. Shepp rappresenta il Leroi Jones della musica suonata; entrambi
usano a fondo le armi che hanno a disposizione: la parola, la penna, il sassofono
tenore, per esprimere il loro disagio e la loro rabbia nei confronti dell'America
"bianca". Il musicista jazz è come un "giornalista estetico" dell'America dice Shepp
a Jones in un'intervista.[8] Qualcuno ha definito la musica di Shepp, nella sua
globalità, come "metamusica". Per il musicologo Giampiero Cane "si spiega per
quel che è soprattutto in quanto spiega quel che è stato: quindi per musica nera,
perché spiega la musica nera, e, inoltre per musica proletaria nera perché spiega
la musica proletaria nera".[9]
Più semplicemente, si può affermare che l'opera del musicista,
rappresenta una traduzione programmatica in musica del Popolo del Blues di Leroi
Jones, il quale, a sua volta, ha definito Shepp un "poeta della Nazione Negra",
convalidando ancora di più il ruolo di rappresentante dell'estetica del popolo nero[10].
Possiamo prendere ad esempio una pagina violenta e polemica della prosa di Jones
e confrontarla con le dichiarazioni tanto scandalose all'epoca quanto oggi appaiono
"normali" di Shepp. In Con-stato-azione[11] (1965), jones scrive: "Il ruolo dell'artista
Nero in America è contribuire alla distruzione dell'America quale lui la conosce.
Il suo ruolo è riferire e riflettere in modo così preciso la natura della società,
e di se stesso in quella società, che gli altri uomini saranno animati dall'esattezza
della sua rappresentazione e, se sono uomini neri, saranno animati a farsi forti,
avendo visto la propria forza, e la propria debolezza; e se sono uomini bianchi,
tremeranno, malediranno e impazziranno, perché saranno costretti a pascersi nella
sozzura del male che hanno fatto. L'artista nero deve trarre dalla propria anima
l'immagine corretta del mondo. E questa immagine deve usare per legare insieme i
suoi fratelli e sorelle nella comune comprensione della natura del mondo (e della
natura dell'America) e della natura dell'anima umana. L'artista Nero deve dare l'esempio
di vita dolce, di come essa differisce dalla presa mortale degli Occhi Bianchi.
L'artista Nero deve insegnare agli occhi bianchi le loro morti, e insegnare agli
uomini neri come provocare tali morti. Siamo sleali noi, non siamo chiari./ Siamo
maghi neri, nere art/ i facciamo nei laboratori neri del cuore./I leali sono/ chiari,
e mor/ talmente bianchi./ Il giorno non li salverà/ e noi possediamo/ la notte/.
Prosa, poesia, passione politica si mescolano in una miscela esplosiva; la stessa
che faceva infuriare i "puristi" che a Lecco nel 1967 volevano sentire del jazz
e cercavano una fruizione di tipo convenzionale del "bello", rimanendo scioccati
dalla proposta aggressiva del "brutto".[12]
Shepp ha cercato di dar vita alle suggestioni di Leroi Jones
ed ha agito fino in fondo il ruolo dell'artista rivoluzionario, finendo per cadere
nella spirale di contraddizioni che questo tipo di impegno comportava. Nello stesso
anno in cui Jones scriveva Con-stato-azione, Shepp rilasciava al periodico musicale
Down Beat una intervista divenuta famosa, antologizzata in tutte le storie del jazz
quando si parla di anni Sessanta e del ruolo della politica nel jazz. "Per me
gli Stati Uniti rappresentano il sistema sociale più marcio e razzista del mondo,
fatta eccezione forse della Rhodesia, dell'Africa del Sud e del Vietnam del Sud.
