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Nero, free, di sinistra
Appunti sul jazz "politico" degli anni Sessanta
di Franco Bergoglio

 



Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.

1. introduzione 2. Le Lotte, il Rock e…il Jazz Politico 3. Il Free: motivazioni politiche, motivazioni estetiche 4. Le critiche al free
5. Una variante: le critiche incrociate dei critici free 6. L'arte nera 7. Il ruolo del Jazz nell'immaginario politico 8. Jazz e politica in Italia

Jazz e politica in Italia

La sua oratoria focosa gli venne meno. Essendo corpulento, dipendente dalla nicotina, collezionista indefesso di dischi originali e di memorabilia jazz, Cesare Lombardi, di professione ingegnere specializzato in telefonia, aveva una predilezione ardente per le immagini di ascetismo, per gli ideali di santa privazione. Sognava i Padri del Deserto, gli Stiliti, che affrontavano il vento nudi sulle loro colonne di abnegazione [1].
George Steiner

Tutte le storie del jazz riportano ormai il loro bravo capitolo dedicato allo sviluppo europeo, ed in questo contesto, nelle storie del jazz italiano, viene generalmente inserito un quadro di quanto accadeva di unico sul suolo nazionale. L'argomento centrale di questo lavoro è una analisi del rapporto tra jazz e politica, argomento che costituisce una delle specificità –forse la più significativa- del jazz italiano negli anni in parola. Analizzando l'America abbiamo visto il jazz tentare di costituirsi in avanguardia assieme culturale e politica. Questa specificità del jazz degli anni Sessanta era dovuta ai problemi razziali in seno alla comunità nera, ma anche i musicisti d'avanguardia bianchi potevano scoprire un legame profondo tra la loro musica e la politica, a partire dalle esperienze personali e da una visione critica delle contraddizioni profonde all'interno della società. Dal momento in cui il jazz ha cessato di essere una musica del folclore nero ed il suo linguaggio si è fatto universale, esso ha messo a disposizione della cultura occidentale un bagaglio artistico che poteva veicolare i messaggi politici di altre minoranze oltre a quella afroamericana. Per questo, a fianco di un terzomondismo di marca tipicamente nera, si è potuto accostare un messaggio rivoluzionario come quello del bianco Charlie Haden, che inneggia alla liberazione del Cile o dei paesi dell'Africa, senza imitare il discorso politico dei neri, ma facendo sue le istanze rivoluzionarie della sinistra occidentale. In Europa il pubblico, privo di atteggiamenti razzisti e ideologicamente vicino al libertarismo del free, accolse i musicisti d'avanguardia in modo favorevole, accorrendo ai concerti, facilitando così la nascita di etichette musicali indipendenti le quali registravano una musica che in America non aveva spazio perché giudicata poco commerciale. Va aggiunto che il free si sviluppò, ed ebbe la possibilità di farsi conoscere, in Europa in un periodo in cui il clima politico favorevole incoraggiava manifestazioni artistiche audaci e provocatorie se venivano ammantate di una giusta motivazione filosofica di rivolta contro il sistema. A questa predisposizione alla ricettività di un messaggio musicale nuovo e difficile, che assieme era anche un messaggio politico, i giovani rispondevano con entusiasmo, e incoraggiavano i musicisti di colore a rendere sempre più centrale la materia politica nel discorso, Arrigo Polillo (e con lui una folta schiera di appassionati della sua generazione) ritiene che ciò a volte sia successo per deliberato calcolo e in modo artificioso, pur di venire incontro alle esigenze del pubblico [2].



Questa lotta anti-establishment non è avvenuta ad opera del solo jazz, fenomeno comunque di proporzioni ristrette, ma ha avuto il suo primo interprete nella musica rock. Il rock nei primissimi anni Sessanta è diventato il linguaggio unificante di gran parte della popolazione giovanile a livello mondiale. La musica rock, figlia del miracolo economico, poteva per la prima volta rivolgersi ad adolescenti in grado di spendere dei soldi, giovani che quindi diventavano una fascia di mercato notevole, cui rivolgersi per la vendita di dischi ed altri prodotti legati al consumo di musica. Questo spiega un aspetto della diffusione della musica rock, come fenomeno culturale tipico della società di massa. Ma il rock veicolava anche un messaggio sociale e di costume: proponeva infatti una rivolta contro i valori della morale borghese, della struttura familiare, del conservatorismo dei genitori.[3] Il rock si rivela dunque campione della controcultura di massa, in grado di proporre capillarmente i nuovi archetipi generazionali: Beatles e Rolling Stones incarnano mediaticamente questi miti adolescenziali. Il jazz si ritaglia uno spazio all'interno di questo immaginario e l'Europa diventa la seconda patria di questa musica: non subisce più passivamente il ruolo di colonia musicale degli Usa, ma si mostra in grado di elaborare un suo proprio approccio e un contributo originale attraverso una leva di musicisti che si sono liberati del complesso di inferiorità verso i padri americani. Gli europei portano in dote al jazz tutta una serie di concezioni e significati maturati nell'ambito dell'avanguardia post-weberniana [4].

