Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.
Le critiche al free
Una musica come il free, con una manifesta volontà di èpater
les bourgeois nelle performance pubbliche, non poteva non raccogliere giudizi
aspri. Questo avvenne in misura anche maggiore rispetto a quanto era già accaduto
con il bebop vent'anni prima. Segno che, nonostante la maggior preparazione, la
critica non era in grado di seguire immediatamente gli sviluppi di un'arte che richiedeva
una conoscenza compiuta dei fattori socio-culturali che la muovevano. In molti casi
fu la critica "progressista" che aveva difeso il bop a rifiutare il nuovo, che non
era in grado di capire in base a metri valutativi non più adeguati. Il free venne
spesso bollato come incomprensibile. La risposta di Carles e Comolli è perentoria:
"una simile tesi finisce per confondere le esigenze delle masse con le esigenze
culturali, ma anche economiche e politiche, dell'ideologia dominante; nonché per
occultare totalmente il problema di quali potrebbero essere le effettive urgenze
culturali delle masse con quanto l'ideologia, sotto la veste della domanda, attribuisce
e inculca loro e formula per loro conto (e anche attraverso loro). Il free jazz,
intraprendendo una polemica contro ciò che prevale nei gusti popolari (…) compie
un preciso sforzo per rompere non con il pubblico, ma con l'ideologia che lo pervade…".[1]
Difficile immaginare una argomentazione
più stringente, che spiega la rigorosa filosofia che si agita dietro la presunta
"illeggibilità" del nuovo linguaggio musicale e nello stesso tempo sferza la critica
per la sua connivenza con la standardizzazione dei gusti imposta dal mercato alle
masse. Le argomentazioni utilizzate non sono lontane da quelle introdotte dalla
scuola di Francoforte -segnatamente da Marcuse- per spiegare l'effetto dell'ideologia
in una società capitalistica di massa. Quindi la critica che esalta la natura popolare
del jazz contro l'intellettualismo elitario degli esponenti del free non fa che
rafforzare, magari inconsciamente, l'assunto dell'ideologia dominante. Il free si
mostra più vicino agli interessi delle masse "ponendosi contro l'idea che esse hanno
della loro musica" di quanto non abbia fatto l'altro jazz che, bene o male, è stato
collocato al servizio dell'America bianca. [2]
Questa tesi è una evoluzione di un'intuizione di Leroi Jones,
il quale fin dal 1963, dichiarava, a proposito della musica nera contemporanea,
che questa si era nuovamente collocata al di fuori della cultura ufficiale americana,
dopo una parentesi in cui gli stessi jazzisti negri si erano lasciati immettere
nel giro della cultura bianca. Puntualizzava Jones: "Il che non vuol dire che
tale musica (il free) sia una più radicale, o più illogica, applicazione della filosofia
cinetica che ha improntato di sé la musica negra fin dal suo inizio in America.
La musica negra è stata sempre radicale nei confronti della cultura ufficiale americana".[3]
I messaggi politici vennero dopo la metà degli anni sessanta, quando il movimento
nero inasprì la propria attività. Ma nell'analisi della critica il messaggio politico
viene immediatamente negato e svuotato di valore. E' il problema di ogni avanguardia
che decida di immergersi nella realtà e di non aspettare che questa cambi, dall'alto
di una inaccessibile torre d'avorio; il free, come altre manifestazioni avanguardistiche
novecentesce rovescia a sue spese l'adagio primum philosophare, deinde vivere.
Ritorna il discorso sul rapporto tra musica e rivoluzione, tra musica e impegno
politico, i critici tornano a parlare di asemanticità dell'arte, di "separazione"
tra il testo dell'opera e l'interpretazione personale dell'artista dove solo il
primo conta ed è passabile di analisi. Così questi critici "si impegnano solo sul
terreno della musicologia", prendendo in considerazione esclusivamente i valori
musicali del jazz; e in base a questi il free viene definito anti-jazz. "Quando
la critica asserisce di non interessarsi che di fatti musicali finisce di ingannarsi,
perché non avverte che quanto appartiene alla sua definizione di ciò che è musicale
o meno, nei suoi criteri estetici e nella sua concezione dell'arte, è determinato
da una cultura e da una ideologia che sono nella circostanza la cultura occidentale
e l'ideologia dominante nella società capitalista. Limitando la controversia al
solo piano delle differenze d'ordine musicale tra free e jazz, la critica si vieta
anche l'interrogativo sulla ragione d'essere di queste differenze. E così lo sviluppo
del free jazz è magicamente collegato all'insorgere nel jazz di una disposizione
morbosa maligna: la decadenza" [4].
