Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.
Una variante: le critiche incrociate dei critici free
Un ulteriore approfondimento merita la diatriba che ha coinvolto
coloro che professionalmente si sono occupati di svolgere un serio lavoro critico
intorno al free. Alcuni di questi nomi sono già entrati nel discorso (Carles e Comolli,
Cane, Jones/Baraka), altri verranno citati nelle prossime pagine, ma per un momento
ora affrontiamo il discorso critico da una diversa angolatura. Alcuni critici ne
hanno fatto l'oggetto di approfonditi studi monografici, partendo da una posizione
di consonanza ideale al movimento (Valerie Wilmer, Rob Backus, Ekkehard Jost, John
Litweiler), ma questo, se da un lato li libera dalle critiche viste poco fa al
free nei suoi presupposti musicali, non impedisce l'emergere di divisioni nella
comprensione generale del fenomeno. In sostanza ci troviamo al cospetto di critici
che apprezzano positivamente gli esiti artistici del free e si spaccano invece tra
loro nella valutazione del significato da a attribuire a questa musica, segnatamente
sul suo valore semantico extramusicale. Prendiamo due casi emblematici, quelli di
Frank Kofsky e di David Such che utilizziamo perché le loro posizioni critiche vengono
rese trasparenti nel discorso, anche tramite polemiche incrociate. Ovviamente gli
anni Sessanta e Settanta mostravano una buona visibilità per la critica di sinistra
che nei decenni successivi invece è stata ampiamente oscurata e ostracizzata da
una nuova generazione di studiosi, decisamente più interessati agli aspetti musicologici
che non a quelli politici [1].
Il nocciolo del problema di quei critici che si occupano di free
in maniera dettagliata difficilmente può esimersi dal nodo gordiano: il discorso
del free va analizzato nel quadro di un contesto sociopolitico o ci si deve mantenere
solamente sul piano strettamente musicologico? Insomma: nel giudicare il free possiamo
farci entrare l'analisi politica? E in quale misura? Per Kofsky, che ha pubblicato
il testo Black Nationalism and The Revolution in Music nel 1970, la risposta
è scontata: il suo approccio prevede che il critico debba possedere un certo grado
di conoscenze nei campi della storia e della sociologia per poter meglio comprendere
come i cambiamenti sociali della popolazione afroamericana si sono riverberati in
maniera diretta nella musica dei neri.
Invece, scrive Kofsky: "la maggior parte dei critici affermati –il cui nome è
riconosciuto dal grande pubblico- non arrivano dalle scienze sociali e neanche da
studi umanistici, ma dalla pubblicità" [2].
L'argomentazione di Kofsky è stringente: pochissimi sono i giornalisti
che vivono del mestiere di critico (forse i soli redattori di Down Beat e
Whitney Balliett che è un columnist per il New Yorker). Tutti gli altri svolgono
l'attività di critica come lavoro di contorno e trovano la principale fonte dei
loro redditi nel mondo del jazz lavorando per le case discografiche come addetti
stampa, pubblicisti e redattori di liner notes, lavori di gran lunga più
remunerativi del recensire dischi per una rivista. Ovviamente l'intreccio di interessi
che si viene a generare da questa confusione di ruoli è nocivo per la musica creativa
e influenza pesantemente il giudizio estetico che ne viene dato. In un simile contesto
il musicista free è l'ultima catena di una ruota dove saldamente al centro stanno
i manager delle case discografiche che controllano all'origine la formazione del
consenso verso i musicisti o i generi. Kofsky accumula molti esempi di questo malcostume
con una tipica analisi marxista della "struttura", l'insieme di fattori economici
e politici che dominano il jazz, concludendo: "credere che un simile conflitto
di interessi non influenzi il giudizio dei critici di jazz richiede un abbondante
quantitativo di innocenza o di ingenuità, fatto che io non sono in grado di sopportare"
[3].