Il referente costituito dal jazz americano diventa un interlocutore con cui confrontarsi partendo da una base paritaria. In relazione a quanto affermato, paiono molto significative le dichiarazioni fatte da Michel Portal: "Al momento dell'apparizione del free, io ho capito che il jazz, e in particolare la sua forma più libera, non era un fenomeno specificamente americano, ma che questa reazione nei confronti dell'ordine poteva essere perfettamente vissuta da dei musicisti europei, in periodo di crisi, come risoluzione di tensioni sociali. Il maggio 1968 è arrivato e il free è stato una festa in reazione al passato commerciale della musica" [5]. La posizione personale di Portal è quasi un esempio paradigmatico del modo in cui verrà vissuto il free divenuto musica creativa, secondo la terminologia usata in Francia, in Germania e in Italia. L'adesione ai principi del free americano non si è limitata semplicemente all'acquisizione di un idioma musicale, di un codice stilistico. L'insegnamento che ne hanno tratto i musicisti più preparati dal punto di vista culturale, era esattamente il contrario: non più imitazione delle forme, ma ispirazione dai contenuti filosofici del nuovo jazz. Ha scritto Gino Castaldo che: "La black music chiedeva, con esplicita chiarezza, di impegnarsi nella propria realtà, di inventare un linguaggio provocatoriamente rivolto alle contraddizioni della società, di distruggere i tradizionali schemi dello spettacolo musicale, di saper trarre ispirazione e linfa creativa dal proprio impegno quotidiano. Chiedeva, in altre parole, di fare cultura rivoluzionaria"[6]. Naturalmente questo tipo di cultura non nasce dal nulla e richiede un periodo di gestazione, di messa a punto degli strumenti culturali necessari. La guerra fredda in campo internazionale aveva avuto come esito negativo anche un "congelamento" della cultura. Se gli anni Cinquanta avevano rappresentato il conformismo ideologico, la logica rigorosa dei blocchi, la ripresa economica e poi il vero "boom", gli anni Sessanta incominciavano con tutta una serie di nuovi fermenti culturali; germi dell'avanguardia cominciavano a muoversi dalle periferie del paese, coagulandosi in primi nuclei di una certa rilevanza a Roma, Milano, Torino. I giovani, che erano per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale liberi da preoccupazioni economiche, forti di una miglior preparazione culturale, potevano riflettere sui valori che la società borghese proponeva loro. Questi anni sono stati una lunga preparazione al 1968. I nuovi modelli culturali immessi dal rock e dal pop mostravano la vivacità della cultura americana che diveniva sempre più un mito o un termine di confronto imprescindibile per le nuove generazioni. Gli anni Sessanta si aprono con una politica istituzionale meno rigida ed inquadrata: dal 1963 torna al governo una forza di sinistra, dopo l'estromissione voluta da De Gasperi nel 1948. Con il partito socialista inserito nella compagine governativa, si apre così la contraddittoria stagione del centrosinistra, che si sarebbe dovuta caratterizzare come un periodo di riforme sociali e istituzionali. Dopo alcuni primi tentativi come la riforma della scuola e la nazionalizzazione dell'energia elettrica, il centro sinistra, dilaniato da divisioni tra partiti e l'immobilismo della politica italiana, si mostrò incapace di perseguire la trasformazione, in senso autenticamente moderno, dello stato italiano. Tutti i nodi politici ed economici rimasero irrisolti mentre proprio nella metà degli anni Sessanta l'Italia dovette subire un rallentamento nella crescita, la cosiddetta "congiuntura".

