Carlo Loffredo
Billie Holyday, che palle!…
Coniglio Editore 2008 Pag 318 – Prezzo di copertina E 19,50
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"Ho scritto un divertentissimo libro di memorie che ho intitolato
"Billie Holyday, che palle!…" ma che difficilmente troverà un editore intelligente
al punto da pubblicarlo."
Diceva così in una
intervista apparsa su questo sito
Carlo Loffredo,
decano (non so se questa espressione piacerà al maestro) del nostro jazz. Ora si
è trovato l'editore (non si capisce perché
Loffredo
fosse tanto pessimista) ed il lettore ha fra le mani un libro brillante e ben scritto.
Un libro venato di una nostalgia sobria ed ironica su un passato irripetibile, quello
della dolce vita, dell'Italia degli anni '50. Nelle pagine del narratore si muovono
miti del cinema italiano, personaggi del jet set internazionale, star di Hollywood
ed eccentrici nobili siciliani, artisti come De Chirico o Guttuso.
Un mondo in bianco e nero, che sembra uscito da un vecchio cinegiornale d'epoca,
nel quale appaiono Django, Earl Hines, Satchmo, Chet
e tutti i grandi con cui
Loffredo
ha suonato. Un mondo dove si respira l'atmosfera di celebri locali romani, della
piazzetta di Capri, così come della Mosca degli anni di Nikita Kruscev. Un mondo
dove il lettore – spettatore - può sfilare con una marching band lungo Canal
Street a New Orleans.
Il contrabbassista romano scrive davvero bene
(è stato anche giornalista) ed ha la capacità di cogliere la poesia di certe situazioni,
di fotografare particolari momenti. Lui stesso che suona Saint Louis Blues,
sotto un ponte del Tevere, durante un bombardamento.
Tony Scott
incappucciato che soffia gospel nel suo clarinetto durante una processione pasquale
nel Lazio. Un West End blues
suonato da Satchmo una notte, davanti al carcere di New Orleans dove imparò
la musica.
Una lettura piacevole, utile a ricostruire il clima ed i sogni di un epoca.
Certo, il punto di vista di
Loffredo
sul jazz non è esattamente quello di chi scrive queste brevi note. Già il titolo
è duro da digerire, come lo è una certa ostentata noncuranza per il jazz dal bebop
in poi. Eppure il maestro ha suonato anche, ed a più riprese, con musicisti come
Chet Baker
e Dizzy Gillespie che proprio tradizionalisti non erano, ed ha praticato
il bop. Ammette di essere affascinato dalla libertà di musicisti come Chet,
che salivano sul palco senza nemmeno dare la scaletta agli accompagnatori.
Il fatto è che, da sempre, nel jazz convivono le anime dell'intrattenimento
e quella della ricerca artistica, anche estrema.
Loffredo
privilegia, del tutto legittimamente, la prima. Billie Holiday, tormentata
e ferita ("miagolante e iettatoria") è per lui il simbolo negativo della
seconda.
Quello che però manca nel libro è un maggiore approfondimento, magari
polemico, di questa contrapposizione. Invece
Loffredo
si limita a notazioni sparse e spesso generiche. A volte, a dirla tutta, si ha l'impressione
che il maestro predichi male contro il jazz "moderno" ma razzoli benissimo.
Non a caso cita fra i migliori musicisti italiani quel
Massimo
Urbani ("Un genio") apparentemente tanto lontano dal suo mondo.
Riconosce il valore assoluto di un Mario Schiano (ed anche di Schiaffini).
Ma le pagine dedicate al jazz ed alle polemiche che lo agitano sono troppo poche
e, per certi versi, frettolose. Peccato perché la penna di
Loffredo
sa essere anche acuminata e qualche polemica in più sarebbe stata l'ideale condimento
per un libro saporito come questo.
Marco Buttafuoco per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 14/08/2008
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