Jammin'
the Blues (1944),
diretto dal fotografo di "Life" Gjon Mili, anche se non è un vero e proprio
documentario ma più un cortometraggio jazzistico, è forse il primo serio tentativo
di documentare una performance jazzistica. E' infatti unico nel suo genere:
a differenza degli altri jazz-shorts (Black and Tan Fantasy,
St, Louis Blues, Simphony in Black, Yamekraw, Rhapsody in
Black and Blue) non sceneggia il brano o comunque non visualizza una storia,
ma si dedica interamente alla performance e per la prima volta il regista
si pone il problema di come riprendere dei musicisti in azione.
Gli anni quaranta sono quelli in cui il jazz rivendica, con il bebop,
il suo stato di arte, di musica seria e autonoma, e Gjon Mili, che già si
era spinto in quella direzione attraverso le fotografie, lo conferma nei dieci minuti
del suo short. Krin Gabbard fa notare che "nel presentare sobriamente
i musicisti davanti ad uno sfondo bianco, senza scenografia, il film forniva abbastanza
presto un'analogia visibile all'idea, che si stava affacciando, che il jazz fosse
un'arte del tutto autonoma" [1]. In effetti
per la prima volta, intorno ai musicisti, si costruisce un ambiente inequivocabilmente
cinematografico, che come dice Marco Vecchi "non attenua, ma al contrario,
esalta l'impatto emozionale del jazz" [2].
All'inizio del cortometraggio una voce fuori campo ci avverte che stiamo per assistere
ad una jam session. In realtà la costruzione dell'immagine contrasta con
l'idea di improvvisazione estemporanea, ma è proprio questa la forza del film: alla
spontaneità della musica si affianca una regia molto elaborata che abbandona lo
stile egemonico degli anni trenta e quaranta. Fino ad allora infatti il cinema aveva
ripreso il jazz più che altro frontalmente, quasi fosse suonato a teatro, o comunque
con piccole variazioni nel taglio delle inquadrature e un montaggio che presentava,
secondo un'alternanza di piani medi e ravvicinati, i diversi membri del gruppo.
Così, per esempio, era mostrata l'orchestra di Duke Ellington in due shorts:
in Black and Tan Fantasy di Dudley Murphy,
con tanto di sipario, al punto che la musica sembrava uno sfondo per i ballerini
e i cantanti, e ancora in Simphony in Black
dove Fred Waller la riprendeva frontalmente o al massimo dall'alto. In
Jammin' the Blues i musicisti non sono più rivolti verso un ipotetico pubblico,
ma sono raccolti intorno a se stessi, intorno alla musica che stanno creando, e
sembrano tessere una rete di relazioni fatta di sguardi e veicolo della musica stessa.
La macchina da presa allora si "intrufola" in questa rete cercando di sorprenderla
e mentre si fa spazio all'interno del gruppo si sofferma sui volti, sugli strumenti,
sugli sguardi tra un musicista e l'altro, il tutto in un'atmosfera quasi sognante,
data dalla particolare fotografia: un bianco e nero che quasi non ammette sfumature
e che scolpisce i corpi, i profili e gli strumenti. La distinzione netta del bianco
e del nero, secondo un'affascinante intuizione di Franco Minganti, rimanda
alla dinamica culturale presente nel jazz, in cui neri e bianchi convivono, necessari
gli uni agli altri [3]. A me invece piace
pensare che lo sfondo completamente bianco sul quale le silhouette dei personaggi
si stagliano e vivono, sia la metafora dello schermo cinematografico, a sottolineare
che si sta facendo del cinema e non una semplice registrazione della performance.
Anche
se stiamo parlando di cinema, dovremo fare un'eccezione ricordando la già citata
trasmissione televisiva The Sound of Jazz (1957),
il prototipo di tutti i programmi televisivi dedicati al jazz. Il discorso infatti
dovrebbe essere lo stesso, con l'eccezione dell'utilizzo di più telecamere e di
una regia che funzioni come un montaggio istantaneo.
Prodotta
da Nat Hentoff per la CBS e diretta da Jack Smight
(9 mar 1925, Minneapolis - 1 set 2003, Los Angeles) (futuro
regista cinematografico), è un valido esempio di come quel regista del concerto
di Capodanno, chiamato in causa nel primo paragrafo, potrebbe riprendere un evento
jazzistico. Parlo di evento ripensando alle parole di Dan Morgenstern, un
critico jazz americano: "La televisione è un medium fatto apposta per gli eventi
e ogni performance di jazz è, in sé, un evento" [4].
A differenza di Jammin' the blues, qui il senso di realtà della jam session
viene amplificato dalla decisione di mostrare il luogo in cui avviene la
performance: lo studio è presentato così com'è, non c'è scenografia né messa
in scena né pubblico, i jazzisti sono vestiti normalmente e tutti quelli che fanno
parte della produzione dello spettacolo (gli operatori, le telecamere e gli assistenti
di studio) sono visibili al loro fianco. Inoltre Jack Smight decide di lasciar
"improvvisare" i cameramen, a cui fa ricercare tagli inediti che poi provvederà
lui a montare, avendo sotto controllo tutta la situazione dalla cabina di regia:
quasi a riproporre la tensione tra parti scritte e improvvisate, tra organizzazione
e spontaneità, alla base del jazz. Come fa notare giustamente Michelone
[5], la sequenza in cui Billie Holiday
canta Fine and mellow è un esempio perfetto
di come il regista riesce a inserirsi nella struttura dei brani, giocando a relazionare
ritmi e immagini. La sequenza si apre e si chiude con il totale del gruppo con la
Holiday seduta su uno sgabello, di spalle alla camera, circondata dai fiati.