Paul Ginsborg riassume la contraddittorietà di questo periodo: "Tra il 1962 e il 1968 i governi di centro-sinistra erano falliti nel rispondere alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Essi avevano fatto insieme troppo e troppo poco, nel senso che avevano parlato quasi ininterrottamente di riforme ma lasciando poi deluse quasi tutte le aspettative. Dal 1968 in avanti l'inerzia dei vertici fu sostituita dall'attività della base. Quello che seguì fu uno straordinario periodo di fermento sociale, la più grande stagione di azione collettiva nella storia della Repubblica. Durante questi anni l'organizzazione della società fu messa in discussione a quasi tutti i livelli. L'Italia non eguagliò certo, per intensità e potenziale rivoluzionario, i fatti del maggio '68 in Francia, ma il movimento di protesta fu il più profondo e il più duraturo in Europa" [7]. Basterebbero le parole di Ginsborg a spiegare l'unicità delle vicende italiane. La longue durée del ciclo rivoluzionario ha comportato una ampia elaborazione di precise esigenze culturali, nuovi modi di rapportarsi in modo antagonista e "polemico" nei confronti dell'ordine sociale borghese. Nella sacca del giovane rivoluzionario non potevano mancare, tra gli altri, le bibbie riconosciute del movimento, quelle che si potrebbero definire le "tre M": Marx, Marcuse, Mao. In questo ordine: l'ortodossia del comunismo, la filosofia critica della società tecnologica avanzata e, infine, la prassi rivoluzionaria.

Il jazz rappresenta uno dei linguaggi che si prestano a questo ruolo di rottura nei confronti delle convenzioni. Una di quelle arti che –secondo L'Adorno dei Minima Moralia- dovrebbero introdurre caos nell'ordine. Come risposta creativa alle nuove esigenze culturali e come mimesi dei fermenti sociali, il jazz riapre il discorso sui ruoli tradizionali del "fare musica". Per capire la profonda frattura operata nel corso dei primi anni Sessanta da un ristretto numero di artisti d'avanguardia bisogna brevemente inquadrare il mondo del jazz italiano del decennio precedente. Gli anni Cinquanta si caratterizzano per la continuità con il passato: gli appassionati di jazz si configurano come una "carboneria", custodi di una musica per adepti che vive nella pedestre imitazione calligrafica del modello americano. Il jazz viene vissuto da musicisti, critici e appassionati come un impegno da tempo libero. La rivista Musica jazz, che costituisce il centro di raccordo per queste tre categorie di addetti ai lavori, lo prova, emblematicamente. Tutti i collaboratori, direttore compreso, svolgevano attività lavorative diverse e concepivano il jazz come una cosa "altra", una "passione" a sé, slegata dal resto della loro vita. Una critica di questo tipo non può che auto orientarsi ad analizzare il fenomeno jazzistico dal punto di vista storico-biografico, imitando anch'essa, come facevano i musicisti, i suoi corrispettivi americani, ignorando tutti i problemi politici-sociali connessi all'esperienza afroamericana. Questo spiega perché la critica si sia sempre fermata ad una valutazione puramente estetica della musica, non riuscendo ad andare oltre l'assioma dell' art pour l'art. Il critico Gino Castaldo ha stigmatizzato questo atteggiamento come forma mentis dopolavoristica. La maggior parte dei musicisti che si dedicano al jazz si producono in grandi orchestre o sono musicisti di sala d'incisione che prestano la loro abilità tecnico-strumentale per lavori ordinari, dozzinali. Suonano jazz per piacere personale, in piccoli locali di fronte ad un pubblico esclusivo. Professionisti della musica leggera o di quella seria, ma dilettanti del jazz. E' il jazz da "taverna piemontese e barbera", come lo ha definito il pianista e compositore Gaetano Liguori. La musica non è che un mero esercizio di abilità artigianale e mai diventa il campo di una elaborazione teorica originale. L'ambito culturale in cui si muove il musicista italiano è quello "dell'ideologia e della visione del mondo piccolo e medio borghese, priva di agganci culturali, di riferimenti se non quelli del qualunquismo e del rifiuto della politica"[8]. Fa eco a queste parole la considerazione di Castaldo: "Se in America il jazz era una musica in movimento, caratterizzata dall'instabilità sociale, dalla dialettica e dallo scontro razziale, se era la musica socialmente più sporca che ci fosse, in Italia diventava una innocua e non problematica passione per tranquilli e benpensanti signori" [9].

Avvisaglie di cambiamento arrivano da Bologna, città roccaforte del partito comunista, che verso la metà degli anni Sessanta propone concerti di Charles Mingus e di Chet Baker. Personalità "sopportate, minoritarie, sperimentali" le definisce lo scrittore e regista Italo Moscati. Forme d'arte sicuramente alternative, per la provincia italiana del periodo[10]. Ma è con la nascita di un free jazz italiano che si verifica il cambiamento. Si tratta di una lacerazione profonda che segna la mancanza totale di qualsiasi tipo di continuità tra il vecchio e il nuovo. In Europa ed in Italia il free si manifesta come un fenomeno forse ancora più dirompente che non negli stessi Stati Uniti. In parte perché arriva contemporaneamente al 1968 e il fascino di pensare una immaginazione al potere col sassofono, di farsi interpreti di un'estetica della rivoluzione diventa una tentazione irresistibile per i giovani della nuova controcultura. Prima di arrivare agli avvenimenti politici di fine decennio, c'è stato un intenso lavorio sotterraneo, da parte di giovani intellettuali ribelli che tentano di produrre nuovi modelli artistici alternativi a quelli proposti dalla società borghese. Roma diventa il centro di questo movimento che coinvolge cinema, poesia, letteratura e teatro [11].

