<< capitolo precedente |
Nero, free, di sinistra
Appunti sul jazz "politico" degli anni Sessanta di Franco Bergoglio
|
|
Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.
Jazz e politica in Italia
La sua oratoria focosa gli venne meno. Essendo corpulento, dipendente
dalla nicotina, collezionista indefesso di dischi originali e di memorabilia jazz,
Cesare Lombardi, di professione ingegnere specializzato in telefonia, aveva una
predilezione ardente per le immagini di ascetismo, per gli ideali di santa privazione.
Sognava i Padri del Deserto, gli Stiliti, che affrontavano il vento nudi sulle loro
colonne di abnegazione [1].
George Steiner
Tutte le storie del jazz riportano ormai il loro bravo capitolo
dedicato allo sviluppo europeo, ed in questo contesto, nelle storie del jazz italiano,
viene generalmente inserito un quadro di quanto accadeva di unico sul suolo nazionale.
L'argomento centrale di questo lavoro è una analisi del rapporto tra jazz e politica,
argomento che costituisce una delle specificità –forse la più significativa- del
jazz italiano negli anni in parola. Analizzando l'America abbiamo visto il jazz
tentare di costituirsi in avanguardia assieme culturale e politica. Questa specificità
del jazz degli anni Sessanta era dovuta ai problemi razziali in seno alla comunità
nera, ma anche i musicisti d'avanguardia bianchi potevano scoprire un legame profondo
tra la loro musica e la politica, a partire dalle esperienze personali e da una
visione critica delle contraddizioni profonde all'interno della società. Dal momento
in cui il jazz ha cessato di essere una musica del folclore nero ed il suo linguaggio
si è fatto universale, esso ha messo a disposizione della cultura occidentale un
bagaglio artistico che poteva veicolare i messaggi politici di altre minoranze oltre
a quella afroamericana. Per questo, a fianco di un terzomondismo di marca tipicamente
nera, si è potuto accostare un messaggio rivoluzionario come quello del bianco
Charlie
Haden, che inneggia alla liberazione del Cile o dei paesi dell'Africa, senza
imitare il discorso politico dei neri, ma facendo sue le istanze rivoluzionarie
della sinistra occidentale. In Europa il pubblico, privo di atteggiamenti razzisti
e ideologicamente vicino al libertarismo del free, accolse i musicisti d'avanguardia
in modo favorevole, accorrendo ai concerti, facilitando così la nascita di etichette
musicali indipendenti le quali registravano una musica che in America non aveva
spazio perché giudicata poco commerciale. Va aggiunto che il free si sviluppò, ed
ebbe la possibilità di farsi conoscere, in Europa in un periodo in cui il clima
politico favorevole incoraggiava manifestazioni artistiche audaci e provocatorie
se venivano ammantate di una giusta motivazione filosofica di rivolta contro il
sistema. A questa predisposizione alla ricettività di un messaggio musicale nuovo
e difficile, che assieme era anche un messaggio politico, i giovani rispondevano
con entusiasmo, e incoraggiavano i musicisti di colore a rendere sempre più centrale
la materia politica nel discorso, Arrigo Polillo (e con lui una folta schiera di
appassionati della sua generazione) ritiene che ciò a volte sia successo per deliberato
calcolo e in modo artificioso, pur di venire incontro alle esigenze del pubblico
[2].
Questa lotta anti-establishment non
è avvenuta ad opera del solo jazz, fenomeno comunque di proporzioni ristrette, ma
ha avuto il suo primo interprete nella musica rock. Il rock nei primissimi anni
Sessanta è diventato il linguaggio unificante di gran parte della popolazione giovanile
a livello mondiale. La musica rock, figlia del miracolo economico, poteva per la
prima volta rivolgersi ad adolescenti in grado di spendere dei soldi, giovani che
quindi diventavano una fascia di mercato notevole, cui rivolgersi per la vendita
di dischi ed altri prodotti legati al consumo di musica. Questo spiega un aspetto
della diffusione della musica rock, come fenomeno culturale tipico della società
di massa. Ma il rock veicolava anche un messaggio sociale e di costume: proponeva
infatti una rivolta contro i valori della morale borghese, della struttura familiare,
del conservatorismo dei genitori.[3] Il rock si rivela dunque campione della controcultura
di massa, in grado di proporre capillarmente i nuovi archetipi generazionali: Beatles
e Rolling Stones incarnano mediaticamente questi miti adolescenziali. Il jazz si
ritaglia uno spazio all'interno di questo immaginario e l'Europa diventa la seconda
patria di questa musica: non subisce più passivamente il ruolo di colonia musicale
degli Usa, ma si mostra in grado di elaborare un suo proprio approccio e un contributo
originale attraverso una leva di musicisti che si sono liberati del complesso di
inferiorità verso i padri americani. Gli europei portano in dote al jazz tutta una
serie di concezioni e significati maturati nell'ambito dell'avanguardia post-weberniana
[4].