Con una vis polemica e satirica degna del miglior Marx
scrittore, Kofsky passa poi in rassegna, analizzandoli nome per nome, le peggiori
inadeguatezze di Leonard Feather, Dan Morgenstern, Michael Zwerin, specialmente
nel non voler vedere le condizioni di sfruttamento e razzismo in cui lavorano i
musicisti neri, passando poi ad un attacco en masse alla rivista Down
Beat. Introducendo il paragrafo scrive: "in quanto segue voglio andare oltre
i meri individui e dimostrare il ruolo chiave istituzionale giocato dalla rivista
Down Beat nel contribuire a perpetuare la supremazia bianca nel jazz". Come
opera Down Beat? Tramite la censura dei propri giornalisti: caso emblematico è quello
dello scrittore Ralph Gleason, uno dei più acuti osservatori del jazz. Un suo articolo
sui "venti di cambiamento" che uniscono il nuovo jazz a esperienze come la rivoluzione
cubana, le lotte del sud per i diritti civili, il movimento per il disarmo nucleare,
è stato boicottato con commenti del tipo: "dacci un taglio con quella roba comunista"
e con censure che hanno portato Gleason a dimettersi da collaboratore. La redazione
di Down Beat viene poi accusata di preferire sempre il bianco al nero: viene
rifiutata la collaborazione di Bill Dixon, all'epoca esponente della Jazz Composer
Guild e trombettista-compositore molto attivo sulla scena di New York. Quando si
vuole parlare di artisti visuali-musicisti si preferisce il clarinettista pittore
bianco Pee Wee Russell e non si parla dell'artista e sassofonista di colore Larry
Rivers, spesso membro dei gruppi di Elvin Jones. Soprattutto vengono censurati Cecil
Taylor, Archie
Shepp, Bill Dixon e molti altri musicisti radicali di colore
[4]. Il libro di Kofsky si dipana per diversi
capitoli nell'analisi puntuale del radicalismo nero e dei suoi legami con il nuovo
jazz e, pur essendo preponderante la visione storico-sociale che l'autore ha a cuore,
- "una forte e chiara dichiarazione d'intenti marxista sul ruolo dell'arte dentro
una rivoluzione", come ha scritto del suo lavoro Frank Salamone-, non mancano
acute analisi tecniche della musica, specialmente quella del quartetto di Coltrane,
individuato come il cuore di questa nuova musica [5].
Il libro si conclude con interviste a Elvin Jones,
McCoy Tyner
e Coltrane stesso. Il dialogo con Coltrane è uno dei più interessanti che ci rimangono
del musicista ed in esso si trova citata la famosa circostanza dell'incontro con
Malcolm X[6]. Coltrane la motiva come una semplice curiosità verso un personaggio
così chiacchierato dall'opinione pubblica e solo in virtù di questo fatto va ad
ascoltare un comizio di Malcolm X, peraltro uno degli ultimi prima del suo assassinio.
Per Kofsky questa è una conferma di un contatto tra il radicalismo politico e musicale,
confermata dall'ultimo capitolo del libro, un saggio su Malcolm X e la sua importanza
per la nuova musica nera. Altri (David Ake ad esempio) hanno osservato come in realtà
Coltrane nonostante le sollecitazioni a parlare di Kofsky, resti su posizioni intermedie
perché: "diversamente dai suoi protegé (Archie
Shepp su tutti), non si alleò mai pubblicamente con le fazioni di militanza
radicale del movimento per i diritti civili e il suo orizzonte rimase sempre la
pace".
Il campo critico non si divide solo sulla linea musicologica/sociale,
ma si apre un fronte interno che spacca anche coloro che appartengono idealmente
allo stesso lato della barricata. Questo avvenne in special modo alla metà degli
anni Sessanta, quando il nazionalismo nero sembrò esasperare i contenuti razziali
a discapito di quelli politici:in un dibattito del 1965 intitolato Jazz and Revolutionary
Black Nationalism Baraka, entrato in una fase accesamente ultranazionalista,
disse al pianista
Steve
Kuhn che lui stava suonando la musica dell'uomo bianco. "Se qualcuno
ascolta la tua musica e non può dire che sei bianco, è perché A) non capiscono abbastanza
di jazz per capire che sei bianco, oppure B) stai imitando i neri". Baraka proseguì
poi la sua requisitoria rivolgendosi contro lo stesso Kofsky, con una arringa a
tratti paradossale, come ricorda Lain Anderson: "Quando Frank Kofsky suggerì
che poteva discernere una coscienza rivoluzionaria nel lavoro di
Archie Shepp
e Albert Ayler, Baraka replicò che la differenza tra una simpatizzante bianco e
un musicista nero era ‘quella tra un uomo che guarda qualcuno avere un orgasmo e
uno che sta avendo un orgasmo'"[7]. Un tutti contro tutti che ha sicuramente
complicato la già non semplice ricezione del free. E veniamo all'oggi. L'approccio
di David Such ribalta completamente i termini della questione, a partire dal nome
dove invece di free jazz egli preferisce utilizzare il più neutro out jazz:
"in retrospettiva, la politicizzazione dell'out jazz venne prodotta da un relativamente
ristretto numero di musicisti espliciti, le cui posizioni vennero efficacemente
amplificate da un numero egualmente ristretto di scrittori. Questo probabilmente
fece più male che bene alla musica, poiché da allora anche gli out performers vennero
stigmatizzati come attivisti politici. Inoltre la politicizzazione dell'out jazz
alienò i potenziali ascoltatori che non condividevano quelle opinioni. Come risultato
finale questo processo inibì le opportunità per l'out jazz di raggiungere una audience
più vasta durante gli stadi iniziali del suo [8]
sviluppo" [9].
Gli scrittori cui fa riferimento Such sono principalmente tre:
Leroi Jones, Frank Kofsky e Ben Sidran,
oggetto di brevi considerazioni che l'autore riassume così: "osservando certe
caratteristiche dell'out jazz come soluzioni a problemi musicali piuttosto che una
reazione a elementi sociali, si possono evitare molti dei problemi sopra descritti.
