"Suoni, parole e ritmi dal mondo"
III Edizione Villa Bombrini di Genova Cornigliano marzo aprile 2012
Riccardo Arrighini piano solo e Filarmonica Sestrese
Teatro "Verdi" di Sestri Ponente - 19 marzo 2012
di Gianni Montano e Andrea Gaggero foto di Carmelo Calabria
Una menzione speciale e grande plauso all'Associazione genovese "Lighthouse Jazz",
che da 12 anni svolge una preziosa attività di promozione della cultura musicale
(jazz in particolare) nel capoluogo ligure. In tutti questi anni l'associazione
è riuscita ad organizzare rassegne di elevata qualità ed originalità, ad ingresso
gratuito, a fronte di risorse economiche modeste e di una grande determinazione
e smisurati passione ed impegno.
Il festival primaverile 2012
si articola in cinque date a cadenza settimanale; elemento unificante è la scelta
della formazione "cameristica" del duo. Straordinario il sito scelto per i concerti,
quella Villa Durazzo-Bombrini, a Cornigliano, che rimane uno dei più begli esempi
di architettura residenziale settecentesca in tutta la Liguria. La scelta di concerti
"in acustico" resa possibile dalle dimensioni e conformazione spaziale della sala
contribuisce al carattere cameristico della proposta. Non possiamo qui, purtroppo,
render conto del primo appuntamento, tenutosi in febbraio, che vedeva ospiti Javier Girotto
e Luciano Biondini.
Il secondo duo a Villa Bombrini è lo "Stravagario" formato da Stefano
Battaglia(pianoforte, pianoforte preparato) e Michele Rabbia (percussioni).
I due realizzano un'improvvisazione assoluta della durata di circa novanta minuti
in cui succede praticamente di tutto. Michele Rabbia percuote ogni tipo di superficie,
ricavando suoni primitivi, ritmi ancestrali, andando all'origine della musica per
fabbricare un qualcosa che è già nel futuro. Proviene da un passato molto lontano,
infatti e si proietta in avanti. Fra l'altro il batterista usa una specie di sedile
di gomma come cassa di risonanza. Suona i bongos con le bacchette. Si avvale di
una sega e di un archetto. Scompone e ricompone ritmi con campanacci e campanelli.
Opera
con le mani su un piatto sospeso. Usa le spazzole su un timpano. La sua ricerca
timbrica non è, però, mai fine a sé stessa. E' straordinariamente musicale al 100%
in ogni passaggio.
Stefano Battaglia dovrebbe rappresentare la cultura occidentale, rispetto al patrimonio
africano e tribale di competenza del partner. In verità pare che la sua intenzione
sia del tutto opposta. Il pianoforte suona, infatti, una musica semplice e percussiva.
Spesso i motivi inventati sul momento, sono composti da Michele Rabbia e il pianista
ne segue le intenzioni in maniera extra-colta e dichiaratamente antimelodica, fornendo
un accompagnamento del tutto svincolato dal lirismo o da eventuali retaggi tardoromantici.
Siamo lontani dalle atmosfere care a Jarrett e De Johnette, per intenderci. Qui
è tutto più selvaggio e selvatico, ma c'è da rimanere conquistati da questo viaggio
alle origini della musica fatto da chi vuole dimenticare (consapevolmente) certi
fardelli di conoscenza e determinati cliché. Per distanziarsi ancora di più dal
ruolo di pianista-pianista, Battaglia utilizza una serie di piccoli piatti, una
sorta di vibrafono giocattolo, un glockenspiel, ottenendo risultati stupefacenti.
Grandi e doverose ovazioni alla fine per un duo di questo valore.
Il terzo concerto della rassegna vede in scena Dimitri Grechi Espinozae Tito Mangialajo Rantzer , in tour dopo aver pubblicato il cd "When
we forgot the melody", uscito da pochi mesi. Il concerto ricalca lo spirito
del disco, la volontà dichiarata di "rivitalizzare" un repertorio "classico" o di
proporre brani originali ispirati alla tradizione, in particolare al jazz bianco
dei primi anni cinquanta. I due musicisti ridanno vita ad atmosfere tendenti verso
il cool, infatti, con il suono rilassato e discorsivo del sax alto, accompagnato
da un contrabbasso che non incalza, non spinge verso climi caldi o agitati, ma completa
il quadro con toni delicati e raccolti, mai sopra le righe. Fra gli standards eseguiti
si apprezzano una versione piuttosto secca, non lirica di "When I Fall In
Love", una pregevole "My favourite Things" e una "Hello
Dolly" tutt'altro che festosa, sempre soffice e meditativa.
Sorprende questa pausa di riflessione nel percorso di due musicisti orientati abitualmente
verso la ricerca. Ascoltandoli dal vivo si comprende che il loro "ritorno alla tradizione"
è sincero e convinto. Il pubblico riserva una buona accoglienza a questa serata
prettamente jazzistica di una rassegna per il resto dai molti volti e suggestioni.
(GM))
Il quarto appuntamento ha perprotagonisti Daniele D'agaro(clarinetto, sassofono tenore) e Paolo Botti (chitarra resofonica, dobro,
viola).
Suoni radi della chitarra tenore che viene intonata, a cui si succedono accordi
ripetuti sui quali D'Agaro intona lo splendido, elingtoniano Azure,. Il suono
limpidissimo, la grande cura del dettaglio, la memoria di Bigard e Hamilton, l'intelligenza
e levità nel mischiare storia e contemporaneità rivelano la vicinanza del musicista
alla scuola olandese con la quale ha intrattenuto fruttuosi rapporti.