Dalla provincia arrivano giovani artisti (come il sassofonista Mario Schiano) con la voglia di creare e di organizzare spazi alternativi per la fruizione della cultura. Vengono aperti i primi locali, i primi spazi in cui si suona free e si discutono i significati della nuova musica. [12] Ricorda Schiano: "Arrivano i libri di Ginsberg. Si suona e, finalmente, si parla pure. Nasce il Gruppo Romano Free Jazz, con Pecori e Marcello Melis. Bel momento a Roma. L'underground. Il Beat 72: Steve Lacy, Paul Bley, Gato Barbieri con Don Cherry" [13]. Al Beat 72 si mette in scena il Don Chisciotte di Leo De Berardinis e Carmelo Bene. Il jazz è una notevole fonte di ispirazione per il teatro e per Leo de Berardinis in particolare[14]. Scrive Gianni Manzella a proposito di questo spettacolo: "Era infatti soprattutto Bene a entrare dentro il racconto, facendosi coinvolgere nella scena che egli stesso contribuiva a disegnare, (…) Di contro si ergeva la lettura "fredda" di Leo, una vera e propria contrapposizione jazzistica della sua voce-suono a quella dell'altro." [15] Che non si tratti di una citazione sporadica Leo De Berardinis lo mostrerà utilizzando il free jazz in gran parte del suo teatro sperimentale degli anni Settanta, con i musicisti coinvolti direttamente nell'azione scenica sul palco e con le musiche a giocare un ruolo ben più alto rispetto a quello di integrazione di immagine e suono. Lo stimolo alla nascita dei primi gruppi di free, viene dalla presenza a Roma di diversi musicisti creativi americani ed europei di valore. Successivamente la sfera prettamente musicale, in una situazione sociale e culturale cangiante, lascerà il campo a motivazioni che assumono sempre più un carattere extra-artistico. Ricorda Schiano:. "il clima di tensione si respirava già qualche anno prima, nel '66-67. Al Beat 72 suonavamo con la polizia fuori dal locale, probabilmente perché eravamo considerati dei sovversivi! Per cui, quando il clima si fa più pesante, con l'occupazione delle università e delle fabbriche, ci sentiamo già preparati" [16]. Il movimento giovanile, in polemica con il pensiero borghese, comincia ad imporre una diversa visione del mondo, che ben presto si riempie di contenuti politici. L'anno chiave del cambiamento per quanto riguarda il jazz è il 1966. Nasce il Gruppo Romano Free Jazz con Schiano, Pecori e Melis; mentre il pianista- compositore Giorgio Gaslini incide un disco destinato a fare epoca nella storia del free, non solo italiano: la suite Nuovi Sentimenti, con la partecipazione della miglior avanguardia europea e americana, la stessa che soggiornava in quel periodo a Roma: Lacy, Barbieri, Cherry. Giorgio Gaslini, autore della suite, si era già messo in luce nel 1957 con Tempo e relazione, una partitura in cui il musicista milanese tentava di coniugare il linguaggio jazz e la tecnica seriale dodecafonica. Il nostro, in possesso di un solido bagaglio di studi classici e di una precoce passione per il jazz si è ritagliato uno spazio importante nel jazz italiano, contribuendo con il suo lavoro a quella rottura delle convenzioni tradizionali che i musicisti free contemporaneamente tentavano in altre direzioni. Già dalla suite Oltre, Gaslini aveva incominciato a cercare un dialogo con il pubblico. Nel 1966, dopo Nuovi Sentimenti, questa pratica divenne abituale e con un preciso significato sociale e politico. Gaslini lo ha definito: "un allargamento della democrazia al mondo del concerto" [17].

