Questo saggio, è stato pubblicato nel volume:
A.A.V.V., La comunicazione politica, a cura di Fabizio Billi,
Milano, Edizioni Punto Rosso, 2001.
Le Lotte, il Rock e…il Jazz Politico
Sono un nero e un jazzman…E, come Nero e jazzman mi sento miserabile
Ornette
Coleman
In principio era l'America. Per gli osservatori attenti, i reazionari
anni Cinquanta del benessere e del conformismo anticomunista avevano già mostrato
almeno due spie rosse della ribellione che sarebbe esplosa nel decennio successivo:
in letteratura il beat e in musica il bebop. Due forme d'arte che si muovevano nello
stesso ambiente di outsiders e avevano ampiamente manifestato il loro disappunto
sociale nelle proprie opere, non a caso contigue e sotto influenza reciproca. Norman
Mailer nel saggio Il negro bianco (1957)avrebbe definito la filosofia degli
hipsters intrisa di jazz in contrapposizione frontale alla morale borghese
degli square, anticipando alcuni temi a venire [1].
Solamente gli anni Sessanta videro il dischiudersi a catena di quei sintomi, in
una vera febbre rivoluzionaria: marce e movimento per i diritti civili, liberazione
della popolazione nera, fermenti giovanili, nuova cultura underground. E ancora:
il tributo di sangue versato da Malcolm x, Che Guevara e Martin Luther King, l'occupazione
dei campus repressa dall'establishment nel sangue, la protesta contro la guerra
in Vietnam, l'esasperazione e la conseguente radicalizzazione del Black power, il
dissenso studentesco e quello accademico (con figure come Noam Chomsky che stigmatizzavano
l'avventurismo guerrafondaio americano, proponendo una inedita agenda morale per
gli intellettuali contro i nuovi mandarini filo-governativi).[2]
La nuova sinistra americana (New Left, definizione di Wright Mills), rompeva
con la tradizione dei partiti comunisti e socialisti, con le organizzazioni partitiche
di tipo leninista. Terzomondismo, forme partecipative di massa, ribellione anticapitalista,
rifiuto in blocco dell'American way of life. Ecco i capisaldi di un quadro
dove manca, unica differenza sostanziale, un riferimento forte verso la classe operaia,
ben presente invece nella Nuova Sinistra europea. La somiglianza tra i due movimenti
giovanili in America ed in Europa si trova invece nell'essenziale riferimento alla
lotta contro l'oppressione in Algeria, in Vietnam o a Praga, nel forte afflato anti-sistema,
nella ribellione spontanea giovanile, nel romanticismo rivoluzionario esotico, latinoamericano
o asiatico che fosse.
Una somiglianza ancora più marcata
sul versante culturale: l'America esporta controcultura nelle arti performative
e visuali, nel cinema e soprattutto in musica: dal folk di protesta, al blues revival,
al rock psichedelico e pacifista della costa ovest, all'apoteosi utopica di Woodstock,
dove Jimi Hendrix riassume su di sé tutto l'esprit du temps martoriando l'inno
The Star-spangled banner, per arrivare alle avanguardie e al jazz. Data tanta
ricchezza, risulta difficile per i giovani sfuggire a un qualche modello musicale
made in USA [3].
Un America bifronte, che mentre incarnava il simbolo di "aggressore
capitalista", mostrava anche al mondo un movimento di massa pacifico che la contestava,
e "sentiva" agitarsi dentro una musica come il jazz, patrimonio dei neri e degli
oppressi, in grado di simboleggiare profondi valori sociali. Rap Brown, presidente
del SNCC dal 1967 e poi leader del Black Panther
Party, diceva: "Ogni individuo nero appartiene al movimento, anche se non ha
preso parte alle dimostrazioni. Le vite dei Neri sono politiche, perché il popolo
nero conduce una lotta incessante contro il bianco…"
[4]. La politicizzazione dei neri è inevitabile, sotto la pressione
di condizioni sociali di profonda disuguaglianza. I musicisti non si sottraggono
all'influenza della politica e dopo anni di lotte per i diritti civili la presa
di coscienza che riguarda l'universo nero, dalle chiese, agli studenti, ai ghetti
non può non essere raccolta dal jazz, che di questo progresso culturale è sempre
stato parte. La presenza di un terreno di lotta, ha però permesso a molti jazzmen
di concepire la loro musica all'interno di un quadro di riferimento nuovo nel mosaico
delle varie attività sociali. Il jazz si lega alle forze rivoluzionarie, ai movimenti
di protesta e di liberazione, trova la forza di rifiutare simboli borghesi dell'arte
(l'isolamento e la maledizione dell'artista), che avevano giocato uno ruolo importante
nell'esperienza del bebop, il jazz anni Quaranta. Un aspetto mai abbastanza chiarito
si palesa nell'inedito legame ricercato dal musicista nero con un certo tipo di
pubblico: la consapevolezza razziale acquisita grazie alle parole di Malcolm X e
dei suoi continuatori, motiva l'artista di colore a produrre per "la sua gente",
come si evince dalle dichiarazioni di moltissimi jazzmen.