A seguire arrivano i monkiani "Locomotive"/"Friday The Thirtheenth"
per clarinetto e dobro, dove i ruoli si invertono e il clarinetto fornisce la base
ritmico-armonica sulla quale il dobro espone il tema.
L'uso del bottleneck conferisce alla musica un colore di blues rurale inconfondibile
e così diversi brani sono giocati sul contrasto timbrico con il suono cristallino
del clarinetto, strumento della tradizione euro colta e insieme, per tramite bandistico,
strumento jazzistico per eccellenza. Torna così alla mente Duke Ellington quando
fu costretto all'impiego di due clarinettisti per provare a sostituire l'assenza
di Barney Bigard. Il programma prevede, poi, un altro meraviglioso tema, "Pannonica",
reso con infinita eleganza e dolcezza; qui la chitarra tenore mostra i suoi limiti,
di volume, dinamica ed attacco non riuscendo a rendere appieno le angolosità e la
densità ritmica della musica monkiana. Nel brano seguente, per viola e clarinetto,
forse interamente scritto dopo le raffiche di note dello strumento ad ancia che
stabiliscono un nuovo e diverso ambito sonoro, si prosegue, spigolosi e torrenziali,
su coordinate di tradizione dichiaratamente eurocolta.
Il bel concerto si articola ed è tutto giocato sulle possibili combinazioni degli
strumenti: il clarinetto e il tenore di d'Agaro, la chitarra tenore, il dobro e
la viola di Botti. Con il bottleneck le componenti e il substrato blues della musica
vengono portate in luce e trasformate con toni quasi epici, come nella bellissima
esecuzione dell'ayleriano "Ghosts" da parte del solo Botti al dobro.
Le qualità di Botti nel solo rifulgono e ci aiutano a capire come il duo abbia forse
bisogno di qualche momento di rodaggio e aggiustamento ancora, poiché la qualità
della musica è elevata e i singoli sovente valgono più dell'insieme.
Roberto
Cecchetto (chitarra elettrica) e Giovanni Maier (contrabbasso) suonano
insieme da circa quindici anni. Hanno militato, fra l'altro negli "Electric Five"
di Enrico Rava.
Si capisce che si intendono ad occhi chiusi da come organizzano lo sviluppo dei
vari brani e l'improvvisazione si nasconde, in un certo senso, fra un modo di procedere
apparentemente pianificato a monte. In realtà i due eseguono pezzi tratti dagli
ultimi dischi del chitarrista "Soft wind" e "Down town", ma li arricchiscono
di spunti e variazioni ideati in corso d'opera con un interplay palpabile. Gli interessi
di Cecchetto abbracciano molti generi musicali, dal country allo swing, da motivi
su tempo medio lento in maggioranza, ad altri un po' più vivaci ritmicamente. Si
avverte, nel suo solismo, la cura con cui elabora un fraseggio "arrotondato", privo
di spigoli e "meditato", dove si percepisce, cioè, il carattere razionale di ogni
passaggio. Maier risponde con la sua bella cavata profonda, facendo letteralmente
cantare il suo strumento. Anche quando frega con le unghie sulla cassa armonica
del basso produce musica vera, adatta a rimbalzare sulle sottigliezze introdotte
dallo strumento elettrico.
Il pubblico gradisce questa performance piuttosto singolare rispetto al titolo "Blues
connotation", in cui la musica afroamericana viene evocata e scavata dall'interno
con un approccio introspettivo, rifuggendo dal suono ammiccante, volutamente popolare
o popolaresco.
Serata di gala a Sestri Ponente, al teatro "Verdi" sempre sotto l'egida di "Jazz
lighthouse", a conclusione dei festeggiamenti per i centocinquantanni dell'unità
d'Italia. Sale sul palcoscenico per cominciare Riccardo Arrighini e si occupa
di offrire una veste jazz a celebri brani tratti dalle opere di Giuseppe Verdi.
Si passa dal "Trovatore", al "Nabucco", all'"Aida" con leggerezza, ma non con superficialità.
L'obiettivo è chiaro ed espresso anche annunciando il programma davanti agli spettatori:
"Non c'è una distanza abissale fra il mondo delle opere e la musica afroamericana.
Con un po' di inventiva, di gusto, di attenzione si possono trovare punti di contatto
fra i due generi e dar vita ad un cocktail piacevole e intrigante". Il pianista
suona con passione, brio e competenza, rivelandosi anche buon intrattenitore. Si
segnale particolarmente l'intromissione della gillespiana "Night in Tunisia"
nella lirica "Le tre orfanelle", tanto per far quadrare l'ipotetico cerchio
e dimostrare una volta di più la possibilità di travaso fra due stili solitamente
considerati impenetrabili, come compartimenti stagni. Dopo un'ora e dieci minuti
di piano solo entra in gioco la filarmonica sestrese. I pezzi scelti sono classici
del jazz, da "All the things we are" a "Blue train", da "Perdido",
a "Fly Me To The Moon". Le sezioni sono compatte, intonate,
swinganti e i solisti Matteo Bazzano al sax alto e soprattutto il talentuoso
trombettista Giampiero Lobello si ritagliano spazi di rilievo. In alcuni
momenti viene chiamato in causa anche Riccardo Arrighini che aggiunge il suo contributo
alla banda con una certa umiltà, senza strafare. Si chiude ancora con "Verdi
in jazz"e si ribadisce il concetto che la musica, quando è ben suonata, può
mescolare generi diversi senza tradirli, ma fornendo altre chiavi di lettura di
sicuro effetto.