L'influenza della Civiltà Musicale Afro-Americana
nell'Italia dell'immediato secondo dopoguerra
di Matteo Pagliardi
La musica afroamericana, che dai Caraibi si estende al sud e al nord del
continente, è sinonimo, per sua stessa natura, di fusione tra musica araba, ebraica
e celtica, tra tradizione mediterranea e Africa, e tra oralità e scrittura, parlato
e cantato. Questi elementi interni al proprio linguaggio consentono la permeabilità
in vari ambiti nazionali, e la rifunzionalizzazione nella società contemporanea
di concezioni del tempo musicale, strutture formali, e tecniche vocali di ambito
prettamente folk.
L'Italia della ricostruzione ha goduto dei vantaggi, anche in ambito musicale,
dell'aggiornamento culturale seguito all'avanzata delle truppe degli Alleati sul
territorio. Il jazz, la forma sonora afroamericana più nota e diffusa nel nostro
paese negli anni del dopoguerra,
ha
riscontrato una forte ripresa di interessi e di conoscenze. Lo swing era presente
nel repertorio delle più importanti orchestre di ballabili della penisola da almeno
una ventina d'anni,
e
la canzone italiana lo aveva assimilato più o meno inconsciamente
[1] dando vita al genere cosiddetto «swing all'italiana».
Esso era stato reso celebre negli anni della guerra e ancor prima, principalmente
da autori quali Carlo Alberto
Rossi (Nun
è peccato
, o
Mister Jazz
),
Giovanni D'anzi (Milano, 1 gennaio 1906 - Santa Margherita
Ligure, 15 aprile 1974) (Ma le gambe,
o Quando canta Rabagliati), e
Gorni Kramer (autore molto fecondo, qui basti ricordare
Pippo non lo sa
cantata dal
Trio Lescano, o Ho un sassolino nella scarpa,
resa celebre da Natalino Otto (Natale Codognotto, Cogoleto,
Genova 1912 - Milano 1969)). Pur tuttavia tale genere musicale è riuscito
a diffondersi liberamente e pienamente soltanto dopo la caduta del fascismo.
"Il jazz è impensabile senza un ambiente circostante, senza la società nella
quale vivono i musicisti, senza il tempo in cui si trasformano i suoi stili, senza
i ghetti in cui sono cresciuti così tanti musicisti. In questo cammino parallelo
tra antropologia e cultura musicale assume un grande rilievo il modo come una cultura
valuta e stima la propria produzione musicale, sia essa in funzioni cerimoniali,
rituali, comunicative che in funzioni estetiche" [2].
La
reazione al regime ha comportato da un lato la condanna dello stile di vita americano,
fondato sulla mercificazione della cultura e dell'arte, dall'altro la libera circolazione
di dischi [3], complessi, e (cosa ancor più
importante per la diffusione del genere) di trasmissioni radiofoniche che diffondevano
in tutta Italia la nuova musica afroamericana.
La necessità di far ripartire nel più breve tempo possibile l'attività
di trasmissione radiofonica ha portato alla nascita di nuove emittenti locali, alternative
ai due grandi nuclei Milano-Torino-Genova e Roma-Napoli-Palermo, ma a questi collegate.
Dal 1946 erano nate la Rete Azzurra e
la Rete Rossa, le quali, ispirandosi all'emittente NBC americana, alternavano
la programmazione diffondendo tanto opera, musica colta e teatro (per lo più commedie
e drammi popolari), quanto jazz e musica leggera in genere (italiana e straniera).
La Rete Rossa estendeva la propria fascia a tutta l'Italia Centro-meridionale,
e dipendeva dalla Direzione Programmi di Roma; la Rete Azzurra trasmetteva in tutto
il Nord e faceva capo a Torino. La prima edizione unificata si ha soltanto nel
1947 [4].
Il jazz e il derivato latin-jazz, nonché pochi brani, per lo più commerciali,
di musica caraibica, sono le sole forme musicali afroamericane che sono giunte dalle
suddette stazioni, e in dosi veramente scarse [5].
Lo swing non è sparito improvvisamente, esso è stato assimilato lentamente
dalla canzone leggera: Dal 1951 lo swing cantato
e "all'italiana" ha ceduto il passo alla canzone del nuovo Festival di Sanremo,
canzone che mostra una stretta continuità contenutistica e formale con il genere
"leggero" radiofonico.
Se scarsa è stata la programmazione radiofonica di musica afroamericana
dalla fine degli anni quaranta sino alla prima metà del decennio successivo, non
altrettanto si può dire delle riviste musicali. Le poche a sopravvivere sono state,
però, Musica Jazz (all'epoca Musica e Jazz), fondata da
Giancarlo Testoni e Arrigo Polillo nel 1945,
e Ritmo, fondata da Gianfranco Madini negli anni cinquanta.