Il referente costituito dal jazz americano diventa un interlocutore
con cui confrontarsi partendo da una base paritaria. In relazione a quanto affermato,
paiono molto significative le dichiarazioni fatte da Michel Portal: "Al momento
dell'apparizione del free, io ho capito che il jazz, e in particolare la sua forma
più libera, non era un fenomeno specificamente americano, ma che questa reazione
nei confronti dell'ordine poteva essere perfettamente vissuta da dei musicisti europei,
in periodo di crisi, come risoluzione di tensioni sociali. Il maggio 1968 è arrivato
e il free è stato una festa in reazione al passato commerciale della musica"
[5]. La posizione personale di Portal è quasi un esempio paradigmatico del modo
in cui verrà vissuto il free divenuto musica creativa, secondo la terminologia usata
in Francia, in Germania e in Italia. L'adesione ai principi del free americano non
si è limitata semplicemente all'acquisizione di un idioma musicale, di un codice
stilistico. L'insegnamento che ne hanno tratto i musicisti più preparati dal punto
di vista culturale, era esattamente il contrario: non più imitazione delle forme,
ma ispirazione dai contenuti filosofici del nuovo jazz. Ha scritto Gino Castaldo
che: "La black music chiedeva, con esplicita chiarezza, di impegnarsi nella propria
realtà, di inventare un linguaggio provocatoriamente rivolto alle contraddizioni
della società, di distruggere i tradizionali schemi dello spettacolo musicale, di
saper trarre ispirazione e linfa creativa dal proprio impegno quotidiano. Chiedeva,
in altre parole, di fare cultura rivoluzionaria"[6]. Naturalmente questo tipo
di cultura non nasce dal nulla e richiede un periodo di gestazione, di messa a punto
degli strumenti culturali necessari. La guerra fredda in campo internazionale aveva
avuto come esito negativo anche un "congelamento" della cultura. Se gli anni Cinquanta
avevano rappresentato il conformismo ideologico, la logica rigorosa dei blocchi,
la ripresa economica e poi il vero "boom", gli anni Sessanta incominciavano con
tutta una serie di nuovi fermenti culturali; germi dell'avanguardia cominciavano
a muoversi dalle periferie del paese, coagulandosi in primi nuclei di una certa
rilevanza a Roma, Milano, Torino. I giovani, che erano per la prima volta dalla
fine della seconda guerra mondiale liberi da preoccupazioni economiche, forti di
una miglior preparazione culturale, potevano riflettere sui valori che la società
borghese proponeva loro. Questi anni sono stati una lunga preparazione al
1968. I nuovi modelli culturali immessi dal
rock e dal pop mostravano la vivacità della cultura americana che diveniva sempre
più un mito o un termine di confronto imprescindibile per le nuove generazioni.
Gli anni Sessanta si aprono con una politica istituzionale meno rigida ed inquadrata:
dal 1963 torna al governo una forza di sinistra, dopo l'estromissione voluta da
De Gasperi nel 1948. Con il partito socialista inserito nella compagine governativa,
si apre così la contraddittoria stagione del centrosinistra, che si sarebbe dovuta
caratterizzare come un periodo di riforme sociali e istituzionali. Dopo alcuni primi
tentativi come la riforma della scuola e la nazionalizzazione dell'energia elettrica,
il centro sinistra, dilaniato da divisioni tra partiti e l'immobilismo della politica
italiana, si mostrò incapace di perseguire la trasformazione, in senso autenticamente
moderno, dello stato italiano. Tutti i nodi politici ed economici rimasero irrisolti
mentre proprio nella metà degli anni Sessanta l'Italia dovette subire un rallentamento
nella crescita, la cosiddetta "congiuntura".
Paul Ginsborg riassume la contraddittorietà di questo periodo:
"Tra il 1962 e il 1968 i governi di centro-sinistra erano falliti nel rispondere
alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Essi avevano fatto insieme troppo
e troppo poco, nel senso che avevano parlato quasi ininterrottamente di riforme
ma lasciando poi deluse quasi tutte le aspettative. Dal 1968 in avanti l'inerzia
dei vertici fu sostituita dall'attività della base. Quello che seguì fu uno straordinario
periodo di fermento sociale, la più grande stagione di azione collettiva nella storia
della Repubblica. Durante questi anni l'organizzazione della società fu messa in
discussione a quasi tutti i livelli. L'Italia non eguagliò certo, per intensità
e potenziale rivoluzionario, i fatti del maggio '68 in Francia, ma il movimento
di protesta fu il più profondo e il più duraturo in Europa" [7]. Basterebbero
le parole di Ginsborg a spiegare l'unicità delle vicende italiane. La longue
durée del ciclo rivoluzionario ha comportato una ampia elaborazione di precise
esigenze culturali, nuovi modi di rapportarsi in modo antagonista e "polemico" nei
confronti dell'ordine sociale borghese. Nella sacca del giovane rivoluzionario non
potevano mancare, tra gli altri, le bibbie riconosciute del movimento, quelle che
si potrebbero definire le "tre M": Marx, Marcuse, Mao. In questo ordine: l'ortodossia
del comunismo, la filosofia critica della società tecnologica avanzata e, infine,
la prassi rivoluzionaria.