Questo approccio alla musica venne poi adottato in quasi tutti i contesti della musica d'avanguardia italiana, dove i musicisti si sottoponevano spesso al confronto con il pubblico. Gaslini da intellettuale globale non si limitava a scrivere e suonare musica ma era anche teorico delle concezioni ideali che stavano alla base della sua opera. Egli teorizza la figura del musicista totale, cioè in grado di concorrere alla creazione dell'uomo totale. Totale significa "operare per un tutto futuro, al vertice di un'evoluzione del mondo, (ove sia) superato ogni dogmatismo stilistico limitato a culture specifiche e ci dichiariamo per l'assunzione di tutte le culture musicali in unico atto libero di creazione espressiva. Ci proponiamo un'arte popolare che raccolga le membra sparse di tutto l'uomo, che preannunci una civiltà dell'uomo, unica, totale e al vertice di una evoluzione spirituale, di un processo storico. In questa prospettiva il musicista è tenuto ad interessarsi di altri e non c'è più posto per presunzioni di valore stilistico". [18] Queste riflessioni, in forma di manifesto, esprimono il Gaslini-pensiero del 1965-1966, anche se vennero raccolte e pubblicate in volume solo nella metà degli anni Settanta. Si possono fare diverse osservazioni su queste righe, che hanno valore di riflessione generale sul periodo e non solo sull'autore. Il concetto di musica totale, che non è una invenzione di Gaslini, anche se per merito suo questo slogan programmatico ha avuto negli anni successivi ampia fortuna, [19] implica un'idea di apertura culturale e disponibilità verso il diverso che è di per sé politica: l'artista non è più creatore del bello ma ricettacolo di tutte le esperienze della società. L'antidogmatismo, la volontà di creare un uomo nuovo, saranno tratti caratteristici del '68. Gaslini pare cogliere, con qualche anno di anticipo, temi che costituiranno la base filosofica del movimento studentesco, ma evidentemente questo, che era il clima culturale della metà degli anni Sessanta, non poteva sfuggire a un artista colto come Gaslini. A proposito della sua estrazione colta, bisogna notare che in lui è già presente un certo rifiuto del ruolo dell'intellettuale classico, nonostante i propri lavori abbondino di riferimenti alla tradizione "alta" occidentale. Infatti, non manca un richiamo alla cultura popolare, anche se questo rimane un innesto operato da un uomo che è in primis un compositore, abituato dunque a considerare la musica come una costruzione mentale. Inutile dire che la valorizzazione della musica popolare caratterizzerà tutto il jazz degli anni Settanta, non solo come rifiuto della "coscienza colta" legata alla borghesia, ma anche come referente di classe. Discorso che vale per il free come per la "canzone politica", riesumata proprio nel 1968.

Di questo uso di forme di espressione popolari è paladino il già evocato Mario Schiano. La sua presenza nel mondo dell'underground romano è una stridente contraddizione agli occhi del pubblico tradizionale del jazz: "un giovanotto con un sax perfino scassato, incapace di rovesciare un giusto quantitativo di note all'ora, come se fossimo alla Fiat, non andava bene, e più che ai musicisti, ad un certo establishment organizzativo romano, abituato a coccolare pochi pupilli e ad adorare qualunque cosa purché proveniente dall'America"[20]. Da sottolineare l'accostamento "operista" jazz-fiat introdotto da Rodriguez per descrivere i nuovi meccanismi che legano la musica alla sua produzione materiale. La rottura dei codici espressivi deve liberare creatività e fantasia in vista di una riappropriazione della libertà negata dalla realtà ma conseguibile nella sfera artistica. Nel contempo si deve di evitare che accada il contrario: che le catene di una società "bloccata" influiscano sul processo dell'attività creativa. Secondo Rodriguez si tratta di "rompere la catena di montaggio degli accordi arpeggiati e rivoltati, della produzione di note in serie". Intuizione che questo critico mutua dall'Adorno della Introduzione alla sociologia della musica, dove la catena di montaggio assume il valore di simbolo dei comportamenti che si estendono dalla produzione industriale a tutta la società, anche a quei settori "creativi" dove non si dovrebbe assolutamente procedere secondo questi schemi. Il lavoro, anche quello intellettuale e artistico, assume virtualmente "la forma della ripetizione di procedimenti sempre identici" [21].

Schiano e Gaslini sono, in modi differenti e quasi antitetici, i primi esempi di un jazz libero da preoccupazioni commerciali e volto sia al recupero della musica popolare, sia al discorso sociale e politico; nell'intenzione di avvicinare un pubblico diverso da quello della ristretta cerchia degli appassionati. Gli inizi, sotto questo profilo, non sono confortanti per Schiano che spesso deve suonare per pochissime persone, mentre Gaslini, artista affermato, incontra un crescente seguito di pubblico. Il free jazz italiano degli inizi è un fenomeno prettamente elitario, ancor più del jazz tradizionale. Il rifiuto di moduli comunicativi comprensibili alle masse è tipico di un atteggiamento di rifiuto verso tutto ciò che può essere considerato "commerciabile" dal mondo dell'industria e dello spettacolo. "Se di pretesa vogliamo parlare, non è certo quella di esclusività politico-rivoluzionaria, ma caso mai, quella di radicalismo e, per l'appunto, di avanguardia, in tutti i sensi consentiti dalla dialettica espressione-società". Il free italiano degli anni Sessanta nelle teorizzazioni di Gaslini e di Pecori, e nelle esemplificazioni "traumatiche" per il pubblico convenzionale di Schiano, andò verso una ridefinizione del sistema dei segni che permettesse una comunicazione diversa come diverso si supponeva il pubblico destinatario ultimo del messaggio. Ce n'est qu'un début potremmo dire per rimanere nel clima, citando gli studenti della Sorbona.

