La figura di Piangiarelli è sicuramente determinante. Il mio rapporto con lui è iniziato nel 2001 quando gli portai il master del disco, ancora senza titolo (sarebbe poi divenuto
These Unfoolish Things, Philology,
2004), che avevo registrato con Ares Tavolazzi e Francesco Petreni. Paolo lo ascoltò, ma sul momento non ne fu pienamente convinto. Dopo un po' di tempo suo fratello Sandro, col quale andava sempre ai concerti, iniziò a metterlo sempre nel lettore cd in auto… ed è stato così che Paolo ha ripreso in considerazione l'idea di farlo uscire con la sua etichetta. Io volevo chiamarlo "These Foolish Things" ma lui non trovava che quelle cose fossero molto "foolish", e dunque cambiò il titolo. Poi mi invitò a suonare a Macerata, e ricordo che quella sera ero talmente emozionato che quasi spaccai il pianoforte! Da lì cominciò a parlarmi di progetti futuri, osservando però che il mio stile era ancora troppo "implosivo", stoppato, avevo così tanta paura di sbagliare che non riuscivo, per tale motivo, ad esprimermi appieno. Con quel concerto avevo dimostrato che sapevo invece essere più… "esplosivo". Così Paolo iniziò a telefonarmi spesso cercando di farmi capire che avrei dovuto «imparare a sbagliare», a non avere tutto questo timore di superare quelli che sapevo essere i confini di ciò che mi rassicurava. È da un paio d'anni, quindi, che io lavoro sullo «sbaglio». Il musicista di jazz, proprio perché studia un linguaggio e un fraseggio ben precisi, rischia di fare semplicemente un collage che, per quanto brillante e ricco di citazioni ben scelte, trasmette poco sul piano istintuale. Fino al 2001 ho portato avanti un'intensa attività didattica, e mi rimaneva poco tempo per lo studio. Ad un certo punto ho deciso di darci un taglio, per poter studiare di più e crescere come musicista. Come ha detto Wynton Marsalis a Francesco Cafiso, studiare sempre è indispensabile perché lo studio ti fa rischiare di più.
M.L.:
Già, Francesco Cafiso…
R.A.: L'incontro con Cafiso è avvenuto perché Maurizio Costanzo
lesse di Francesco su una rivista, per caso, e lo invitò alla trasmissione di Maria De Filippi. Il padre di Francesco chiamò Piangiarelli perché gli organizzasse una ritmica, e Paolo scelse me e il mio trio, con
Stefano Rapicavoli alla batteria e Amedeo Ronga al contrabbasso. Il successo che ne seguì fu strepitoso e Francesco venne invitato ripetute volte, circa otto, di cui una anche in seconda serata al
Maurizio Costanzo Show. Si sono così creati un bellissimo spirito di squadra, una discreta armonia. In seguito Francesco è passato al management di
Mario Guidi e ha suonato per l'Europa cambiando spesso sezione ritmica, il che non lo metteva molto a proprio agio. Così ha chiesto di poter suonare con una ritmica stabile, e ha scelto la mia. Quest'estate avrebbe dovuto suonare a
Umbria Jazz con il grande James Williams, che purtroppo è venuto a mancare. Già a giugno le sue condizioni di salute non erano buone, così lo sostituii nella manifestazione umbra.
M.L.:
E con il tuo trio a quali progetti stai lavorando?
R.A.: Abbiamo molte richieste per il concerto dedicato a
Petrucciani. E poi il mio trio è coinvolto anche nel tributo a Jobim, un progetto nato da un'idea di Piangiarelli al quale lavoriamo da un po' di tempo. Lo registrerò tra pochi giorni e nel 2005 usciranno i quattro cd.
M.L.:
In tutto questo vortice di uscite discografiche e concerti acclamati stai meditando anche progetti futuri?
R.A.: Devo confessarti che ce ne sono ben due. Uno riguarda le musiche di
Giacomo Puccini, di cui sono conterraneo, e l'altro le composizioni di Ennio Morricone. Adoro la melodia, e dunque il loro modo di scrivere. Ho avuto molti «amori» jazzistici, dal blues a
Coltrane a Parker, dal free alle grandi orchestre dixieland e swing, ma non nascondo che i miei principali riferimenti sono stati quei pianisti con un senso della melodia particolarmente spiccato, primo fra tutti Bill Evans, e in seguito
Jarrett,
Petrucciani,
Bley, Taylor. Andando indietro, invece, Oscar Peterson, Wynton Kelly, Red Garland, Fats Waller e ovviamente Duke Ellington. Non si può fare tutto, e la mia scelta è conseguenza della mia passione principale. Che del resto mi accomuna a Paolo (Piangiarelli) e Francesco (Cafiso).