Il jazz rappresenta uno dei linguaggi che si prestano a questo
ruolo di rottura nei confronti delle convenzioni. Una di quelle arti che –secondo
L'Adorno dei Minima Moralia- dovrebbero introdurre caos nell'ordine. Come
risposta creativa alle nuove esigenze culturali e come mimesi dei fermenti sociali,
il jazz riapre il discorso sui ruoli tradizionali del "fare musica". Per capire
la profonda frattura operata nel corso dei primi anni Sessanta da un ristretto numero
di artisti d'avanguardia bisogna brevemente inquadrare il mondo del jazz italiano
del decennio precedente. Gli anni Cinquanta si caratterizzano per la continuità
con il passato: gli appassionati di jazz si configurano come una "carboneria", custodi
di una musica per adepti che vive nella pedestre imitazione calligrafica del modello
americano. Il jazz viene vissuto da musicisti, critici e appassionati come un impegno
da tempo libero. La rivista Musica jazz, che costituisce il centro di raccordo
per queste tre categorie di addetti ai lavori, lo prova, emblematicamente. Tutti
i collaboratori, direttore compreso, svolgevano attività lavorative diverse e concepivano
il jazz come una cosa "altra", una "passione" a sé, slegata dal resto della loro
vita. Una critica di questo tipo non può che auto orientarsi ad analizzare il fenomeno
jazzistico dal punto di vista storico-biografico, imitando anch'essa, come facevano
i musicisti, i suoi corrispettivi americani, ignorando tutti i problemi politici-sociali
connessi all'esperienza afroamericana. Questo spiega perché la critica si sia sempre
fermata ad una valutazione puramente estetica della musica, non riuscendo ad andare
oltre l'assioma dell' art pour l'art. Il critico Gino Castaldo ha stigmatizzato
questo atteggiamento come forma mentis dopolavoristica. La maggior parte
dei musicisti che si dedicano al jazz si producono in grandi orchestre o sono musicisti
di sala d'incisione che prestano la loro abilità tecnico-strumentale per lavori
ordinari, dozzinali. Suonano jazz per piacere personale, in piccoli locali di fronte
ad un pubblico esclusivo. Professionisti della musica leggera o di quella seria,
ma dilettanti del jazz. E' il jazz da "taverna piemontese e barbera", come
lo ha definito il pianista e compositore Gaetano Liguori. La musica non è che un
mero esercizio di abilità artigianale e mai diventa il campo di una elaborazione
teorica originale. L'ambito culturale in cui si muove il musicista italiano è quello
"dell'ideologia e della visione del mondo piccolo e medio borghese, priva di
agganci culturali, di riferimenti se non quelli del qualunquismo e del rifiuto
della politica"[8]. Fa eco a queste parole la considerazione di Castaldo:
"Se in America il jazz era una musica in movimento, caratterizzata dall'instabilità
sociale, dalla dialettica e dallo scontro razziale, se era la musica socialmente
più sporca che ci fosse, in Italia diventava una innocua e non problematica passione
per tranquilli e benpensanti signori" [9].
Avvisaglie di cambiamento arrivano da Bologna, città roccaforte
del partito comunista, che verso la metà degli anni Sessanta propone concerti di
Charles Mingus
e di Chet Baker.
Personalità "sopportate, minoritarie, sperimentali" le definisce lo scrittore e
regista Italo Moscati. Forme d'arte sicuramente alternative, per la provincia italiana
del periodo[10]. Ma è con la nascita di un free jazz italiano che si verifica il
cambiamento. Si tratta di una lacerazione profonda che segna la mancanza totale
di qualsiasi tipo di continuità tra il vecchio e il nuovo. In Europa ed in Italia
il free si manifesta come un fenomeno forse ancora più dirompente che non negli
stessi Stati Uniti. In parte perché arriva contemporaneamente al 1968 e il fascino
di pensare una immaginazione al potere col sassofono, di farsi interpreti di un'estetica
della rivoluzione diventa una tentazione irresistibile per i giovani della nuova
controcultura. Prima di arrivare agli avvenimenti politici di fine decennio, c'è
stato un intenso lavorio sotterraneo, da parte di giovani intellettuali ribelli
che tentano di produrre nuovi modelli artistici alternativi a quelli proposti dalla
società borghese. Roma diventa il centro di questo movimento che coinvolge cinema,
poesia, letteratura e teatro [11].