Questo discorso non era che la base teorica di tutto quanto avrebbe prodotto il free nel decennio successivo. L'esplosione di pubblico è successiva e data dalla fine degli anni Sessanta, quando tutta la società presa in un vortice di cambiamento e di grande vivacità culturale crea le condizioni per l'avvicinamento di un pubblico giovanile più consistente, in cerca di una musica "alternativa" e non commerciale. A questo punto, e sotto la spinta del cambiamento, si realizza la saldatura della politica con le masse giovanili. Queste portano in dote alla cultura e all'arte una nuova visione del mondo, in cui la politica, intesa in senso esteso, gioca un ruolo predominante e pervasivo. La stessa rivista Musica Jazz in quel periodo rompe gli indugi e avvia una discussione sul significato del free, proponendo saggi di giovani critici come i già citati Alberto Rodriguez e Franco Pecori (musicista vicino a Schiano). Come già ricordato, lo stesso anno Shepp si esibì a Lecco, mettendo a rumore l'ambiente del jazz tradizionale. Il 1968 della musica creativa italiana vide invece due importanti avvenimenti: una serie di concerti di Schiano e del suo gruppo in uno spettacolo dal titolo emblematico, Il free jazz di fronte alla realtà del sistema, anticipatore di una commistione tra musica, immagini, ed azioni teatrali, seguito dall'ormai consueto dibattito con il pubblico. L'altro avvenimento vide impegnato Giorgio Gaslini in una operazione di contaminazione tra musica ed immagini, poesia e impegno politico. Il fiume furore, jazz per il movimento studentesco-Canto per i martiri negri in memoria di Martin Luther King, opera registrata nel maggio dello stesso anno, raccoglieva in presa diretta, tramite documenti sonori sulle manifestazioni studentesche a Milano e Parigi, il clima del periodo, con le voci di Salvatore Quasimodo e Clebert Ford. Con il concerto tenuto assieme a Max Roach qualche settimana prima, questo disco costituisce la prima vera affermazione di un legame organico del jazz con la politica e con il Movimento Studentesco. Il jazz italiano diventa realmente in questo momento portatore di un grido di protesta e di un attestato di fede verso il cambiamento. Nello stesso anno Mario Schiano accompagna con il suo trio il Living Theatre che propone Paradise Now. Di nuovo jazz e teatro sperimentale. Ma anche un clima politico-sociale che sta cambiando. Non sono più Schiano con il suo sassofono o gli attori sul palco a dare scandalo, è la gente comune, gli spettatori che rifiutano questo ruolo e assurgono a protagonisti della scena.

Ecco il resoconto dello spettacolo di Urbino proposto dall' Espresso e raccolto poi con altre testimonianze dallo studioso Enrico Cogno in Jazz inchiesta Italia. "Sono le nove di sera e comincia lo spettacolo. Non sulla pedana, naturalmente, perché non si può entrare a causa della ressa, ma sulle scalette che portano nella cantina-teatro.(…)si sente intonare un salmo marocchino. Sono gli attori che arrivano coperti di stracci. ma restano bloccati anche loro sui primi scalini, tra le urla, gli insulti, gli spintoni. Lo spettacolo continua là, fra le scale, la cantina e la piazza, da cui arrivano minacciose proteste. Finalmente Julian Beck riesce a farsi strada con pochi compagni e a raggiungere la pedana. Sulla sua scia si muovono anche i tre musicisti(…). E così cantina, piazza, scale, lo spettacolo va avanti per un'altra ora. I tre musicisti suonano con i gomiti degli spettatori sullo stomaco. Sembra impossibile che riescano a soffiare e a battere sui loro strumenti. Nel caos generale si sentono soltanto i sibili del sassofono di Schiano, il quale incurante del groviglio, continua a suonare. (…) E così va avanti fino all'una di notte, mentre i musicisti continuano a suonare. Lo spettacolo è finito, ma nessuno ha visto Paradise Now. Ora sono tutti nell'unica trattoria aperta, studenti, attori, musicisti. Se ne parlerà fino alle quattro del mattino…"[22]