Gli hot club, i circoli di appassionati e sostenitori dello swing
prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, si sono riuniti nella Federazione
Italiana Del Jazz (FIDJ), con sede a Milano, e hanno trovato come organo di
diffusione e sponsorizzazione proprio la rivista Musica Jazz.
"Manca ancor oggi un panorama globale degli hot club. Vi sono solo studi regionali,
per lo più tesi di laurea" [6].
Tale lacuna si somma a quella ancora più vasta e grave relativa alla discografia,
ed in particolare a quella che esula dal contesto stretto del jazz
[7] (molto del quale, soprattutto agli inizi,
era blanda imitazione del tardo swing e del primo bebop d'oltreoceano). Non sono
per nulla studiati e documentati gli stili vocali barbershop e il doo-wop,
ad esempio, forme tipicamente afroamericane che pure hanno reso famosi complessi
nostrani, ora celeberrimi in Italia e all'estero, quali il Quartetto Cetra
o il Trio Lescano [8].
Lo stesso stile jazzistico bebop, con le proprie armonie aspre e alterate,
e temi difficilmente orecchiabili e riproducibili, non è stato ben accolto; soltanto
qualche matrice discografica di pochi jazzisti coraggiosi testimonia l'avvenuta
assimilazione del genere nel nostro paese. Ecco un raro esempio documentato:
"Ci riferiamo a Picchiando in be-bop,
inciso dall'orchestra Kramer [9],
solista Enrico Cuomo alla batteria.
Si tratta di uno dei primi esempi in assoluto di jazz italiano nel nuovo idioma.
[…] Kramer non solo non sembra temere l'irruzione del nuovo idioma, ma anzi è tra
i primi ad afferrarne l'importanza. Egli si fa così carico di un rischio storico
cui non era affatto obbligato e ne esce vincente" [10].
Uno dei pochi musicisti ad avere avuto il coraggio di incidere un brano
bebop con l'esplicita intenzione di farne un manifesto per l'Italia (poco propensa
ad accogliere le istanze della musica afroamericana contemporanea) è stato Enzo
Ceragioli, cugino di Natalino Otto: in passato era stato uno dei grandi
virtuosi dello swing, negli anni cinquanta si è rimesso in discussione incidendo
Bopping: la partitura del brano e l'esecuzione
pianistica risultano impeccabili all'ascolto, ma purtroppo l'esperimento è riuscito
solo in parte, in quanto gli altri solisti che hanno suonato nel brano si sono rivelati
poco adatti a destreggiarsi con i complessi cambi armonici e le figure ritmiche
accelerate tipiche del bebop.
La sfida artistica di un musicista della caratura di Ceragioli
è risultata per diversi anni priva di un seguito degno di menzione, almeno in ambito
jazzistico.
Desolante
lo stato attuale degli studi in ambito rhythm and blues: artisti fondamentali per
la nascita del futuro rock and roll e della prima canzone d'autore sono tuttora
ignoti agli studi musicologici: Ghigo Agosti, ad esempio, padre degli "urlatori"
italiani, personaggio eclettico, teatralmente creativo, e ottimo musicista di estrazione
jazz. Nel 1954 egli entra a far parte dell'Hot
Club di Milano, e là, con alcuni amici jazzisti, fonda la band Ghigo e gli Arrabbiati,
che vede esordire alla chitarra un Giorgio Gaber giovanissimo, il quale si
fa notare per la propria tecnica chitarristica eccelsa (tutto ciò molto prima della
nascita del virtuosismo rock anche negli Stati Uniti). Ghigo comincia ad
anticipare di alcune stagioni la rivoluzionaria formula musicale che darà vita in
Italia al nuovo dirompente fenomeno giovanile: il rock and roll.
A
riprova della grande importanza dell'influenza della musica afroamericana italiana
negli anni del dopoguerra, basti citare un fatto eloquente: Nel
1949 Armando
Trovajoli, celebre compositore ed esecutore italiano, è stato chiamato
a rappresentare l'Italia all'importante Cinquantenaire du Jazz presso il
Salon du Jazz di Parigi, vetrina dei più grandi talenti e innovatori europei
in ambito jazzistico, che ha ospitato proprio in quell'anno pionieri del calibro
di Gerry Mulligan, Max Roach, e Sidney Bechet.
Quella presente vuole essere una panoramica sulla grave mancanza di studi
approfonditi in Italia sul fenomeno dell'arte musicale afroamericana postbellica.
Un esame attento e approfondito della musica cosiddetta "leggera" (termine
improprio, che in realtà nella maggior parte dei casi include una buona fetta di
musica proto-rhythm and blues [11], il jazz
sperimentale, cantato e non, le riuscitissime contaminazioni tra bebop, ragtime,
canzone napoletana e tardo swing [12]), non
è ancora stato effettuato. Le incisioni discografiche analizzate sono ancora adesso
scarse e riguardano prevalentemente gli ambiti del jazz tradizionale, con qualche
eccezione (il volume citato in nota di Salvetti e Antolini, e il fondamentale
Jazz inciso in Italia di Barazzetta [13]).