Dalla provincia arrivano giovani artisti (come il sassofonista
Mario Schiano)
con la voglia di creare e di organizzare spazi alternativi per la fruizione della
cultura. Vengono aperti i primi locali, i primi spazi in cui si suona free e si
discutono i significati della nuova musica. [12] Ricorda Schiano: "Arrivano i
libri di Ginsberg. Si suona e, finalmente, si parla pure. Nasce il Gruppo Romano
Free Jazz, con Pecori e Marcello Melis. Bel momento a Roma. L'underground. Il Beat
72: Steve Lacy,
Paul Bley, Gato Barbieri con Don Cherry" [13]. Al Beat 72 si mette in scena
il Don Chisciotte di Leo De Berardinis e Carmelo Bene. Il jazz è una notevole
fonte di ispirazione per il teatro e per Leo de Berardinis in particolare[14]. Scrive
Gianni Manzella a proposito di questo spettacolo: "Era infatti soprattutto Bene
a entrare dentro il racconto, facendosi coinvolgere nella scena che egli
stesso contribuiva a disegnare, (…) Di contro si ergeva la lettura "fredda" di Leo,
una vera e propria contrapposizione jazzistica della sua voce-suono a quella dell'altro."
[15] Che non si tratti di una citazione sporadica Leo De Berardinis lo mostrerà
utilizzando il free jazz in gran parte del suo teatro sperimentale degli anni Settanta,
con i musicisti coinvolti direttamente nell'azione scenica sul palco e con le musiche
a giocare un ruolo ben più alto rispetto a quello di integrazione di immagine e
suono. Lo stimolo alla nascita dei primi gruppi di free, viene dalla presenza a
Roma di diversi musicisti creativi americani ed europei di valore. Successivamente
la sfera prettamente musicale, in una situazione sociale e culturale cangiante,
lascerà il campo a motivazioni che assumono sempre più un carattere extra-artistico.
Ricorda Schiano:. "il clima di tensione si respirava già qualche anno prima,
nel '66-67. Al Beat 72 suonavamo con la polizia fuori dal locale, probabilmente
perché eravamo considerati dei sovversivi! Per cui, quando il clima si fa più pesante,
con l'occupazione delle università e delle fabbriche, ci sentiamo già preparati"
[16]. Il movimento giovanile, in polemica con il pensiero borghese, comincia
ad imporre una diversa visione del mondo, che ben presto si riempie di contenuti
politici. L'anno chiave del cambiamento per quanto riguarda il jazz è il 1966. Nasce
il Gruppo Romano Free Jazz con Schiano, Pecori e Melis; mentre il pianista-
compositore
Giorgio Gaslini incide un disco destinato a fare epoca nella storia del
free, non solo italiano: la suite Nuovi Sentimenti, con la partecipazione
della miglior avanguardia europea e americana, la stessa che soggiornava in quel
periodo a Roma: Lacy, Barbieri, Cherry.
Giorgio Gaslini,
autore della suite, si era già messo in luce nel 1957 con Tempo e relazione,
una partitura in cui il musicista milanese tentava di coniugare il linguaggio jazz
e la tecnica seriale dodecafonica. Il nostro, in possesso di un solido bagaglio
di studi classici e di una precoce passione per il jazz si è ritagliato uno spazio
importante nel jazz italiano, contribuendo con il suo lavoro a quella rottura delle
convenzioni tradizionali che i musicisti free contemporaneamente tentavano in altre
direzioni. Già dalla suite Oltre, Gaslini aveva incominciato a cercare un
dialogo con il pubblico. Nel 1966, dopo Nuovi Sentimenti, questa pratica
divenne abituale e con un preciso significato sociale e politico. Gaslini lo ha
definito: "un allargamento della democrazia al mondo del concerto" [17].
Questo approccio alla musica venne poi adottato in quasi tutti
i contesti della musica d'avanguardia italiana, dove i musicisti si sottoponevano
spesso al confronto con il pubblico. Gaslini da intellettuale globale non si limitava
a scrivere e suonare musica ma era anche teorico delle concezioni ideali che stavano
alla base della sua opera. Egli teorizza la figura del musicista totale, cioè in
grado di concorrere alla creazione dell'uomo totale. Totale significa "operare
per un tutto futuro, al vertice di un'evoluzione del mondo, (ove sia) superato ogni
dogmatismo stilistico limitato a culture specifiche e ci dichiariamo per l'assunzione
di tutte le culture musicali in unico atto libero di creazione espressiva. Ci proponiamo
un'arte popolare che raccolga le membra sparse di tutto l'uomo, che preannunci una
civiltà dell'uomo, unica, totale e al vertice di una evoluzione spirituale, di un
processo storico. In questa prospettiva il musicista è tenuto ad interessarsi di
altri e non c'è più posto per presunzioni di valore stilistico". [18] Queste
riflessioni, in forma di manifesto, esprimono il Gaslini-pensiero del 1965-1966,
anche se vennero raccolte e pubblicate in volume solo nella metà degli anni Settanta.