Testimone ancora impotente del massacro del mio popolo nelle strade che vanno da
Hayneville a Harlem, che farò della mia rabbia collettiva quando, come deve inevitabilmente
capitare, più niente la fermerà? La nostra vendetta sarà nera, come Fidel è nero,
come Ho Chi Minh è nero"[13]. Questa asserzione di Shepp smentisce l'accusa
di "razzismo alla rovescia" mossa al nazionalismo nero. La superiorità rivendicata
al nero (la Blackness) non è individuata in un fattore razziale, ma consiste nella
superiorità del rivoluzionario sull'oppressore che caratterizza tutti i popoli in
lotta, a prescindere dal colore della pelle. In questo passo si scorge anche un
cenno all'internazionalismo terzomondista dell'ultimo Malcolm X. Dopo Fanon e i
capi politici africani, il riferimento più comune all'interno del movimento è quello
al "modello cinese" di socialismo reale, che indicava una via concreta di lotta
per i popoli oppressi. "L'imperialismo è ancora in vita, continua a spadroneggiare
in Asia, Africa, e America Latina. In occidente opprime ancora le masse popolari
nei loro stessi paesi. Questa situazione deve cambiare. E' compito dei popoli di
tutto il mondo mettere fine all'aggressione e all'oppressione dell'imperialismo
e principalmente dell'imperialismo Usa". Queste affermazioni di Mao Tze Tung,
presidente del più grande paese socialista del mondo, offrivano una sponda alle
elaborazioni teoriche dei politici afroamericani. "La mia musica è per il popolo.
Se tu sei borghese, allora devi ascoltarla secondo i miei termini…", afferma
Shepp nel corso della stessa intervista del 1965. L'artista ammette che persone
ideologicamente diverse da lui, e diverse anche dalla classe sociale cui espressamente
fanno riferimento le sue opere, possano accostarsi alla sua musica, se si sforzano
di penetrare il mondo espressivo che la permea. Shepp mostra di interpretare bene
il valore universale e totalizzante dell'arte, che non può rimanere vincolato a
schemi troppo austeri e rigorosi neanche nei periodi in cui la motivazione politica
è più forte. Contemporaneamente però Shepp riecheggia il Libretto Rosso di Mao:
"Tutta la nostra letteratura e la nostra arte sono al servizio delle masse popolari
e in primo luogo degli operai, i contadini, e i soldati; sono create per gli operai,
i contadini e i soldati perché essi possano servirsene".[14]
Come si nota l'influenza maoista non fu soltanto preminente nel
campo politico, ma coinvolse le teorie estetiche della sinistra rivoluzionaria mondiale,
compreso il movimento nazionalista nero. Come a Milano, dove il pianista Gaetano
Liguori, jazzista di punta del Movimento Studentesco negli anni Settanta, rilascia
interviste e dichiarazioni "artistico-politiche" basate sul libretto rosso di Mao.
Shepp è un artista colto, ha studiato prima giurisprudenza per poi laurearsi in
arte drammatica, ha tentato di fare l'attore ed ha al suo attivo anche una pièce
teatrale dal titolo emblematico di The Communist e varie poesie. Ha poi lavorato
come insegnante e, per un certo periodo, come assistente sociale ad Harlem. Il titolo
della sua composizione Los Olvidados, una delle più intense della sua produzione,
non è solo un riferimento a Buñuel, ma una dedica a tutti i giovani "dimenticati"
del ghetto. Lo stesso Shepp spiega nell'articolo testé citato la sua filosofia assieme
estetica e politica: "io sono un'artista antifascista. Io suono musica che parla
della mia morte per mano vostra. Io esulto perché vivo vostro malgrado. (…) Io
non vi permetterò di fabbricarmi a vostro piacimento: quell'èra è finita. E se la
mia musica non sarà sufficiente, scriverò per voi una poesia, un dramma teatrale.
E in ogni momento vi dirò: abbattete il ghetto. Lasciate libera la mia gente".
Come ha notato Fayenz, le affermazioni di Shepp non risultano poi così "sanguinarie"
[15]. Il discorso politico viene sempre visto con lo sguardo mediato dell'artista.