Le affermazioni di
Archie Shepp
illuminano questa nuova filosofia jazz: "Il musicista nero è un riflesso del
popolo nero, in quanto fenomeno culturale e sociale. Il suo scopo deve essere quello
di liberare, sul piano estetico e sociale l'America dalla sua disumanità. Penso
che proprio i neri attraverso la violenza delle loro lotte, sono l'unica speranza
di salvare l'America"[5]. Da una parte il jazzista socialmente attivo si sente
finalmente "compreso", d'altro canto gli stessi politici e intellettuali citano
il jazz come esempio paradigmatico di manifestazione culturale autenticamente nera,
arma di propaganda dei nuovi valori che finalmente gode del riconoscimento della
cultura bianca che ha metabolizzato –o americanizzato- moltissime esperienze musicali
nere dallo stile new orleans al bebop. Quando Stokely Carmichael afferma:
"La musica di
Archie Shepp
è la grande bellezza nera del potere nero", aggiunge al valore intrinseco di
protesta presente nella musica di Shepp, un ulteriore senso di acquisizione culturale
alla lotta dei neri, individuando nella sua musica un'altra manifestazione del potere
nero. Gli anni Sessanta, grazie alla spinta del movimento delle masse di colore
e dell'azione di intellettuali "neri" come Leroi Jones o Ron Karenga, videro la
nascita in molte facoltà universitarie dei Black Studies, la cui origine
si poteva trovare nell'esortazione di Malcolm X a studiare la storia nera occultata
per secoli dalla cultura bianca e nella volontà dei Muslims di creare centri
di studio sulla civiltà africana e sulla religione musulmana. Definito Nazionalismo
Nero, questo movimento vedeva nel recupero di valori marcatamente neri un momento
necessario dello sviluppo della lotta degli afroamericani, quello della battaglia
sul terreno ideologico.[6] Questo ammaestramento fu raccolto dall'avanguardia: un'arte
immediata e in grado di trascendere il suo ruolo di opera fruibile dal solo lato
estetico per caricarsi di una valenza politica concreta. Questo è appunto il discorso
portato avanti da Max Roach. Il massacro di Sharperville in Sudafrica portò il batterista
di colore a comporre un'amara riflessione musicale su quel terribile episodio di
sangue e sulla generale condizione di subalternità della gente nera in Africa e
in America. Ne venne fuori una suite tematica che fin dal titolo non lasciava dubbi
sulla qualità del messaggio politico: We Insist! Freedom Now Suite. La vera
novità del 1960 è però Free Jazz di
Ornette
Coleman; le note di copertina che accompagnano il disco spiegano quanto
di nuovo ci fosse nella musica proposta. "Coleman ha detto che una delle idee
basilari nella sua musica è di incoraggiare l'improvvisatore ad essere più libero,
a non obbedire ad accordi-tipo preconcepiti allo scopo di immettere le idee di una
corretta armonia e tonalità: proviamo a suonare la musica e non lo sfondo. Tuttavia,
il suo punto di vista è principalmente emozionale ed estetico, non tecnico. La musica
dovrebbe essere una diretta e immediata espressione delle nostre menti e delle nostre
emozioni piuttosto che uno sfondo per l'emozione"[7]. Coleman chiede ai musicisti
di abbandonare le norme stilistiche che avevano regolato il jazz precedente, anche
moderno. L'improvvisazione non è più fondata su sequenze di accordi, respinge la
logica occidentale di armonia. Gli interventi solistici non obbediscono ad una stretta
sequenzialità: i musicisti sono liberi di improvvisare contemporaneamente; seguendo
una loro particolare ispirazione o dialogando con le altre voci e creando un accompagnamento
polifonico. L'assolo (qui, come in precedenza nell'arcaico jazz new orleans)