Si possono fare diverse osservazioni su queste righe, che hanno valore di riflessione
generale sul periodo e non solo sull'autore. Il concetto di musica totale, che non
è una invenzione di Gaslini, anche se per merito suo questo slogan programmatico
ha avuto negli anni successivi ampia fortuna, [19] implica un'idea di apertura culturale
e disponibilità verso il diverso che è di per sé politica: l'artista non è più creatore
del bello ma ricettacolo di tutte le esperienze della società. L'antidogmatismo,
la volontà di creare un uomo nuovo, saranno tratti caratteristici del '68. Gaslini
pare cogliere, con qualche anno di anticipo, temi che costituiranno la base filosofica
del movimento studentesco, ma evidentemente questo, che era il clima culturale della
metà degli anni Sessanta, non poteva sfuggire a un artista colto come Gaslini. A
proposito della sua estrazione colta, bisogna notare che in lui è già presente un
certo rifiuto del ruolo dell'intellettuale classico, nonostante i propri lavori
abbondino di riferimenti alla tradizione "alta" occidentale. Infatti, non manca
un richiamo alla cultura popolare, anche se questo rimane un innesto operato da
un uomo che è in primis un compositore, abituato dunque a considerare la musica
come una costruzione mentale. Inutile dire che la valorizzazione della musica popolare
caratterizzerà tutto il jazz degli anni Settanta, non solo come rifiuto della "coscienza
colta" legata alla borghesia, ma anche come referente di classe. Discorso che vale
per il free come per la "canzone politica", riesumata proprio nel 1968.
Di questo uso di forme di espressione popolari è paladino il
già evocato
Mario Schiano. La sua presenza nel mondo dell'underground romano è una
stridente contraddizione agli occhi del pubblico tradizionale del jazz: "un giovanotto
con un sax perfino scassato, incapace di rovesciare un giusto quantitativo di note
all'ora, come se fossimo alla Fiat, non andava bene, e più che ai musicisti, ad
un certo establishment organizzativo romano, abituato a coccolare pochi pupilli
e ad adorare qualunque cosa purché proveniente dall'America"[20]. Da sottolineare
l'accostamento "operista" jazz-fiat introdotto da Rodriguez per descrivere i nuovi
meccanismi che legano la musica alla sua produzione materiale. La rottura dei codici
espressivi deve liberare creatività e fantasia in vista di una riappropriazione
della libertà negata dalla realtà ma conseguibile nella sfera artistica. Nel contempo
si deve di evitare che accada il contrario: che le catene di una società "bloccata"
influiscano sul processo dell'attività creativa. Secondo Rodriguez si tratta di
"rompere la catena di montaggio degli accordi arpeggiati e rivoltati, della produzione
di note in serie". Intuizione che questo critico mutua dall'Adorno della
Introduzione alla sociologia della musica, dove la catena di montaggio assume
il valore di simbolo dei comportamenti che si estendono dalla produzione industriale
a tutta la società, anche a quei settori "creativi" dove non si dovrebbe assolutamente
procedere secondo questi schemi. Il lavoro, anche quello intellettuale e artistico,
assume virtualmente "la forma della ripetizione di procedimenti sempre identici"
[21].
Schiano e Gaslini sono, in modi differenti e quasi antitetici,
i primi esempi di un jazz libero da preoccupazioni commerciali e volto sia al recupero
della musica popolare, sia al discorso sociale e politico; nell'intenzione di avvicinare
un pubblico diverso da quello della ristretta cerchia degli appassionati. Gli inizi,
sotto questo profilo, non sono confortanti per Schiano che spesso deve suonare per
pochissime persone, mentre Gaslini, artista affermato, incontra un crescente seguito
di pubblico. Il free jazz italiano degli inizi è un fenomeno prettamente elitario,
ancor più del jazz tradizionale. Il rifiuto di moduli comunicativi comprensibili
alle masse è tipico di un atteggiamento di rifiuto verso tutto ciò che può essere
considerato "commerciabile" dal mondo dell'industria e dello spettacolo. "Se
di pretesa vogliamo parlare, non è certo quella di esclusività politico-rivoluzionaria,
ma caso mai, quella di radicalismo e, per l'appunto, di avanguardia, in tutti i
sensi consentiti dalla dialettica espressione-società". Il free italiano degli
anni Sessanta nelle teorizzazioni di Gaslini e di Pecori, e nelle esemplificazioni
"traumatiche" per il pubblico convenzionale di Schiano, andò verso una ridefinizione
del sistema dei segni che permettesse una comunicazione diversa come diverso si
supponeva il pubblico destinatario ultimo del messaggio. Ce n'est qu'un début
potremmo dire per rimanere nel clima, citando gli studenti della Sorbona.