Decadenza: termine paravento che cela la più grande soggettività
di giudizio senza tener conto di parametri che non siano quelli usuali nel giudizio
estetico. Rispetto ad una musica che si rifiuta di essere "necessariamente" bella,
perché questa è una qualità che non appartiene al suo sistema filosofico e preferisce
essere concreta, che rifiuta di piacere al pubblico perché ne denuncia l'alienazione
dovuta all'ideologia del mercato artistico, la critica si rivela tragicamente conservatrice
ed inadeguata. In Francia si accese addirittura una polemica che vide coinvolti
la rivista specializzata Jazz Magazine e il quotidiano Le Monde. La
posizione di Lucien Malson, autore dell'articolo per Le Monde, si risolveva
in una velata accusa di zdanovismo mossa a quei critici che faziosamente cercavano
di identificare troppo strettamente potere nero e free jazz, correndo il rischio
di valorizzare a tal punto l'ideologia da perdere di vista il livello estetico dell'opera
d'arte. La risposta arrivava da Jean-Louis Comolli, uno degli autori di Free
Jazz Black Power, testo fortemente orientato politicamente di critica militante
che, fin dal titolo, corre su una fune tesa nel vuoto e minaccia ad ogni istante
di cadere nel baratro paventato da Malson e di proporre un impegno della musica
come una concatenazione di causa-effetto troppo brutalmente meccanicistica. Meglio
l'indagine di Leroi Jones, secondo il giudizio di Malson, più realistica nell'affrontare
il terreno sociologico. La risposta di Comolli risulta, secondo Mauro, schematica
ma suggestiva: "il jazz è quella musica funzionale, o quanto meno espressiva
che la musica occidentale non è. Per questo ha a che fare con la sociologia, l'ideologia,
la politica". Comolli continua spiegando come questa relazione si è affievolita
con l'occidentalizzazione del jazz e che il free ha riscoperto. La critica non se
ne è avveduta subito perché impegnata in una lotta per il riconoscimento del jazz
e, per ottenerne la consacrazione, ha tentato di integrarlo nella tradizione occidentale.
Il jazz è sempre stato impegnato e questo lo riconoscono o lo rivendicano musicisti
come Roach, intellettuali neri come Jones e studiosi attenti come Hobsbawm.
Ornette
Coleman ha sintetizzato in una sola rapidissima frase, quasi fosse un passaggio
eseguito al suo sax alto, i fiumi di parole spesi in questo e in identici dibattiti
che si sono avuti in America come in Italia: "Rivoluzionario è il jazz in sé,
il fatto che il jazz esiste".[5]
Al di là dei nessi politici troppo facili, quando Comolli parla
della nuova prospettiva: "non più nella fusione delle influenze occidentali con
le radici africane, ma in quella della loro resistenza a fondersi…, per Mauro
sta introducendo una "ipotesi nuova e singolare, mai affrontata sinora in termini
così netti" [6]. Quando il trombettista
Bill Dixon nel 1964 organizzò quattro giorni di concerti sotto l'insegna "The October
revolution in jazz" (un modo ironico di promuovere l'avanguardia), tentava una operazione
di auto-mecenatismo volta a diffondere le nuove idee. Certo non si aspettava che
il movimento avrebbe esaurito così in fretta la sua carica propulsiva. Di quei concerti,
cui assistettero soprattutto musicisti, critici, e intellettuali, rimane una cronaca
di Dan Morgenstern, giornalista della rivista Down Beat (tra le più autorevoli
dedicate al jazz) che mostra come parte della critica avesse riconosciuto quasi
immediatamente l'importanza del nuovo jazz. Morgenstern parla di "assalto al presente
e a gran parte del passato", di "anelito alla gioia e alla libertà", del fascino
trasmesso da una ricerca musicale condotta in fieri. Quando il giornalista si pone
la fatidica domanda: "Ma è jazz?", la sua risposta ne rivela la competenza e la
saggezza, sgombrando immediatamente il campo dai pregiudizi e spuntando in modo
pacato le armi alla critica più ottusa: "Qualunque cosa sia non le si deve fare
torto facendo paragoni ingiustificati. Accusare un batterista di non avere swing,
