Intervista con Stefano Zenni
settembre - ottobre 2011
di Cinzia Guidetti
Si è conclusa la VII edizione dei seminari di Chieti in Jazz. I corsi abruzzesi
che formano ogni anno compositori, giornalisti e musicologi si sono tenuti quest'anno
in due appuntamenti: 15-18 settembre e 6-9 ottobre. Ne abbiamo approfittato per
intervistare il direttore artistico Stefano Zenni, e per parlare della crisi
economica e dei tagli alla cultura.
Come sono nati i seminari di Chieti in Jazz?
I seminari di Chieti in Jazz sono nati sette anni fa per iniziativa della
Sidma
(Società Italiana di Musiche Afroamericane), sulla base di una mia idea sviluppata
insieme ai docenti
Roberto Spadoni
e Bruno Tommaso, del corso di arrangiamento e composizione, e Luca Bragalini
che tiene, insieme a me, il corso di musicologia e giornalismo. E sono nati da due
esigenze: la prima, meno interessante, ma reale di fare qualcosa nella città dove
sono nato e dove non avevo mai fatto niente; la seconda, di dare vita a qualcosa
di nuovo che non fosse già stato fatto altrove, e che si avvicinasse allo spirito
didattico della vera natura del jazz: un corso di arrangiamento e composizione dove
un'orchestra specifica suonasse i pezzi che un allievo compone. Questo era il
valore aggiunto, l'idea di base da cui siamo partiti. E poi un corso di musicologia
e giornalismo che desse opportunità di divulgare le idee a cui stiamo lavorando
io e Luca Bragalini, e che formasse dei giovani giornalisti e musicologi
interessati a queste materie.
A tutto questo si è aggiunta la possibilità, che ha riscosso un successo inaspettato,
di formare un'orchestra. Oltretutto proprio questa orchestra ha portato alla luce
giovani talenti che, dopo le prime edizioni dei seminari, abbiamo aiutato a crescere
musicalmente.
E in questo periodo di crisi quali sono le prospettive per questi giovani?
Per i musicologi e i giornalisti le prospettive si possono trovare in una molteplicità
di lavori, primo fra tutti, ovviamente, il giornalismo, anche se la carta stampata
è in forte crisi e i lavori sul web, come sappiamo, non sono retribuiti. Oppure
nell'insegnamento, sia nelle scuole private di musica, sia nei conservatori: forse
questo è uno dei pochi settori che continua ad avere una certa vitalità a livello
professionale. E sono da prendere in considerazione anche conferenze e convegni,
la direzione artistica di festival e i lavori radiofonici. Per i musicisti invece
la situazione è piuttosto drammatica. Nel caso specifico di Chieti tutto quello
che possiamo fare è dare una continuità all'orchestra, utilizzandola come è sempre
successo storicamente per il jazz: una palestra professionale dove si impara a leggere
la musica più diversa, a suonarla, e suonare con gli altri, a inserirsi solisticamente
in un repertorio che magari non ti appartiene e, nel nostro caso, anche a imparare
i pezzi nuovi in poco tempo; non dimentichiamo che a "Chieti in Jazz" il programma
del concerto finale viene preparato dall'orchestra in soli tre giorni, e con risultati,
quest'anno, decisamente buoni. Però se usciamo da questa piccola realtà la situazione
non è semplice.
Comunque se non pensiamo solo al concerto come sbocco lavorativo, anche per i musicisti
i lavori possono essere tanti: insegnare, suonare musiche molto diverse, come classica,
rock, pop, latin e soprattutto, cercare di avere una certa flessibilità stilistica
che, in questo momento, i conservatori non sono in grado di offrire.
Perché qual è la didattica dei conservatori?
In un momento in cui c'è bisogno di una grande flessibilità stilistica, e anche
di una grande necessità di esprimersi in maniera forte e individuale, i conservatori
vanno esattamente nella direzione opposta. Avendo uniformato i programmi, per ragioni
ministeriali di riconoscimento dei crediti e dei titoli al livello europeo, si stanno
avviando verso un processo di uniformazione, sfavorendo in questo modo la maturazione
di creatività personali, e tendendo a formare musicisti tutti con lo stesso background,
e tutti con gli stessi obiettivi stilistici e didattici. Per cui alla fine si creano
musicisti che più o meno suonano, non dico tutti nello stesso modo, ma tutti nello
stesso ambito; questo non facilita affatto, né la fiducia in se stessi, né le opportunità
di ricerca di un lavoro, e sicuramente non aiuta a sviluppare quello che serve nei
momenti di crisi: avere delle idee forti.
Avere delle idee forti? Cioè cosa bisognerebbe fare?
Avere delle idee forti, sì e saperle mettere in rete collettivamente parlando, incontrandosi
e discutendone. E, per fare questo, ci vogliono personalità forti che sappiano guardare
oltre alla difficoltà contingente per costruire qualcosa di nuovo. Purtroppo non
siamo in una situazione che favorisce le personalità che sanno guardare oltre.
Quindi sarebbe colpa dei conservatori?
No, parlo dei conservatori perché è la situazione che conosco meglio, ma questo
riguarda chiunque: chi gestisce i club, le rassegne, i festival. Si dovrebbe fare
il contrario di quello che viene fatto. Se siamo in difficoltà, invece di diventare
tutti piccoli allineandosi nelle idee, e programmando gli stessi artisti per cercare
di sopravvivere, bisognerebbe essere più individuali, più personali, più distinti
perché poi è questo che crea e mette in circolo idee diverse, sensibilità diverse,
reazioni del pubblico se vuoi anche di ostilità, di critiche, che fanno pensare,
ragionare, riflettere, magari anche rifiutare; ma per fare questo ci vuole coraggio.