Questo discorso non era che la base teorica di tutto quanto avrebbe
prodotto il free nel decennio successivo. L'esplosione di pubblico è successiva
e data dalla fine degli anni Sessanta, quando tutta la società presa in un vortice
di cambiamento e di grande vivacità culturale crea le condizioni per l'avvicinamento
di un pubblico giovanile più consistente, in cerca di una musica "alternativa" e
non commerciale. A questo punto, e sotto la spinta del cambiamento, si realizza
la saldatura della politica con le masse giovanili. Queste portano in dote alla
cultura e all'arte una nuova visione del mondo, in cui la politica, intesa in senso
esteso, gioca un ruolo predominante e pervasivo. La stessa rivista Musica Jazz in
quel periodo rompe gli indugi e avvia una discussione sul significato del free,
proponendo saggi di giovani critici come i già citati Alberto Rodriguez e Franco
Pecori (musicista vicino a Schiano). Come già ricordato, lo stesso anno Shepp si
esibì a Lecco, mettendo a rumore l'ambiente del jazz tradizionale. Il 1968 della
musica creativa italiana vide invece due importanti avvenimenti: una serie di concerti
di Schiano e del suo gruppo in uno spettacolo dal titolo emblematico, Il free
jazz di fronte alla realtà del sistema, anticipatore di una commistione tra
musica, immagini, ed azioni teatrali, seguito dall'ormai consueto dibattito con
il pubblico. L'altro avvenimento vide impegnato
Giorgio Gaslini
in una operazione di contaminazione tra musica ed immagini, poesia e impegno politico.
Il fiume furore, jazz per il movimento studentesco-Canto per i martiri negri
in memoria di Martin Luther King, opera registrata nel maggio dello stesso anno,
raccoglieva in presa diretta, tramite documenti sonori sulle manifestazioni studentesche
a Milano e Parigi, il clima del periodo, con le voci di Salvatore Quasimodo e Clebert
Ford. Con il concerto tenuto assieme a Max Roach qualche settimana prima, questo
disco costituisce la prima vera affermazione di un legame organico del jazz con
la politica e con il Movimento Studentesco. Il jazz italiano diventa realmente in
questo momento portatore di un grido di protesta e di un attestato di fede verso
il cambiamento. Nello stesso anno
Mario Schiano
accompagna con il suo trio il Living Theatre che propone Paradise Now. Di
nuovo jazz e teatro sperimentale. Ma anche un clima politico-sociale che sta cambiando.
Non sono più Schiano con il suo sassofono o gli attori sul palco a dare scandalo,
è la gente comune, gli spettatori che rifiutano questo ruolo e assurgono a protagonisti
della scena.
Ecco il resoconto dello spettacolo di Urbino proposto dall' Espresso
e raccolto poi con altre testimonianze dallo studioso Enrico Cogno in Jazz inchiesta
Italia. "Sono le nove di sera e comincia lo spettacolo. Non sulla pedana, naturalmente,
perché non si può entrare a causa della ressa, ma sulle scalette che portano nella
cantina-teatro.(…)si sente intonare un salmo marocchino. Sono gli attori che arrivano
coperti di stracci. ma restano bloccati anche loro sui primi scalini, tra le urla,
gli insulti, gli spintoni. Lo spettacolo continua là, fra le scale, la cantina e
la piazza, da cui arrivano minacciose proteste. Finalmente Julian Beck riesce a
farsi strada con pochi compagni e a raggiungere la pedana. Sulla sua scia si muovono
anche i tre musicisti(…). E così cantina, piazza, scale, lo spettacolo va avanti
per un'altra ora. I tre musicisti suonano con i gomiti degli spettatori sullo stomaco.
Sembra impossibile che riescano a soffiare e a battere sui loro strumenti. Nel caos
generale si sentono soltanto i sibili del sassofono di Schiano, il quale incurante
del groviglio, continua a suonare. (…) E così va avanti fino all'una di notte, mentre
i musicisti continuano a suonare. Lo spettacolo è finito, ma nessuno ha visto Paradise
Now. Ora sono tutti nell'unica trattoria aperta, studenti, attori, musicisti. Se
ne parlerà fino alle quattro del mattino…"[22]
Se il teatro subiva il fascino del jazz, un media come il cinema
non poteva certamente trovarsi in disparte. Toccò proprio nel 1968 al regista Ugo
Gregoretti girare un film su di un grande sciopero operaio. Apollon Fabbrica
occupata evidenzia come una cartina al tornasole l'attrazione provata dagli
intellettuali nei confronti dell'operaismo e vede di nuovo all'opera per la colonna
sonora[23] l'urlante sax di
Mario Schiano
che accompagna i momenti più caldi dello sciopero.[24] Hegeliana "morte dell'arte"
(e fine del padrone) riassunta in quella sintesi superiore ed onnicomprensiva che
è la centralità della classe operaia. Sempre del 1969 è la prima uscita discografica
dello Schiano Trio, dall'emblematico titolo Ogni giorno in piazza. Sul finire
dell'anno segnato dalla contestazione studentesca, si vedono le prime esibizioni
di Cecil Taylor e
Ornette
Coleman. Fu proprio un contestato concerto di Taylor del 1969 a Milano ad
entusiasmare il giovane pianista Gaetano Liguori e a portarlo ad abbracciare l'atonalismo.