Quando inizia a cantare, un primissimo piano, di tre quarti, con la luce di taglio
da sinistra, rende l'inquadratura della cantante molto intensa. Questa inquadratura
farà da leitmotiv visivo tra le brevi inquadrature dei musicisti che di volta
in volta saranno ripresi in primo piano (di fronte o di sbieco in modo da inserire
nell'immagine anche Billie Holiday) durante il loro assolo. Infine è da aggiungere
che l'importanza di questa trasmissione non deriva solo dal fatto che per poco più
di un'ora artisti di vecchia e nuova generazione si confrontano sul palco (Count
Basie All Stars, Henry "Red" Allen All Stars, Thelonious Monk,
Jimmy Giuffre, Coleman Hawkins, Lester Young, Pee Wee Russel,
Jim Hall,
Gerry Mulligan, Ben Webster), ma anche per la sua validità di documento
storico sulla rivalutazione da parte dei media statunitensi della cultura
afroamericana e in particolare del jazz quale musica dotata di valori estetici.
Un
altro prototipo nella storia del cinema e dei suoi rapporti con il jazz è l'unico
film di Bert Stern, anche lui fotografo come Gjon Mili, un lungometraggio
documentario sul Newport Jazz Festival del 1958:
Jazz
on a Summer's Day. L'intento di Stern non è musicologico, nel
senso che piuttosto che concentrarsi esclusivamente sulla musica e sulla perfomance
vuole cogliere il carattere sociologico dell'intera manifestazione, in cui l'evento
non è dato solo dai musicisti invitati e dalla loro musica, ma anche dal contesto
ambientale e dalla partecipazione degli stessi ascoltatori. Non a caso in un'intervista
del 1999, che si trova negli inserti speciali
dell'edizione del documentario uscita in dvd nel 2000,
il regista dice che a lui inizialmente interessava cogliere la contraddizione tra
il jazz e Newport: il primo, "qualcosa di povero e proveniente dal sud" e
il secondo, "ricco e nel nord". Le immagini del luogo e del pubblico acquistano
così la stessa importanza di quelle dei musicisti in azione. L'avanzamento del documentario
segue cronologicamente lo svolgimento del festival, ma il tempo è spesso dilatato,
spezzettato, moltiplicato dalla compresenza di posti diversi (il mare dove si svolge
contemporaneamente al festival la regata dell'American Cup Trials, la città, le
case, la platea) e dei differenti punti di vista delle macchine da presa (cinque
in tutto). Mi vengono in mente, pensando alle numerosissime inquadrature sui volti
degli spettatori che ascoltano, che seguono il ritmo della musica con il corpo,
o che addirittura si accovacciano su se stessi per concentrarsi meglio, le parole
di Comolli quando dice che forse c'è più musica nel viso di colui che ascolta
che in quello di colui che suona. [6] Ed è
proprio questo, a mio avviso, lo spunto interessante del documentario: anche se
non volendo, Stern riesce a superare il problema della documentazione della
performance semplicemente abbandonandola (non sempre naturalmente), lasciando
al jazz la possibilità di farsi "ascoltare" nelle tracce lasciate sui volti del
pubblico, nel paesaggio circostante e perché no, anche nelle volute delle barche
in gara, forse ignare dei suoni provenienti dalla terra ferma. I riflessi delle
acque del porto, per esempio, sostengono alla perfezione il sassofono di Jimmy
Giuffré, il trombone di Brookmeyer e la chitarra di
Jim Hall
che ascoltiamo in apertura ancora prima di vederli ricondotti all'immagine dei musicisti
sul palco in un'inquadratura strettissima, una delle molte nel film che sfiorano
l'astrattismo, confondendo volti, strumenti e corpi; ancora l'assolo di Monk
sembra duettare con gli scintillii dell'oceano. Per fare ciò Stern si affida
al colore, per mezzo del quale le delicate tinte pastello si combinano con le sfumature
più calde senza mai tradire i cromatismi dei soggetti ripresi, e che fa di Jazz
on a summer's day "un buffetto a quelli che ancora pretendono che il colore
non può essere utilizzato nei film realistici" [7].
Questo lungometraggio documenta così uno spaccato di un'america ricca,
felice e spensierata (il luna-park, la spiaggia, i prati, una festicciola a suon
di birre in una villa, la vela) oltre che il buon jazz di Monk, Armstrong,
Chico Hamilton, Dinah Washington, Mulligan a cui con piacere
si abbandona in un caldo giorno d'estate.
[1] GABBARD, Krin, cit. in MINGANTI, Franco, Documenting
jazz, in LA POLLA, Franco (a cura di), op. cit., p. 196.
[2] VECCHI, Marco, in TURA, Valerio, GALTAROSSA, Lauro (a cura di), op. cit., p.
9.
[3] Cfr. MINGANTI, Franco, L'influenza di radio, popular music e jazz, in BRUNETTA,
Giampiero (a cura di), op. cit., p. 1513.
[4] MORGENSTERN, Dan, cit. in MINGANTI, Franco, Documenting jazz, in LA POLLA, Franco
(a cura di), op. cit., p. 199.
[5] Cfr. MICHELONE, Guido, op. cit., p. 53.
[6] Cfr. COMOLLI, Jean-Louis, Voir et Pouvoir, Verdier, Parigi 2004, p. 323.
[7] VADIM, Roger, Jazz in un giorno d'estate, in "Il Nuovo Spettatore Cinematografico",
a.II, n.18, dic.1960, p. 120.
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Data pubblicazione: 18/08/2007
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