M.L.:
Parlami più a fondo di Francesco e del vostro rapporto umano, oltre che musicale. E dell'attenzione che il mondo gli rivolge: un'attenzione che può esporlo a molti rischi.
R.A.: Parlare di Cafiso è un po' come parlare…. di religione! Ti rispondo con una frase di Danilo Rea, che incontrai al tempo in cui uscì
These Unfoolish Things. Volevo farglielo ascoltare, ma lui non volle il disco. "perché?", gli chiesi. "Perché so già cosa vuoi da me, ma io non posso dartelo. Tu vuoi che io ti dica se mi piace o meno, se sei bravo o meno. Ma preferisco non farlo, è fuorviante. A me può piacere e a un altro no…". Beh, lo stesso posso dirti a proposito di
Cafiso. Per alcuni è un genio, per altri non lo è. Per alcuni è un talento prodigioso che si fermerà, per altri è destinato invece a scrivere pagine importantissime. Premesso questo, posso dirti cosa ne penso io. Mi emoziona tantissimo, mi comunica molto sia a livello tecnico che espressivo, sia dal punto di vista armonico che melodico. È un musicista che suona «da grande», in tutti i sensi. Quando l'ho conosciuto era almeno venti centimetri più basso e con 10-15 chili in più, era un bambino timido e introverso. Ora, nel giro di un anno, è molto più estroverso, si è fatto più «ragazzino» e di sicuro le esperienze che ha avuto occasione di fare lo hanno già trasformato in un grande leader. Non sono l'unico a dire che suonando con lui ci si sente "appoggiati" come ad un pilastro. Qualcuno lo critica proprio perché ne è inquietato. Forse è anche umano provare una punta d'invidia verso tanta naturalezza che scaturisce da una grande tecnica maturata in così pochi anni (ma intensi e qualitativamente particolari). Ci sono due cose di lui che hanno dell'incredibile. La prima è che lui suona sempre per la musica. Nonostante a volte sfoderi così tante note, c'è sempre un disegno, un filo logico. La seconda è che è sempre molto concentrato. Intendiamoci, l'ho visto anche molto stanco, a volte, e l'ho sentito dire "stasera non mi sento per niente lucido"… Ma ci tengo a raccontarti di una sera che stavamo suonando a S. Severino Marche, a luglio, in una piazza con circa duemila persone in religioso silenzio. Durante una ballad, arrivato il momento del mio solo, lui mi si avvicina e mi fa: "Rì, suona col cuore…". Non ti nascondo che lì per lì ho accusato il colpo, è stato un po' destabilizzante. Poi, alla fine del concerto, gli ho chiesto perché mi avesse detto quelle cose. E soltanto allora, in un secondo momento, a concerto chiuso e perché glielo avevo domandato, ha risposto "…stavi suonando troppo tecnico…". Questo è Francesco!
M.L.:
Torniamo al pianoforte, e in particolare al pianoforte come accompagnamento di una voce o un fiato o un ottone…
R.A.: Quando accompagno un solista, cantante o sax o tromba che sia, lo seguo sempre con estrema attenzione. Una delle cose che mi ha insegnato Franco Nesti quando ero molto giovane è proprio quella di metterci la stessa energia che impiego quando sono io il solista. Le variabili da considerare (il tipo di solista, il suo stile, la sua formazione) sono diverse, e a seconda di ogni situazione il mio modo di suonare non può essere lo stesso, dovrà variare di conseguenza. La costante fondamentale, invece, resta la chiarezza armonica. Una cosa che mi insegna un bravissimo accompagnatore come Renato Sellani è che la chiarezza armonica è la cosa più importante, dà sicurezza al solista, che non a caso fa spesso affidamento sul basso proprio perché gli garantisce questa semplicità di riferimento. Parlando di voci, poi, distinguo tra quei cantanti che improvvisano facendo scat e quelli che non lo fanno, ma non è una distinzione di valore, anzi, un cantante può essere bravissimo anche se non improvvisa, pensiamo a Frank Sinatra! Sarah Vaughan disse a Dizzy Gillespie che lo invidiava per come riusciva a fare i soli, e quest'ultimo le rispose "e io ti invidio per come esponi i temi". Il modo in cui un cantante riesce ad esporre i temi è inarrivabile (tranne rarissime eccezioni) per uno strumentista. Di recente, accompagnando una cantante che si chiama Michela Lombardi… la conosci? [sorride]
M.L.:
…col passare del tempo cerco di conoscerla sempre meglio, almeno spero! Vai avanti…
R.A.: Beh, dicevo, accompagnandola le ho sentito presentare ogni canzone spiegando di cosa parla il testo, e… credo che approfondirò sempre di più quest'aspetto degli standards, legato cioè al contenuto delle lyrics. Per suonare con maggiore consapevolezza dello spettro di sfumature affettive, emotive, che la canzone ricopre. Nel prossimo disco, di sicuro! Con le quaranta canzoni di Jobim non c'è stato modo di andare a fondo riguardo ai testi, ma ho comunque vissuto personalmente l'esperienza poetica del Brasile vivendo lì per un mese, due anni fa. Il modo di vivere dei brasiliani, così diretto, semplice, senza schemi e sovrastrutture mentali invasive mi ha commosso molto, e ogni volta che suono le canzoni di
Jobim rivivo quelle impressioni. Insomma, magari non conoscerò ancora a fondo i suoi testi ma, come mi disse Stefano Battaglia, non bisogna mai suonare uno standard perché l'hai letto, bensì bisogna suonarlo quando ti ha emozionato.