Un vuoto ancora incolmato, dal punto di vista dell'analisi discografica, è rappresentato
delle forme vocali e strumentali più "popolari" della musica nera americana giunta
nel nostro paese.
Bibliografia:
Baldazzi, G., La canzone italiana del Novecento, Newton Compton, Roma
1989.
Barazzetta, G., Jazz inciso in Italia, Messaggerie Musicali, Milano 1960.
De Stefano, G., Trecento anni di jazz, 1619-1919: Le origini della musica afro-americana
tra sociologia e antropologia, SugarCo, Milano 1986.
Mazzoletti, A., Il jazz in Italia, dalle origini alle grandi orchestre Edizioni
Edt, Torino 2004.
Salvetti, G., Antolini, B. M., Italia Millenovecentocinquanta, Edizioni Angelo Guerini
e Associati Spa, Milano 1999.
Savona, A. V., Gli indimenticabili Cetra, Edizioni Sperling & Kupfer, Milano 1992.
Spataro, G., La radio italiana dalla liberazione ad oggi, RAI, Torino 1947.
Periodici:
Radiocorriere, Edizioni per l'Italia Centro-meridionale, II, Roma 1946.
[1] Cfr. G. Baldazzi, La canzone italiana del Novecento,
Newton Compton, Roma 1989.
[2] G. De Stefano, Trecento anni di jazz, 1619-1919: Le origini della musica afro-americana
tra sociologia e antropologia, SugarCo, Milano 1986.
[3] Nel biennio 1943-44 era stata di fondamentale importanza per la diffusione della
musica americana, l'invasione dei V-Discs, o Dischi della Vittoria, incisi appositamente
per le truppe militari statunitensi e presto giunti in mani italiane proprio all'indomani
della vittoria sul nazifascismo.
[4] Cfr. G. Spataro, La radio italiana dalla liberazione ad oggi, RAI, Torino, 1947.
[5] D'altra parte il pubblico dell'epoca dimostrava di non interessarsi molto al
jazz: da un'inchiesta condotta nel 1946 dal Servizio opinioni della Rai sulle preferenze
di un campione di ascoltatori della provincia di Roma, risulta che: il 96% degli
intervistati preferisce le canzoni, l'83% i ballabili, il 78% le riviste, il 69%
le opere, il 62% le romanze, il 51% le operette, e solo il 40% il jazz (Radiocorriere,
Edizioni per l'Italia Centro-meridionale, II, 20, Roma 18 maggio 1946, p. 10).
[6] G. Salvetti, B.M. Antolini, Italia Millenovecentocinquanta, Edizioni Angelo
Guerini e Associati Spa, Milano 1999.
[7] Ben documentato dall'ancora attualissimo saggio di Giuseppe Barazzetta: Jazz
inciso in Italia, Messaggerie Musicali, Milano 1960.
[8] Sul Quartetto Cetra esiste un ottimo saggio monografico: Gli indimenticabili
Cetra, di Antonio Virgilio Savona, edito dalla Sperling & Kupfer, Milano 1992. Sul
Trio Lescano ancora manca uno studio approfondito. In generale ben poco si sa del
panorama vocalico italiano ispirato alle tradizioni nere americane nel dopoguerra
e nei primi anni cinquanta.
[9] Gorni Kramer [N.d.a.]
[10] G. Salvetti, B.M. Antolini, Italia Millenovecentocinquanta, p. 312.
[11] Si consideri ad esempio il caso degli "urlatori" che hanno avuto grande successo
in Italia alla fine degli anni cinquanta.
[12] Non si può qui non menzionare la geniale originalità del Renato Carosone di
Caravan Petrol, o di Pianofortissimo.
[13] Ho escluso volutamente un altro volume imprescindibile per lo studio del jazz
in Italia (il quale contiene per di più un'ottima analisi discografica delle fonti
d'epoca), ossia Il jazz in Italia, dalle origini alle grandi orchestre di Adriano
Mazzoletti, Edizioni Edt, Torino 2004, poiché tratta per sommi capi, e a guisa di
epilogo, la storia musicale jazzistica italiana dalla fine degli anni quaranta in
poi.
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COMMENTI | Inserito il 11/12/2015 alle 23:19:56 da "seba.comis" Commento: Ricordo perfettamente questi versi: sei tu/che mi porti con la jeep a ballar/sei tu/che mi dai la cocaina per dormir. Sono di una canzone del 1945 o 46, evidentemente si riferiva a una relazione con un militare americano, ma nessuno sembra averla sentita. Qualcuno la conosce? Sebastiano Comis, Pordenone | |
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Data pubblicazione: 17/02/2007
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