Shepp non si lascia prevaricare dall'aspetto politico del suo messaggio a tal punto
da vanificare il contenuto artistico della creazione. Sono stati la critica ed il
pubblico, infiammati dalle sue parole, a non essere riusciti ad avere di lui una
visione equilibrata. I primi spesso hanno preteso di giudicare i suoi lavori senza
considerare l'impegno che li informava, i secondi lo hanno ripudiato per la difficoltà
della musica o ne hanno fatto un'icona oltre il lecito. Per questo Fayenz, secondo
il quale il concetto di artista impegnato "ha pieno diritto di cittadinanza"
nel jazz, osserva che: "piuttosto, si deve raddoppiare la vigilanza critica
contro la mistificazione, sempre possibile in un'arte di simboli non chiari come
quella contemporanea, contro i tentativi di collegare in modo meccanicistico, brutale
didascalico il contenuto politico alla forma artistica, e soprattutto contro l'approvazione
o la disapprovazione preconcetta di una proposta d'arte legata, legata all'adesione
o al rifiuto delle idee che stanno dietro". Gli anni Sessanta sono stati duali:
se da un lato c'era l'esplosione di una politica giovanile libertaria e anarchica,
non bisogna dimenticare che nel quadro delle politiche governative tradizionali
o nelle relazioni internazionali dominava un rigido bipolarismo ideologico, non
particolarmente incline a valutare sottili distinguo. Dichiarazioni come quelle
di Shepp erano fatte per essere intese sia dagli estimatori che dai denigratori
del musicista in una identica maniera: l'uomo era schierato e aveva fatto professione
di fede in una precisa ideologia. Così in Europa negli anni Settanta le interviste
dei giornali, i titoli dei suoi dischi, le cronache dei concerti alimentavano il
mito di uno Shepp "compagno", mentre in America la situazione era radicalmente diversa
e proprio in quello stesso periodo si stava definitivamente consumando l'esperienza
dell'estremismo nero. Shepp si è trovato così ad essere acclamato come un "nuovo
Messia" da migliaia di giovani ad Umbria Jazz nel 1975, [16] o nelle varie manifestazioni
estive di partito, a cui Shepp partecipava come vedette e portavoce impegnato della
comunità di colore "oppressa nel paese più capitalista del mondo". Afo Sartori,
giornalista, scrittore e, negli anni Settanta, organizzatore di importanti concerti
a Pisa per un circolo Ottobre rosso (dalla chiara connotazione politica); ricorda
le esagerazioni che si commettevano in nome dell'ideologia: "I nostri festival
filtravano il jazz col setaccio del messaggio politico o da un punto di vista di
classe, e tutto doveva essere molto free e contenere tanto una incazzatura popolare
quanto una rabbia proletaria; deliri di slogan tipo Viva Marx, viva Lenin, viva
Archie Shepp…"[17].
Il musicista era diventato più che un "messia" di sinistra, un
eroe da stadio, un feticcio di partito, buono per manifestazioni che si presumevano
impegnate e politicamente corrette. In questi anni si sviluppò in Italia attorno
al jazz un fenomeno che il musicologo Marcello Piras[18] ha definito "industria
della protesta". Quando la rivoluzione passa, e rimane soltanto il "gioco", la rappresentazione
della ribellione, il free, che era stato il segno di quel furore, rimane legato
a quel cliché e diventa una stanca riproduzione di se stesso, ormai svuotato di
un autentico significato, anche culturale. Ma quei giovani dell'Umbria non erano
neri ma bianchi e neanche la musica di Shepp era la stessa che aveva proposto negli
anni Sessanta. Finito il furore rimane un musicista sempre pronto a dichiarare il
proprio impegno politico, come mostrano i titoli delle canzoni, ma la musica che
propone si inserisce nell'alveo della tradizione nera del jazz come rilettura del
passato. E' un cambio d'abito, e non solo metaforico: sostituisce il Dashiki, la
tunica africana che era diventata il simbolo del nazionalista nero, con dei più
convenzionali vestiti di foggia occidentale. Negli anni Sessanta quando la sua musica
bruciava incandescente egli era fiducioso nell'accorrere ai suoi concerti del pubblico
di colore, che conformemente alle teorie di Karenga e Jones, non poteva non riconoscersi
in una musica che per definizione era rivoluzionaria, costruita su segni e simboli
che la comunità nera doveva capire. Shepp pensava di potersi muovere liberamente
nell'ambito di una musica di ricerca, non temendo di perdere il collegamento con
la sua gente "dato che un meccanismo necessitante lo legherà ad essa in questa relazione,