nel senso che chi lo critica ha in mente, è scorretto e senza costrutto. Pretendere
aderenza a moduli formali che i musicisti evidentemente respingono è altrettanto
sciocco che accusare un pittore informale di non rappresentare la realtà". Vista
in prospettiva storica, l'ipotesi di un jazz rivoluzionario si è mostrata figlia
del tempo di una breve –seppur epocale- stagione di cambiamenti. L'urlo rimane gesto
fine a se stesso e perde il suo valore di contestazione quando cambiano le condizioni
sociali e politiche dell'ambiente circostante. Inoltre un movimento d'avanguardia
che nasce con una pars destruens così fortemente caratterizzata e vive nella
totale destrutturazione di ogni linguaggio finisce per negare validità anche alla
sua forma di espressione e a condannarsi ad un grido sempre più rabbioso e dunque
al silenzio. Di nuovo i musicisti si ritrovano tra le mani un'arte svuotata di senso
culturale. Parafrasando Leroi Jones, la musica fucile, iconoclasta senza possibilità
di compromesso, ha finito per eliminare se stessa, eco americano per le parole di
Albert Camus: "La maggior probabilità di autenticità è oggi, per l'arte, la maggior
probabilità di fallimento". [7]
[1] Carles e Comolli, op. cit., pp.272-273.
[2] Carles e Comolli estendono una classica argomentazione di Leroi Jones sull'hard
bop: "…E' aumentato il numero di quei negri (jazzisti o altro) i quali, spintisi
con successo in quella amorfa cultura americana, non hanno saputo più ritrovare
la filosofia sociale ed emotiva, che ha tradizionalmente ispirato la musica afroamericana.
Gli hard-boppers alla fine si trovarono tra le mani una musica tanto priva di senso
culturale nella sua fasulla emotività quanto quella di Mantovani: una musica d'atmosfera
per università negre".Leroi Jones, Il popolo del blues, Torino: Einaudi, 1968, pp.231-232.
[3] Leroi Jones, op. cit., p.231.
[4] Carles e Comolli, op. cit., p.276.
[5] Intervista di Ornette Coleman, in: Cane, op. cit., p.79. Cane usa questa frase
come titolo per il capitolo dedicato a Coleman. Pasolini ha paragonato l' "esserci"
dell'opera d'arte all' "esserci" del nero argomentando nella stessa maniera di Coleman:
"Un negro che presenti la sua faccia –nient'altro che la sua faccia, ossia la sua
negritudine esistenziale- in un cocktali tutto di purissimi anglosassoni, in un
quartiere residenziale, dove è proibito abitare perfino ai sudeuropei!, compie evidentemente
un atto di rivolta. Col suo stesso esserci, col suo stesso esserci come negro. Ebbene,
l'opera di un autore è come la faccia di un negro. E' con la sua stessa presenza,
con il suo esserci, che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto
a livello sovrastrutturale, ma strutturale. Infatti l'intera strutttura è messa
in ballo e in pericolo, dal solo esserci della faccia di un negro o dell'opera di
un autore". P.P.Pasolini, "il caos", op. cit., 81. Lo scandalo dell'esistenza in
Pasolini e Coleman, un intellettuale bianco e un musicista nero accumunati nella
diversità: per Pasolini consiste nel suo essere intellettuale ed in questo è simile
al nero afroamericano; perché l'intellettuale e l'uomo di colore sono "fratelli
nella segregazione" e nella lotta che devono ingaggiare contro il sistema. Questa
pagina è ispirata a Pasolini da un articolo di Ombre Rosse (rivista del movimento
studentesco) che porta come epigrafe una frase di Stokely Carmichael: "Gli intellettuali
non c'interessano per quello che fanno, ma per quello che fanno per noi". I leaders
del movimento nero sono un costante riferimento per tutti i giovani contestatori
europei dei Sessanta.
[6] W. Mauro, Jazz e universo negro, op. cit., p. 219. Nel libro si legge una sintesi
della polemica Comolli-Malson alle pp. 218-219.
[7] Albert Camus, L'uomo in rivolta, Milano: Bompiani, 1980, p.300.
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
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Data ultima modifica: 27/04/2014
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