è semplicemente un cambio della guardia nei musicisti guida che si alternano nel
flusso improvvisativo. Forme e idee sembrano emergere, durante l'esecuzione, dal
"caos agitato" prodotto dalla ritmica che esegue una pulsazione continua svincolata
da ogni regola metrica. E' significativo che Coleman abbia scelto per copertina
del vinile il dipinto White light di Jackson Pollock, il caposcuola dell'Action
painting americana. L'arte informale di Pollock parte da presupposti molto vicini
a quelli del free jazz: liberare la creatività sepolta nell'inconscio come già avevano
sperimentato in precedenza le avanguardie surrealiste europee. "L'arte per Pollock,
perde dunque le sue finalità conoscitive, diventa un atto di violenta, rabbiosa
partecipazione, una testimonianza del malessere in cui vengono a trovarsi le nuove
generazioni"[8]. Queste parole, riferite al pittore, possono essere estese al
free. La rottura dell'unità del linguaggio tradizionale operata da Coleman si muove
in sintonia con i movimenti dell'avanguardia. Il free, come il bebop negli anni
Quaranta e la coeva esperienza di Pollock, sconfinano dal piano artistico al terreno
ideologico. Per il free si deve parlare da subito di azione di "resistenza culturale":
il sistema di valori dell'America kennediana viene rigettato assieme alle concezioni
artistiche che hanno fatto deviare il jazz dal suo corso come musica di una comunità
oppressa. Quindi, se è vero che il free non nacque politico, va detto che gli stessi
musicisti si resero quasi immediatamente conto che la musica e le concezioni estetiche
che elaboravano costituivano anche una reazione all'opera di espropriazione condotta
dal mercato su tutto il jazz precedente; e nello stesso tempo un atto di affrancamento
culturale, in sincronia con le lotte politiche che la comunità nera stava conducendo.
[1] Norman Mailer, Pubblicità per me stesso, Milano, Baldini
Castoldi Dalai, 2009.
[2] Noam Chomsky, Cosa fanno le teste d'uovo, Bari, De Donato, 1967, pp.5-10. Chomsky,
in questo pamphlet del 1967, di ampia circolazione negli ambienti radicali dell'epoca,
denunciò la politica asiatica di Johnson e, come avrebbe poi sempre fatto, il potere
di mistificazione dell'apparato propagandistico governativo, individuando per l'intellettuale
il compito di smascherare le falsificazioni di coloro che definiva "i nuovi mandarini".
[3] Sul "recupero" della ribellione rock al mercato capitalistico e il rapporto
tra musica pop/rock e controcultura hippie si può leggere il bel testo, oggi forse
datato nella impostazione di Massimo Bassoli, Rock&roll Marx, Milano, Gammalibri,
1981.
[4] Rap Brown, Muori schifoso negro, muori!, Milano: Longanesi, 1971, p.93.
[5] Citato in Philippe Carles e Jean-Louis Comolli, Free jazz Black power, a cura
di Giorgio Merighi, Torino, Einaudi, 1973 p.29.
[6] Giampiero Cane, Canto nero, Bologna, Clueb, 1982, p.109.
[7] Ornette Coleman, Free jazz.A collective improvisation. Atlantic, 1960. Note
di copertina di Martin Williams. Traduzione mia.
[8] A.A.V.V., Storia dell'Arte italiana, diretta da Carlo Bertelli, Giuliano Briganti,
Antonio Giuliano; Milano, Electa, 1988, p.436. Su Pollock vi si legge: "Il movimento
della mano dell'artista creava un intricato insieme di linee sulla superficie, secondo
un ritmo più o meno convulso che è stato paragonato con qualche ragione a un brano
di musica jazz". Ecco il gesto creativo che non subisce mediazioni post-factum.
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
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Data ultima modifica: 27/04/2014
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