non tanto dialettica, quanto direi, d'interno-esterno, d'inconscio-conscio, di sentimento-dichiarazione".[19]
Questo ragionamento non tiene conto dello scarto culturale che separa la proposta
musicale e il significato che vi immette dalla mancanza di istruzione musicale che
caratterizza la popolazione di Harlem che mostra di preferire il rhythm&blues o
il soul al jazz. Gli intellettuali di colore, in testa Leroi Jones, puntavano parecchio
su di una idea di "unità" di tutte le musiche di colore. Poiché però le comunità
urbane nere denunciavano dei limiti estetici che impedivano loro di accostarsi ad
una musica tanto ostica, nonostante gli sforzi fatti dai jazzisti per avvicinarsi
alla loro gente, questo collegamento avanguardia musicale-popolo, fallì. Per Gunter
Lenz la questione concernente il significato politico della musica degli anni Sessanta
si è dimostrata più complessa di quanto non avessero pensato i nazionalisti neri
durante quel periodo. "La speranza che tutte le forme della black Music, ivi
incluso il nuovo jazz, dovessero per necessità essere "popolari", come si supponeva
fosse la voce genuina delle masse nere, si rivelò un'aspettativa piuttosto ingenua.
Se volevano diventare artisti, non semplicemente intrattenitori, e portare avanti
l'esplorazione musicale della propria esperienza sino a limiti estremi, i musicisti
neri dovevano accettare l'alienante scarto tra teoria e prassi e –a partire dalla
rivoluzione del bebop- creare un tipo di ‘musica d'arte' che non sempre però poteva
essere apprezzata dal pubblico nero"[20].
Schematizzando: l'orgoglio nero viene rappresentato da
James Brown
e non da Archie
Shepp. Questo svela il nodo fondamentale dell'arte di avanguardia che si
rifà idealmente e culturalmente al ghetto, al proletario nero, ma non è da questi
capita. L'illusione di una musica rivoluzionaria comprensibile con la sola forza
del simbolo sottinteso è ingannevole. Shepp si è perso in un labirinto, tra prassi
e teoria, tra estetica e rivoluzione, compromettendo una visione equilibrata della
sua arte. Quando si verificano le condizioni per una fruizione di massa le cose
non migliorano: a rispondere non è il pubblico per cui era stato pensato il prodotto
e forse neanche la ricezione non è quella corretta, trasformata in un momento di
aggregazione, un happening per la gioventù di sinistra, per la quale il jazz tornava
ad essere un prodotto di "consumo" Un uso del free jazz in cui l'essenza dell'opera
musicale finiva per essere l'ancella della bandiera di un partito o delle esigenze
del pubblico giovanile. Ancora Sartori riporta che
Archie Shepp,
parlando della sua esperienza come docente di musica e cultura afro-americana all'università
di Amherst, nel Massachusset, ha affermato amareggiato: che alle lezioni "non si
presenta un nero che sia uno, sempre e soltanto giovani intellettuali bianchi".[21]
Come non c'è stata una radicalizzazione di massa della popolazione
di colore, lo stesso vale per il jazz che rimane una musica intellettuale e non
può in nessun modo aspirare a rappresentare l'idea di comunità, perché una comunità
a livello politico non si è formata e non può neanche rappresentare la musica della
rivoluzione, perché rivoluzione non c'è stata. Il musicista free non può esprimere
l'universalità (la rabbia del popolo, la rivoluzione), fornisce una personale interpretazione
di universalità. Ecco di nuovo Piras spiegare con un robusto paragone questo concetto:
"In realtà, Shepp ha superato il conflitto interno tra, il ruolo razionalmente
assunto, il portabandiera, e l'inconscia volontà di regressione verso il ventre
materno- l'ombra di Coleman Hawkins[22], in cui ogni tanto si rifugia. Ora, la sua
aggressività si rivela per quella che è: estroversione, inquietudine personale,
insofferenza. Angosce artistiche ed umane catalizzate dalla Black Revolt, certo,
ma pur sempre individuali. Shepp non è che il cantore di se stesso; e lo è sempre
stato".[23]
Discorso valido per Shepp solamente in quanto figura che simboleggia
il più compromesso dei portabandiera, quello che si è identificato maggiormente
con l'impegno politico. In questo se vogliamo si annida forse un errore di Carles
e Comolli che vedono nel free un arma, come nella politica del BPP, per scuotere
i neri dalla loro apatia e convincerli ad unirsi nella lotta in quanto risultano
complessivamente una classe (la borghesia nera è numericamente ridotta) ed è come
classe che globalmente vengono sfruttati.