Purtroppo il 1969 è anche l'anno della strage di piazza Fontana, della morte dell'anarchico
Pinelli e delle nebulose vicende legate alla figura del commissario Calabresi. La fine di un periodo. Entrando negli anni
Settanta l'azione collettiva inizia progressivamente a sfilacciarsi, tra settarismi
politici e frange armate. Da una "politica di massa creativa", come è stata definita
dallo studioso Sidney Tarrow, si passa ad una azione più radicale sotto la direzione
di gruppi e partiti politici, nati a loro volta dal picco intensivo della protesta
di fine anni Sessanta[25]. Il jazz di protesta diventa un fenomeno di costume, parte
del patrimonio genetico del giovane di sinistra. Gli anni Settanta videro un grosso
successo di pubblico per il jazz e le sue contaminazioni nei festival musicali che
si svolgevano in tutta Italia: "Ce ne sarà uno alla settimana, e sempre con gli
stessi nomi: gli Area,
Giorgio Gaslini,
gli Stormy Six, il Canzoniere Internazionale, il gruppo Folk internazionale di Moni
Ovadia e il Trio Idea di Gaetano Liguori" [26].
La musica jazz, accerchiata con una manovra a tenaglia tra happening
tardo woodstockiani, assimilazione forzata nelle feste di partito stile Unità, conformismi
dogmatici di alcuni gruppi extraparlamentari, degenerazioni violente e autoriduzioni
rock, si è rapidamente allontanata dai contenuti innovativi abbinati all'agire sociale.
E anche in questo –potremmo concludere- ha seguito fedelmente nei tempi la parabola
discendente dei movimenti radicali della sinistra italiana.
Non dirò il titolo del brano che ora eseguiremo, perché è "di
sinistra". (fischi…risate) [27]
Guido Mazzon
[1] Cesare Lombardi è un comunista-tipo,
uscito dalla penna di George Steiner, in un agile romanzo sul tramonto del "mito"
del Comunismo in Italia. George Steiner, Il correttore, Milano: Garzanti, 1992,
p.30.
[2] Arrigo Polillo, "Jazz", op.cit., p.295.
[3] Per una analisi approfondita del rapporto tra rock, pop controcultura e industria
dello spettacolo negli anni Sessanta rimando a: Giaime Pintor, "Il pop: i tempi
e i luoghi di una moda", in A.A.V.V., La musica in Italia, Roma: Savelli, 1977.
[4] Arrigo Polillo, "Il jazz", op. cit., p.296.
[5] Citato da Arrigo Polillo in: "Il Jazz", op. cit., p.296. Le parole di Michel
Portal, un allievo del maestro dell'avanguardia Stockhausen, sono tratte da una
intervista del 1973.
[6] Gino Castaldo, "Motivi e ragioni per un jazz italiano", in A.A.V.V., La musica
in Italia, op. cit., p.117. Il saggio di Castaldo è una bella lettura degli esordi
del nuovo jazz "libero" in Italia, con un occhio particolare alla matrice politico-ideologica
insita nelle elaborazioni teoriche dei nuovi protagonisti dell'avanguardia del nostro
paese; segnatamente Castaldo affida il ruolo principale di questa rottura della
tradizione a Mario Schiano, cui è dedicata tutta l'ultima parte del lavoro.
[7] Paul Ginsborg, Storia dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, torino: Einaudi, 1989,
p. 404.
[8] Enrico Cogno, Jazz inchiesta: Italia., Bologna: Cappelli Editore, 1971, p.62;
la frase riportata è tratta dall'intervento di Alberto Rodriguez, critico musicale.
[9] Gino Castaldo, op. cit., p. 133.
[10] Italo Moscati, 1967. tuoni prima del maggio, Padova: Marsilio, 1997, p.14.
[11] L'avanguardia romana si ritrova in Trastevere. Particolare interesse rivestono
i tentativi di teatro sperimentale con Carmelo Bene, Mario Ricci e Giancarlo Nanni.