Questo approccio non preclude il fatto che il sociale e il culturale abbiano un
peso sull'out jazz. Tuttavia ci suggerisce che il sociale e il musicale sono processi
che operano come epifenomeni; vale a dire che entrambi possono viaggiare paralleli
ma non possono sempre essere connessi in modo causale". Purtroppo le considerazioni
di Such -che si auto-ammantano di una certa veste di saggezza e moderazione- difettano
di quel nesso causale che lui nega agli altri. Proviamo a formulare alcune veloci
domande: erano pochi i musicisti politicizzati o non era piuttosto ristretto l'intero
gruppo di coloro che praticavano il free? Bisognerebbe supportare con dei dati questa
affermazione apodittica, come lo è quella che essi furono sostenuti da un ristretto
gruppo di scrittori. A quei tre potremmo aggiungerne alcuni altri, ma se è vero
che i critici che si sono occupati di free jazz sono stati relativamente pochi questo
non può avere a che vedere anche con lo scarso appeal commerciale del free verso
i media (riviste specializzate, giornali, case discografiche)? In Europa dove la
ricezione del free è stata più ampia che in America molti giornalisti e scrittori
si sono occupati di free e proporzionalmente in un numero maggiore a quello americano.
La politicizzazione del free potrebbe aver allontanato una parte del pubblico, ma
Such vende questa sua considerazione personale come una verità, non come una supposizione
e senza poter ovviamente fornire dati a sostegno della propria tesi. Provata da
ampia documentazione è invece la maggior diffusione del free in Europa, spesso collegata
a una lettura politica di questa musica. Such non può saperlo ma spesso i critici
italiani contrari al free contestavano la politicizzazione dei musicisti perché
la giudicavano una ruffianeria verso il pubblico, se non addirittura un modo per
procurarsi un uditorio ampio che il jazz non aveva. Gli anni hanno ridimensionato
queste polemiche: Shepp ha smesso di essere un jazzista dalle dichiarazioni incendiarie,
il pubblico politicizzato è rifluito con i movimenti politici che lo avevano creato
e nutrito, il free come movimento è stato storicizzato, permettendo ai critici posizioni
più rilassate verso
Ornette
Coleman, Cecil Taylor, Sam Rivers…Coltrane ha potuto conquistare una meritata
intoccabilità da parte della critica (spesso la sua canonizzazione è stata promossa
dagli stessi personaggi che anni prima lo avevano bollato come anti jazz e che oggi
possono permettersi di omaggiarlo, senza mai aver fatto ammenda formale, o peggio,
gettando su altri la propria miopia, come ha giustamente rilevato Kofsky). Such
conclude così: "Kofsky e Sidran tralasciano di considerare come entra in tutto
questo il processo decisionale individuale. Le preferenze e l'interpretazione della
musica non potrebbero essere il risultato di un atto di libera volontà o di immaginazione?
Alcuni ascoltatori, specialmente in occidente, sono proni nell'attribuire a determinati
schemi musicali delle emozioni. Altri ascoltatori possono esprimere una preferenza
estetica alla musica sulla base di metafore visuali o verbali o anche per le sue
implicazioni morali. In altre parole la motivazione per interpretare la out music
secondo canoni politici è in pratica solamente una delle molti possibili risposte"
[10].
Nessun dubbio che la tesi di Such sia adatta a interpretare la
musica creativa improvvisata che si produce oggi (William
Parker, Daniel Carter, Michael Keith, i principali protagonisti da lui citati),
svincolata dal contesto sociale e marchi una netta distanza dal free nero degli
anni sessanta che il canone politico lo incorporava dalla nascita e senza possibilità
di dubbio.
[1] Nel mio Jazz! Appunti e note del secolo breve, Milano:
Costa&Nolan, 2008, ho dedicato un intero capitolo Revisionismo jazz. L'oblio degli
storiografi politici al tema dell'ostracismo che è stato portato avanti dalla critica
jazz di sinistra.
[2] Frank Kofsky, John Coltrane and the Jazz Revolution of the 1960s, New York:
Pathfinder, 1998, p. 140. Questo libro rappresenta la seconda edizione ampliata
di Black Nationalism and The Revolution in Music, seminale testo di critica uscito
nel 1970.
[3] Kofsky, op. cit. p. 145
[4] Kofsky, op. cit. pp. 158-172.
[5] Frank A. Salamone, The Culture of Jazz, Lanham, Maryland, University Press of
America, 2009, p.43. Per Salamone il libro di Kofsky rimane la miglior indagine
sul rapporto tra free e black power.
[6] Kofsky, op. cit. p. 433.
[7] Lain Anderson, This is our Music. Free Jazz, the Sixties, and American Culture,
Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2007, p. 108.
[8] David Ake, Jaz cultures, Berkeley, University of California Press, 2002, p.140.
[9] David G. Such, Avant-garde jazz musicians performing ‘out there', Iowa, University
Of Iowa Press, 1993, p28.
[10] Such, op. cit, p. 28.
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
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Data ultima modifica: 27/04/2014
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