Coraggio da parte delle istituzioni che sostengono i seminari, i festival, i club.
E quando parlo di istituzioni non mi riferisco per forza a quelle pubbliche; possono
essere le fondazioni, le associazioni, gli enti privati come, ad esempio, una scuola
privata che investe i suoi soldi in certi progetti. Io credo che una possibile strada
sia quella di rinforzare le diversità discutendo insieme cosa fare.
Purtroppo ultimamente il problema principale nella cultura è la carenza di fondi.
Il problema dei soldi è reale. Come operatori culturali possiamo far sentire la
nostra voce, protestando nei luoghi pubblici, come internet o le piazze fisiche,
che è sempre la cosa migliore. Ma possiamo anche dare vita a delle iniziative, come
quella del Teatro Valle a Roma: quello che stanno facendo loro è importantissimo
perché stanno offrendo un modello alternativo di proposta culturale, ed è così che
si dovrebbero comportare anche le piccole istituzioni. Quelli del Teatro Valle non
hanno soldi e non fanno spettacoli, però intanto propongono un modello diverso di
organizzazione, e stanno anche facendo dei progetti per il futuro: per esempio stanno
stilando, con l'aiuto di alcuni giuristi, un nuovo statuto per diventare un nuovo
ente.
I piccoli operatori culturali che hanno sempre meno soldi, forse, invece che chiudere
dovrebbero fare poco, stringere i denti e resistere. Perché quando chiudi poi non
riapri, oppure riapri con un'altra foggia, un'altra forma, un'altra finalità, e
allora vuol dire che un ciclo si è chiuso e quelle finalità e quel modo di fare
non funzionano più.
Comunque la crisi può essere anche una buona opportunità per cambiare, per ripensare
a se stessi e alla propria identità culturale.
E all'estero invece? La situazione è la stessa?
Non ho una particolare conoscenza di ciò che succede all'estero, ma da un punto
di vista didattico, e di riflesso anche concertistico, c'è una forte tendenza all'uniformazione.
Una volta era diverso; oggi che uno studente si iscriva al conservatorio di Parigi,
a quello di Amsterdam o a quello di Berlino segue lo stesso curriculum. Poi può avere
un insegnante più o meno bravo, e avere più o meno opportunità di suonare, però
la formazione finale è la stessa. E comunque i problemi che ci sono in Italia si
trovano anche all'estero: per esempio, a Berlino ci sono tantissimi club dove si
suona musica di qualsiasi genere, ma non ti pagano.
Attualmente alcune situazioni musicali riescono ad andare avanti solo perché sono
viste in una chiave europea: ad esempio, la Cooperativa del Gallo Rojo funziona
perché i musicisti che ne fanno parte hanno la possibilità di pensarsi europei senza
localizzarsi in un posto preciso, cioè si spostano e vanno a suonare dove ci sono
le opportunità lavorative, mantenendo una realtà che è stilistica, e non più geografica;
e questo è uno dei modi per sfuggire probabilmente a questa tendenza all'appiattimento
generale.
Visto che tu sei direttore artistico sia del Metastasio Jazz di Prato che di
Chieti in Jazz, quali sono i reali problemi con i tagli che sono stati fatti alla
cultura?
Fortunatamente per i seminari di "Chieti in Jazz" siamo sostenuti da una fondazione
bancaria che è meno soggetta alle oscillazioni della politica, e quindi possiamo
contare su una certa continuità di programmazione. Comunque anche a noi quest'anno
hanno chiesto, come a chiunque altro, di effettuare dei tagli, per cui non siamo
riusciti a fare delle cose che avevamo in programma.
E invece al Teatro Metastasio di Prato?
Al Teatro Metastasio succede esattamente il contrario. C'è una forte sofferenza
che è legata a tanti aspetti, tra cui il cambio del consiglio di amministrazione
e della direzione, che vuol dire, in un certo senso, ricominciare sempre da capo
nei rapporti personali. In più il Metastasio è un teatro che per statuto deve produrre
prosa con determinati criteri e soglie di attività, altrimenti non riceve i finanziamenti.
Tenere dei concerti di musica jazz è solo un fiore all'occhiello che accontenta
una gran parte di pubblico molto fedele. Da circa quindici anni programma jazz e
quindi è una realtà che non può essere ignorata, però se il Metastasio riceve molti
meno soldi per le sue attività istituzionali, è chiaro che le attività non istituzionali
ne risentono. Adesso stiamo preparando il programma per il
2012 e vedremo cosa succederà con il budget che abbiamo proposto.
C'è una grande incertezza dovuta a tutti questi fattori, però questo non vuol dire
rinunciare a fare le cose; magari è l'occasione per chiamare un musicista a cui
non avevi mai pensato perché fa qualcosa di diverso. Oppure fai le cose in produzione
con un'altra realtà, come facciamo noi con il "Musicus Concentus" di Firenze, con
cui lavoriamo da tempo. Insomma ti ingegni in modi creativi, magari affiancandoti
a qualcuno: questa è una delle soluzioni chiave.
In questo periodo di crisi devi riuscire a trovare la "famosa" idea che deve fare
la differenza. A volte non è neanche complicata da realizzare, magari è talmente
banale che all'inizio non ci avevi neanche pensato.
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Data pubblicazione: 08/01/2012
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