Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.
Il Free: motivazioni politiche, motivazioni estetiche
Il segno caratteristico del free si manifesta nella tenace affermazione
di una gerarchia ideologica nuova, totalmente rovesciata rispetto a quella occidentale.
L'aspirazione di quest'ultima consiste nell'elevarsi al di sopra del mondo materiale
mentre il free vi si immerge totalmente; la realtà drammatica della società americana
impone al jazzista una riflessione musicale e insieme esistenziale. Il jazz –unica
tra le arti nere- ha già ricevuto un parziale riconoscimento "ufficiale" da parte
della cultura occidentale ed è diventato l'espressione di punta di una intera cultura.
I jazzisti si sono guadagnati un ruolo culturale nella comunità, avvalorato dall'
élite bianca (critici, intellettuali, scrittori). Il musicista si trova a dover
svolgere questa funzione in un momento storico caratterizzato da un forte impegno
da parte della popolo afroamericano volto al cambiamento radicale della situazione
di subalternità. Il rovesciamento dell'ingiustizia sociale si riverbera nel ribaltamento
dei valori artistici: In questo contesto vanno inseriti l'abolizione della liricità
e l'uso del grido o del rumore, l'importanza accordata al tema della "bellezza nera",
assieme politico e artistico, l'approccio non ortodosso o provocatorio allo strumento.
Parallelamente, la frantumazione violenta del linguaggio jazzistico convenzionale,
ormai svuotato di contenuti dal suo uso commerciale, cerca di stabilire un nuovo
tipo di comunicazione con il pubblico, di scuoterlo dall'apatia con un approccio
aggressivo. La critica più preparata avvertiva che il problema legato alla musica
free consisteva nell'individuare correttamente una chiave semantica che ne permettesse
una lettura adeguata, laddove questa era andata verso una rottura totale con i segni
espressivi e i simboli del vecchio jazz. Mentre l'estetica manieristica continuava
a giudicare: "in base a equivalenti schematici che hanno funzione di norme, in
base a idee-tipo estremamente rigide che portano ad escludere tutto ciò che non
presenti, se non uguaglianza, almeno analogia con le regole stabilite."
[1]
Finisce con il free l'epoca della decifrabilità
immediata dell'opera e i nuovi segni vengono rifiutati perché ritenuti asemantici,
incapaci di esprimere contenuti validi. Alla musicalità si oppone la cacofonia,
lo sgradevole. Alla purezza, all'eleganza formale -altro canone artistico tipicamente
occidentale- si preferisce un suono viscerale, lacerato, irto delle stesse contraddizioni
che caratterizzano la società. A questo contribuiscono la complessità e la variabilità
delle strutture, il cosiddetto "polimorfismo" che Philippe Carles e Jean-Louis Comolli
definiscono come moltiplicazione/collisione/giustapposizione a ogni livello del
materiale e dei codici espressivi dei musicisti. Il polimorfismo non può essere
definito mediante un'elencazione di stilemi, di forme ricorrenti, dunque non è consentita
una riduzione ad una unità (di composizione, di registro di genere, ecc.). "Nel
mito dell'Unità artistica –concludono Carles e Comolli- non è mai stata avvertita
la sua causa, promossa dall'ideologia e dalla teologia dominanti: la negazione della
lotta delle classi" [2].
Contemporaneamente all'opera dei jazzisti liberi, negli ambienti
della sinistra studentesca libertaria europea ed americana si andava elaborando
una critica del linguaggio come strumento di potere che trasmette un messaggio "altro"
rispetto al vissuto autentico. L'Internationale Situationiste nel 1963 affermava
che "la presa di possesso del linguaggio da parte del potere è assimilabile al
suo impadronirsi della totalità" [3],
Carles e Comolli piegano questo stesso concetto ad una classica interpretazione
marxista, che il free ha inteso estensivamente in tutta la sua portata rivoluzionaria
ed eterodossa. Sempre dal Pamphlet dell'organizzazione rivoluzionaria Internationale
Situationniste, estrapoliamo una definizione di poesia: "comunicazione immediata
nel reale e modificazione reale di questo reale…è linguaggio liberato…che riacquista
la propria ricchezza e, spezzandone i segni, ricopre insieme le parole, la musica,
le grida, i gesti…i fatti".[4]
L'arte informale è stata considerata a lungo arte pura e dunque
totalmente disimpegnata, rispecchiante i moti dell'animo più personali. A questo
ha risposto bene il musicista (e giornalista) Franco Pecori nel 1968: "l'arte
pura non esiste, perché nell'uomo che la produce è sempre concretizzata una storia,
la quale appunto lo determina come essere sociale e gli permette di esprimersi…"
[5]. L'equazione arte pura-informale è
un criterio che non si può in nessun modo applicare al free, vaso sonoro traboccante
di implicazioni extra artistiche che coinvolgono l'universo culturale del nuovo
nero. Arte ideologizzata, hanno affermato i detrattori, senza spingersi oltre. Non
per lo studioso Walter Mauro, poiché il binomio arte-ideologia va visto in una funzione
dialettica che può aiutare a focalizzare meglio il problema. Rifacendosi ad una
definizione di Althusser, secondo il quale l'ideologia è il sistema di rappresentazioni
forgiato dagli uomini in una data società per tradurre le loro relazioni con il
mondo, ne discende che: " l'attuale ideologia dei neri traduca il nuovo tipo
di legame che essi intrattengono con la vita sociale del loro paese per cui essi
si sforzano di superare il concetto di integrazione, attraverso il rifiuto di quella
liberalità del bianco in cui per secoli avevano creduto".