Il free jazz ha scelto il suo campo d'azione: rappresenta la
testimonianza culturale delle lotte nere, ed è la reazione all'opera di sviamento
della musica nera a profitto degli interessi bianchi, "offre il suo apporto nelle
lotte politiche più avanzate, quando propone una pratica d'arte militante che è
esattamente quanto da moltissimo tempo la cultura borghese, l'estetica idealista
e l'ideologia imperante hanno tentato di evitare, insomma un'arte che non sia più
al servizio della classe che esercita il potere (come in effetti è accaduto)"[24].
Carles e Comolli non vedono che le forze rivoluzionarie nere,
che secondo loro "proprio nel campo ideologico agiscono con maggior vigore", hanno
fallito su questo terreno il compito che si erano prefissi. La loro lotta è stata
costruttiva e foriera di conquiste, mediante la realizzazione degli studi neri e
la riscrittura di una storia "nera"; la musica free ha cambiato il corso del jazz.
Purtroppo i risultati più importanti non sono stati quelli "culturali" ma quelli
concreti, materiali: la minor disuguaglianza, un inserimento economico migliore,
hanno avuto la conseguenza di allontanare molti uomini di colore da una prospettiva
rivoluzionaria. La rivoluzione politica, come la rivoluzione culturale e la ribellione
del free, sono rimasti confinati nell'esilio dorato dei fenomeni elitari, per questo
motivo sono crollati sotto il peso delle loro contraddizioni.
[1] Arthur C. Littleton, Mary W. Burger,
Black view points, New York: New American Library, 1971, p.174. Citazione di inizio
paragrafo nella stessa pagina, traduzione mia.
[2] Citato in Charles E. Silberman, Crisi in bianco e nero, introduzione di Roberto
Giammanco, Torino: Einaudi, 1965 p.72.
[3] Intervista a Jazz Magazine, in Carles e Comolli, op. cit., p.29.
[4] Ron Karenga, Black art: Mute matter given force and function, in Littleton e
Burger, op. cit., p.176.
[5] Antonio Barbon, Daniele Albani Barbieri, Impegno e contestazione nella Free
music, Musica Jazz, n.6, 1969, p.15. "…L'impegno politico di questi musicisti (dentro
e fuori la loro musica) può in molti casi compromettere ingaggi, contratti, esibizioni,
in America e in Europa; molti perciò fanno difficoltà quando si chiede loro quale
atteggiamento politico abbiano e quale sia il rapporto tra politica e musica. E'
una prudenza più che necessaria ovviamente, ma che purtroppo per noi rende oscuro
il quadro, talvolta indecifrabile, contraddittorio perché gli stessi musicisti rilasciano
volta a volta dichiarazioni diversissime, preoccupati dell'atteggiamento ostile
dei loro interlocutori, (noi stessi abbiamo assistito al fenomeno di un musicista
d'avanguardia jazzistica che mutava radicalmente tono a seconda che parlasse con
sconosciuti oche si trovasse in compagnia di amici, e questo non per compiacenza,
ma perché temeva che mostrandosi troppo impegnato o arrabbiato potesse finire nei
pasticci. La vita di un musicista nero è già abbastanza difficile senza bisogno
che egli vada a cercarsi altri nemici)".