Si vede anche molto cinema al Filmstudio, mentre i bar di piazza Santa Maria in
Trastevere sono il ritrovo abituale per commentare tutte queste esperienze. Sul
tema: Alberto Rodriguez, "Il caso Schiano", in Musica Jazz, n.6, 1975, p.9-10.
[12] Franco Pecori spiega in questi termini la propria adesione all'avanguardia
del Gruppo Romano di Free Jazz: "In quel momento, il valore degli strumentisti in
sé doveva passare in secondo piano rispetto al senso che certe scelte musicali potevano
assumere. Era necessario dare a queste scelte una dimensione esplicitamente dialettica,
per investire il campo ideologico-politico e insomma culturale in senso forte".
Franco Pecori, "Sull'ideologia della critica", in Musica Jazz, n.8, 1975, p.9. Quindi
la scelta andava condivisa con il pubblico e discussa. Andava ricostruito con l'ascoltatore
un nuovo tipo di rapporto che lo rendesse compartecipe delle scelte. Per rispondere
a questa necessità di confronto dialettico, dopo il concerto Pecori leggeva il "programma-manifesto",
uno scritto volutamente provocatorio che doveva suscitare una reazione nell'uditorio
e mettere a nudo le contraddizioni dell'arte. Ricorda Pecori che le discussioni
dopo i concerti duravano fino a tarda notte e non investivano solo il tema dell'arte.
Ecco un estratto del manifesto: "All'orecchio abituato ad un certo tipo di ascolto,
la nostra musica può dare l'impressione del disordine, quando non addirittura del
gratuito e dell'arbitrario; ma quest'apparenza è dovuta proprio al rifiuto di una
arbitrarietà. Noi pensiamo che arbitrario sia estrarre dal mondo alcuni eventi presunti
felici per metterli tutti in fila a comporre la cosiddetta Opera d'Arte: un'opera
eterna, universale, intangibile, come si diceva una volta". Franco Pecori, Manifesto
del Gruppo Romano di Free Jazz, Roma 25 novembre 1966.In Analizzare il continuo,
articolo di Franco Pecori, Musica jazz, n. 4 1969.
[13] Alberto Rodriguez, art. cit. p.9.
[14] Si pensi al film A Charlie Parker, del 1970 dove il jazzista americano compare
solo "in spirito" evocato per la sua "solitudine di artista", condizione comune
al di là delle distanze sociali e geografiche. Cfr, Gianni Manzella, La bellezza
amara, Parma: Pratiche Editrice, 1993, p.41-42.
[15] Gianni Manzella, op.cit, p.37.
[16]Pierpaolo Faggiano, Un cielo di stelle. Parole e musica di Mario Schiano, Roma:
Manifestolibri, 2003, p. 39.
[17] Adriano Bassi, Giorgio Gaslini, prefazione di Enzo Restagno, Padova: Franco
Muzzio, 1986, p.82.
[18] Giorgio Gaslini, Musica totale, Milano: Feltrinelli, 1975, p. 99.
[19] Per una critica a Musica Totale si veda la recensione di Giuseppe Piacentino
in Musica Jazz n.6, 1975, p.45. Per Piacentino Gaslini ragiona in termini assiomatici
e rigidamente schematici, partendo da premesse ideologiche che il recensore non
si sente di condividere.
[20] Alberto Rodriguez, "Il caso Schiano", in Musica Jazz, n.6, 1975, p.9.
[21] Theodor Adorno, Introduzione alla Sociologia della musica, Torino: Einaudi,
1962, p.59-60.
[22] Enrico Cogno, Jazz inchiesta Italia, op.cit., pp.190-193.
[23] La colonna sonora di Apollon Fabbrica occupata è stata pubblicato in allegato
al libro di Pierpaolo Faggiano, Un cielo di Stelle, edito da Manifestolibri.
[24] Franco Bergoglio, Il regista in fabbrica. Alcune riflessioni su operaismo e
prassi culturale, nella rivista: Per il Sessantotto, Pistoia, Centro di Documentazione
di Pistoia, n.17/18, 1999; p. 63.
[25] Sidney Tarrow, Demorazia e disordine. Movimenti di protesta e politici in Italia.1965-1970,
Bari, Laterza, 1990, p.116.
[26] Gaetano Liguori, Un pianoforte contro. Conversazione con Claudio Sessa, Milano,
Selene, 2003, p. 59.
[27] Guido Mazzon, La tromba a cilindri, Como, Ibis, 2008, p.89.
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
|
Inserisci un commento
© 2000 - 2024 Tutto il materiale pubblicato su Jazzitalia è di esclusiva proprietà dell'autore ed è coperto da Copyright internazionale, pertanto non è consentito alcun utilizzo che non sia preventivamente concordato con chi ne detiene i diritti.
|
Questa pagina è stata visitata 7.443 volte
Data ultima modifica: 09/05/2014
|
|