[6]
La creazione del jazzista avviene in uno stato di necessità,
in cui - rabbia e urgenza di comunicare portano il musicista ad un grido reiterato,
a volte fino al parossismo. Il bello come criterio estetico obiettivo, magari come
idealtipo preesistente all'artista stesso, è sostituito dalla espressività
immediata come gesto individuale che si manifesta all'interno di un gruppo e diventa
un momento comunitario, una esplosione di vitalità collettiva che per il critico
musicale Arrigo Polillo è una sorta di "rito panico" [7].
Se pensiamo alla definizione hegeliana di arte, come necessità derivata dalla precarietà
del reale e giungiamo fino alle conclusioni di Marcuse, che la considera come:
"Una liberazione simbolica in forme sublimate dei bisogni repressi"
[8], l'intuizione di Polillo trova conferme
autorevoli. Per spiegare la libertà estrema del free, che si evidenzia nella fragilità
e totale apertura delle strutture Polillo ricorre al concetto fisico di "entropia"
[9], la misura quantitativa del grado di disordine
di un sistema, dove il sistema è quello musicale e la sua funzione si situa nella
comunicazione di un messaggio. Nel free, come in analoghe espressioni avanguardistiche
europee osserviamo un simile utilizzo di strutture gracili, in cui il livello di
entropia è tanto alto che a volte si sfiora il caos; un'ambiguità di significati
e l'uso di dissacrazione e auto ironia, il gusto per l'aggressione del pubblico
con comportamenti abnormi, traumatizzanti, che però non mettono del tutto in crisi
la possibilità di stabilire una comunicazione, diversa rispetto a quella normale
intercorrente tra esecutore e fruitore. A questo proposito va notato che il pubblico
del free, è costituito da un numero ristretto di appassionati, anche se le proprie
implicazioni politiche, in certi periodi, lo hanno reso più popolare presso i giovani
di quanto sarebbe lecito attendersi da una esperienza di musica d'avanguardia "difficile".
E' il caso dell'Europa, dove il free ebbe numerosi consensi proprio
grazie alle implicazioni politiche di cui si faceva portatore. Con la tradizione
jazzistica precedente (bebop) c'è un forte punto di contatto che riguarda il recupero
del blues, con una diversa intensità e sfumatura: per i boppers significava ritorno
alle radici autentiche del jazz, recupero di una tradizione, per i musicisti dell'ultima
generazione era invece un'arma in più contro l'occidentalizzazione del jazz. Il
blues mantiene un grado di vitalità, di capacità di comunicare emozioni, che il
jazz ha perso con il passare del tempo: il suono nel blues è strettamente legato
allo stato d'animo che si vuole esprimere. Il musicologo tedesco Joachim E. Berendt
ha intravisto specialmente in
Ornette
Coleman questa riqualificazione del blues. Lo stesso Coleman ha affermato:"
Quando in una canzone suono un fa che significa peace penso che quel fa non può
avere lo stesso suono della stessa nota in un brano intitolato sadness (tristezza)".
[10]
Nel free conta il messaggio che l'artista desidera lanciare.
Quando non è sufficiente la musica arriva l'inserimento di brani poetici. Il caso
forse più celebre resta quello di Black Dada Nihilismus di Leroi Jones, in
cui le parole, accompagnate da commento sonoro, si scagliano contro l'ascoltatore,
con il loro carico di violenza. [11] La contiguità
del Jones poeta con l'approccio dei jazzisti free è evidente in questo suo linguaggio
crudo, che come l'idioma si è liberato del fardello, dell'obbligo alla liricità.
Lo strumento musicale che si fa carico di urtare nel modo più violento l'ascoltatore
è senza dubbio la batteria. Questa, che si caricava largamente del compito di produrre
il piacevole dondolio ritmico apprezzato dagli ascoltatori come effetto swing,
perde completamente la sua funzione nella scansione metrica del brano, anzi, i tempi
tradizionali si dissolvono e lasciano il posto ad una sorta di assolo senza soluzione
di continuità che dura quanto l'esecuzione e contribuisce a creare una tensione
sonora ai limiti del possibile. Ecco come descrive Mauro la non comunicatività del
free con il pubblico: "nell'ossessione gridata all'unisono si inseriscono gli
strumenti a fiato che accendono il clima "impossibile" e "illeggibile", e in quanto
tale esso colpisce direttamente la realtà della fruizione, e più consapevolmente,
a livello di sociologia, l'intera società prodotta dal kitsch. A questo punto il
fruitore regge per curiosità o fugge indignato, e nell'uno come nell'altro caso
il musicista free ha raggiunto il proprio fine di colpirne i gangli vitali laddove
nessuna forma d'arte tradizionale era riuscita ad operare"
[12].