[6] A. Barbon, D.A.Barbieri, art. cit. p.15.
[7] Pino Candini, jazz a Lecco, in Musica Jazz, n.12, 1967, pp.15 e 16.
[8] Citato in A.Polillo, op.cit., p.263.
[9] Giampiero Cane, op. cit., p.200.
[10] Una interessante analisi dell'opera del sassofonista si trova nell'articolo
di Stefano Arcangeli, "Parliamo di Shepp", Musica jazz, n.3, 1974, p.10-15. Le parole
di Leroi Jones sono riportate a pagina 15 del citato articolo.
[11] A.A.V.V., The beat book, a cura di Anne Waldman, premessa di Allen Ginsberg,
Milano: Il saggiatore, 1996, p.184-185.
[12] Un'altra testimonianza sui concerti del 1967 è in: Jack Cooke, "Archie Shepp",
I grandi del jazz; Milano: Fratelli Fabbri editrice, 1981, p.7. "…Quel suo camminare
a lunghi balzi felini per il palcoscenico indossando le policrome tuniche africane,
quel suo girovagare insieme a Rudd (trombonista bianco) tra gli spettatori soffiando
furiosamente negli strumenti, dimostrano il senso del teatro che il tenorsassofonista
sa risvegliare in ogni esibizione e che si accoppia al puron urto fisico che il
pubblico riceve da una vera e propria aggressione sonora…".
[13] Citato in Carles e Comolli, p.19.
[14] "Discorsi pronunciati alla conferenza di Yenan su letteratura e arte". (maggio
1942). Pubblicate sul Libretto rosso, ora in Mao Tze Tung, Citazioni. Il libretto
rosso, Roma: Newton Compton, 1994.
[15] Questa e le successive citazioni si trovano in Fayenz, op. cit., p.264.
[16] Il termine "messia" utilizzato da Jack Cooke per descrivere l'entusiastica
accoglienza riservata a Shepp durante le esibizioni europee ella metà degli anni
Settanta. Jack Cooke, op. cit., p.7. In quel periodo, nonostante la musica fosse
più rispettosa delle tradizioni, le sue dichiarazioni giornalistiche rimanevano
furiosamente anti-establishment. Cfr.con intervista del 1974 a Melody Maker: "Gli
avanguardisti degli anni Sessanta erano visibilmente pericolosi per il sistema e
perciò era necessario metterli a tacere, uccidere i creatori di quella musica, talvolta
anche fisicamente" cit. ibidem (p.7)
[17] Afo Sartori, "Santi a dispetto del paradiso", prefazione di Giorgio Gaslini,
nota introduttiva di Stefano Arcangeli, Pisa: Pacini Editore, 1985, p.84.
[18] Una critica diversa a Shepp gli è stata rivolta dopo l'ammorbidimento degli
anni Settanta, quando tentando di comunicare con le masse procede ad un recupero
di stilemi africani e contemporaneamente ad una semplificazione della sua musica.
Per Marcello Piras: "Colui che si era definito, in una famosa sortita, artista antifascista
approda a un realismo socialista a tempo di rhythm & Blues". "L'avanguardia americana"
di M. Piras, in: A.A.V.V., Il jazz degli anni Settanta, Milano: Gammalibri, 1980,
p.54.
[19] Giampiero Cane, op. cit., p.192.
[20] Gunter H. Lenz, "Harper, Baraka, Coltrane", in A.A.V.V., Jazztoldtales, a cura
di Franco Minganti, Imola: Bacchilega, 1997., pp.101-102.
[21] Afo Sartori, Santi a dispetto del paradiso, Pisa: Pacini, 1985, p. 157.
[22] Coleman Hawkins rappresenta la tradizione del sassofono tenore, di cui l'espressività
rauca e minacciosa del sassofono di Shepp è certamente figlia.
[23] Marcello Piras, A.A.V.V., "Il jazz degli anni Settanta", op.cit., p.55.
[24] Le due citazioni di Carles e Comolli sono rispettivamente a p.289 e285-286,
op. cit.
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
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Data ultima modifica: 27/04/2014
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