Se il teatro subiva il fascino del jazz, un media come il cinema non poteva certamente trovarsi in disparte. Toccò proprio nel 1968 al regista Ugo Gregoretti girare un film su di un grande sciopero operaio. Apollon Fabbrica occupata evidenzia come una cartina al tornasole l'attrazione provata dagli intellettuali nei confronti dell'operaismo e vede di nuovo all'opera per la colonna sonora[23] l'urlante sax di Mario Schiano che accompagna i momenti più caldi dello sciopero.[24] Hegeliana "morte dell'arte" (e fine del padrone) riassunta in quella sintesi superiore ed onnicomprensiva che è la centralità della classe operaia. Sempre del 1969 è la prima uscita discografica dello Schiano Trio, dall'emblematico titolo Ogni giorno in piazza. Sul finire dell'anno segnato dalla contestazione studentesca, si vedono le prime esibizioni di Cecil Taylor e Ornette Coleman. Fu proprio un contestato concerto di Taylor del 1969 a Milano ad entusiasmare il giovane pianista Gaetano Liguori e a portarlo ad abbracciare l'atonalismo. Purtroppo il 1969 è anche l'anno della strage di piazza Fontana, della morte dell'anarchico Pinelli e delle nebulose vicende legate alla figura del commissario Calabresi. La fine di un periodo. Entrando negli anni Settanta l'azione collettiva inizia progressivamente a sfilacciarsi, tra settarismi politici e frange armate. Da una "politica di massa creativa", come è stata definita dallo studioso Sidney Tarrow, si passa ad una azione più radicale sotto la direzione di gruppi e partiti politici, nati a loro volta dal picco intensivo della protesta di fine anni Sessanta[25]. Il jazz di protesta diventa un fenomeno di costume, parte del patrimonio genetico del giovane di sinistra. Gli anni Settanta videro un grosso successo di pubblico per il jazz e le sue contaminazioni nei festival musicali che si svolgevano in tutta Italia: "Ce ne sarà uno alla settimana, e sempre con gli stessi nomi: gli Area, Giorgio Gaslini, gli Stormy Six, il Canzoniere Internazionale, il gruppo Folk internazionale di Moni Ovadia e il Trio Idea di Gaetano Liguori" [26].

La musica jazz, accerchiata con una manovra a tenaglia tra happening tardo woodstockiani, assimilazione forzata nelle feste di partito stile Unità, conformismi dogmatici di alcuni gruppi extraparlamentari, degenerazioni violente e autoriduzioni rock, si è rapidamente allontanata dai contenuti innovativi abbinati all'agire sociale. E anche in questo –potremmo concludere- ha seguito fedelmente nei tempi la parabola discendente dei movimenti radicali della sinistra italiana.

Non dirò il titolo del brano che ora eseguiremo, perché è "di sinistra". (fischi…risate) [27]
Guido Mazzon