Il jazz è arte americana e le proprie radici affondano tenacemente
nella cultura di quel paese. Questo vale per quei momenti in cui ha rappresentato
una colonna sonora per la borghesia bianca e il capitalismo, e a maggior ragione
riguarda anche quei periodi in cui, spronato dalle rivendicazioni politiche e dai
fermenti sociali, si è trovato sulle barricate rivoluzionarie o mescolato a hippies
e intellettuali underground.
[1] Alberto Rodriguez, Capire la Free Music, in: "Musica
Jazz", n.2-5, 1967, p.10.
[2] Carles e Comolli, op. cit., pp 278-279. La parte centrale del ragionamento di
Carles e Comolli rende chiara l'intromissione della teologia nella critica all'estetica
occidentale; alla base dell'estetica artistica europea tradizionale ci sarebbe un
sistema di valori introdotto dalla civiltà giudeo-cristiana: "che si ritiene il
fulcro di tutte le altre e la base unica e universale, e nella quale l'Arte detiene
una posizione centrale e superiore". Fa capolino la solita idea reazionaria della
centralità dell'Occidente. "L'Arte, come equivalente o sostituto della divinità
(i termini opera, creazione, genio, ispirazione -e la loro inflazione nella critica,
nell'estetica -<…> ben individuano questa sacralizzazione del lavoro artistico,
incarna nel sistema occidentale la purezza dell'Idea, che si pone al di là della
storia, svincolata dal contingente, dai contrasti (sintesi e trinità) e dal lavoro;
essa è l'ambito del godimento senza ostacoli (fantasma del capitalismo) e del potere
demiurgico e magico sul mondo. Invece tutto nel free jazz sembra fatto per sconvolgere
questa purezza e per contravvenire alle sue caratteristiche…".
[3] Internationale Situationniste, La critica del linguaggio come linguaggio della
critica, Torino: Nautilus, 1992, p.5.
[4] Internationale Situationniste, op. cit., p. 5.
[5] Franco Pecori, Free come relazione, in Musica jazz, nn. 8-9, 1968.
[6] W. Mauro, Jazz e universo negro, Milano: Rizzoli, 1972., p 216.
[7] A. Polillo, Il jazz, Milano: Mondadori, 1998, p. 276-277. Per una indagine sulle
strutture profonde del Free e una analisi puntuale del suo linguaggio visto come
un continuum sonoro non più formato di parti discrete come per un qualsiasi sistema
di trasmissione di un linguaggio; Franco Pecori, "Analizzare il continuo", in Musica
Jazz, n.4, 1969.
[8] W. Mauro, Elena Clementelli: "La trappola e la nudità. Lo scrittore e il potere",
Milano: Rizzoli, 1974.
[9] A. Polillo, op, cit., pp.278-279. Per il concetto di Entropia in relazione all'espressione
artistica si veda Rudolf Arnheim, Entropia e arte, Torino: Einaudi, 1974.
[10] Joachim E. Berendt, Il libro del jazz, Milano: Garzanti, 1973, p.123. Spiega
Berendt: "Ornette Coleman ha trasformato tutta la scala musicale in Blue Notes.
Quasi ognuno dei suoi suoni è spostato verso l'alto o verso il basso, è legato,
strozzato o ampliato. In breve, vocalizzato proprio nel senso del blues.(…) E se
poi, dopo anni in cui ci si è abituati al jazz convenzionale oggi ci si stupisce
di questa concezione, perché proprio tutti i fa, che riguardino la pace, la tristezza
o qualcos'altro debbono essere uguali dal punto di vista vibrante, allora bisogna
dire che in questo si fa sentire l'influenza della tradizione musicale europea,
un'influenza che Ornette ha escluso, almeno in questo campo".(p.127). La libertà
per il free si affranca, almeno inizialmente, dall' influenza europea; "distanziandosi
sul piano formale e su quello armonico dal continente bianco, ci si distanzia da
esso anche sul piano razziale, sociale, culturale, politico". (p.39).
[11] "Possa un perduto dio Damballah darci salvezza o quiete/ contro i ben conosciuti
assassini contro i/ figli di lui bianchi perduti! dada/ negro, nichilismo negro,
black dada nihilismus. Cit. in W. Mauro, "Jazz e universo negro", pp.227-228.
[12] W. Mauro, op. cit., p.230.
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
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Data ultima modifica: 27/04/2014
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