[1] Cesare Lombardi è un comunista-tipo, uscito dalla penna di George Steiner, in un agile romanzo sul tramonto del "mito" del Comunismo in Italia. George Steiner, Il correttore, Milano: Garzanti, 1992, p.30.
[2] Arrigo Polillo, "Jazz", op.cit., p.295.
[3] Per una analisi approfondita del rapporto tra rock, pop controcultura e industria dello spettacolo negli anni Sessanta rimando a: Giaime Pintor, "Il pop: i tempi e i luoghi di una moda", in A.A.V.V., La musica in Italia, Roma: Savelli, 1977.
[4] Arrigo Polillo, "Il jazz", op. cit., p.296.
[5] Citato da Arrigo Polillo in: "Il Jazz", op. cit., p.296. Le parole di Michel Portal, un allievo del maestro dell'avanguardia Stockhausen, sono tratte da una intervista del 1973.
[6] Gino Castaldo, "Motivi e ragioni per un jazz italiano", in A.A.V.V., La musica in Italia, op. cit., p.117. Il saggio di Castaldo è una bella lettura degli esordi del nuovo jazz "libero" in Italia, con un occhio particolare alla matrice politico-ideologica insita nelle elaborazioni teoriche dei nuovi protagonisti dell'avanguardia del nostro paese; segnatamente Castaldo affida il ruolo principale di questa rottura della tradizione a Mario Schiano, cui è dedicata tutta l'ultima parte del lavoro.
[7] Paul Ginsborg, Storia dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, torino: Einaudi, 1989, p. 404.
[8] Enrico Cogno, Jazz inchiesta: Italia., Bologna: Cappelli Editore, 1971, p.62; la frase riportata è tratta dall'intervento di Alberto Rodriguez, critico musicale.
[9] Gino Castaldo, op. cit., p. 133.
[10] Italo Moscati, 1967. tuoni prima del maggio, Padova: Marsilio, 1997, p.14.
[11] L'avanguardia romana si ritrova in Trastevere. Particolare interesse rivestono i tentativi di teatro sperimentale con Carmelo Bene, Mario Ricci e Giancarlo Nanni. Si vede anche molto cinema al Filmstudio, mentre i bar di piazza Santa Maria in Trastevere sono il ritrovo abituale per commentare tutte queste esperienze. Sul tema: Alberto Rodriguez, "Il caso Schiano", in Musica Jazz, n.6, 1975, p.9-10.
[12] Franco Pecori spiega in questi termini la propria adesione all'avanguardia del Gruppo Romano di Free Jazz: "In quel momento, il valore degli strumentisti in sé doveva passare in secondo piano rispetto al senso che certe scelte musicali potevano assumere. Era necessario dare a queste scelte una dimensione esplicitamente dialettica, per investire il campo ideologico-politico e insomma culturale in senso forte". Franco Pecori, "Sull'ideologia della critica", in Musica Jazz, n.8, 1975, p.9. Quindi la scelta andava condivisa con il pubblico e discussa. Andava ricostruito con l'ascoltatore un nuovo tipo di rapporto che lo rendesse compartecipe delle scelte. Per rispondere a questa necessità di confronto dialettico, dopo il concerto Pecori leggeva il "programma-manifesto", uno scritto volutamente provocatorio che doveva suscitare una reazione nell'uditorio e mettere a nudo le contraddizioni dell'arte. Ricorda Pecori che le discussioni dopo i concerti duravano fino a tarda notte e non investivano solo il tema dell'arte. Ecco un estratto del manifesto: "All'orecchio abituato ad un certo tipo di ascolto, la nostra musica può dare l'impressione del disordine, quando non addirittura del gratuito e dell'arbitrario; ma quest'apparenza è dovuta proprio al rifiuto di una arbitrarietà. Noi pensiamo che arbitrario sia estrarre dal mondo alcuni eventi presunti felici per metterli tutti in fila a comporre la cosiddetta Opera d'Arte: un'opera eterna, universale, intangibile, come si diceva una volta". Franco Pecori, Manifesto del Gruppo Romano di Free Jazz, Roma 25 novembre 1966.In Analizzare il continuo, articolo di Franco Pecori, Musica jazz, n. 4 1969.
[13] Alberto Rodriguez, art. cit. p.9.
[14] Si pensi al film A Charlie Parker, del 1970 dove il jazzista americano compare solo "in spirito" evocato per la sua "solitudine di artista", condizione comune al di là delle distanze sociali e geografiche. Cfr, Gianni Manzella, La bellezza amara, Parma: Pratiche Editrice, 1993, p.41-42.
[15] Gianni Manzella, op.cit, p.37.
[16]Pierpaolo Faggiano, Un cielo di stelle. Parole e musica di Mario Schiano, Roma: Manifestolibri, 2003, p. 39.
[17] Adriano Bassi, Giorgio Gaslini, prefazione di Enzo Restagno, Padova: Franco Muzzio, 1986, p.82.
[18] Giorgio Gaslini, Musica totale, Milano: Feltrinelli, 1975, p. 99.
[19] Per una critica a Musica Totale si veda la recensione di Giuseppe Piacentino in Musica Jazz n.6, 1975, p.45. Per Piacentino Gaslini ragiona in termini assiomatici e rigidamente schematici, partendo da premesse ideologiche che il recensore non si sente di condividere.
[20] Alberto Rodriguez, "Il caso Schiano", in Musica Jazz, n.6, 1975, p.9.
[21] Theodor Adorno, Introduzione alla Sociologia della musica, Torino: Einaudi, 1962, p.59-60.
[22] Enrico Cogno, Jazz inchiesta Italia, op.cit., pp.190-193.
[23] La colonna sonora di Apollon Fabbrica occupata è stata pubblicato in allegato al libro di Pierpaolo Faggiano, Un cielo di Stelle, edito da Manifestolibri.
[24] Franco Bergoglio, Il regista in fabbrica. Alcune riflessioni su operaismo e prassi culturale, nella rivista: Per il Sessantotto, Pistoia, Centro di Documentazione di Pistoia, n.17/18, 1999; p. 63.
[25] Sidney Tarrow, Demorazia e disordine. Movimenti di protesta e politici in Italia.1965-1970, Bari, Laterza, 1990, p.116.
[26] Gaetano Liguori, Un pianoforte contro. Conversazione con Claudio Sessa, Milano, Selene, 2003, p. 59.
[27] Guido Mazzon, La tromba a cilindri, Como, Ibis, 2008, p.89.


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10/01/2004

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08/09/2002

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Data ultima modifica: 09/05/2014

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