M.L.:
Qualcosa di simile a ciò che mi ha detto di recente Jay Clayton, invitandomi ad inserire in scaletta uno standard non perché "mi piace" ma solo se lo amo… Tornando alle voci, quali preferisci?
R.A.: Se c'è una cantante che ascolterei per tutto il giorno, è Ella Fitzgerald. Mi piaceva molto anche Betty Carter. E anche Diana Krall, come figura artistica: ha swing e suona molto bene. Mi piace più come pianista che come cantante. Tra gli uomini Bobby McFerrin, Mark Murphy,
Joe Lee Wilson, Frank Sinatra e
Billy Eckstine. E ovviamente Louis Armstrong. Talvolta sono venute da me a lezione alcune cantanti. Davo loro qualche nozione d'armonia e poi le indirizzavo verso cantanti che potessero seguirle, ma sempre consigliavo di ascoltare Louis Armstrong per almeno un anno! Sia quando cantava che quando suonava. Perché la vera improvvisazione nasce dal suo approccio al tema.
M.L.:
Torniamo a te e al tuo stile pianistico. Su cosa stai lavorando ultimamente?
R.A.: Sto approfondendo molto lo stile tradizionale, sto tornando al blues e alle improvvisazioni ricche di block chords e di
blue notes, di stride piano. Secondo me è importante tornare indietro su cose che pensavi di aver già studiato a sufficienza, o alle quali avresti giurato di non avvicinarti mai. In questo momento mi interessano molto le orchestre (ho sentito la Count Basie
Orchestra a Umbria Jazz e mi è piaciuta da morire!!). Come diceva Gandhi: vivi come se fosse l'ultimo giorno della tua vita, ma cerca di imparare come se fosse il primo.
M.L.:
I tuoi cinque dischi-cult.
R.A.: Kind Of Blue di Miles Davis, Portrait of Jazz di Bill Evans, Blue Trane di John Coltrane, il cofanetto della Savoy di Charlie Parker e il doppio di Stan Getz e Kenny Barron, che è uno dei pianisti che amo di più. Lui e Dado Moroni sanno suonare tutta la storia del jazz!
M.L.:
Qualche altro titolo?
R.A.: Mi piace molto il disco dal vivo a Montreaux '77 di Oscar Peterson con Ray Brown e
Oersted-Pedersen, dal titolo You Look Good To Me, e poi tutto Louis e Ella.
M.L.:
E Keith Jarrett, che hai citato prima?
R.A.: è grandissimo, a me piace. Ma la dimensione jarrettiana è pericolosa per un jazzista alle prime armi: rischi di entrarci totalmente e non uscirne più. Se è possibile studiare Bill Evans e riproporlo in modo personale, vedo difficile fare la stessa cosa con Jarrett. Io studio ogni giorno dalle tre alle cinque ore, ho la fortuna di avere l'orecchio assoluto, amo molto Pat Metheny e lo presi in parola quando ad un suo seminario, anni fa, disse che la cosa più importante erano le trascrizioni. Ne avrò fatte un centinaio! Pianisti, ma anche qualche sassofonista, per lo più
Coltrane. Ecco: di Jarrett trascrissi qualche solo sugli standards, ma non lo trovai «interessante» per i miei fini di studio. Meglio, all'inizio, attingere ad un materiale più codificato,
Powell o Garland magari.
M.L.:
Lo studio e i buoni maestri sembrano il leit-motiv di questa lunga e interessante chiacchierata… Lo dimostra anche il fatto che spesso hai citato frasi di persone alle quali hai guardato come a dei maestri. Finiamo con un'ennesima citazione?
R.A.: Quand'ero piccolo, a Viareggio, il pianista più rinomato era Luciano Maraviglia, autore anche di musiche per Luciano Tajoli. Non era un jazzista, ma conosceva i jazzisti e il jazz. Io gli chiedevo se gli piacevano questo o quel musicista, cercando di capire dal suo giudizio se erano davvero bravi. E lui mi rispondeva con una domanda: "è un professionista? Si guadagna la pastasciutta con la musica? Se sì, allora basta." Gianni Basso una volta mi ha detto: se qualcuno è lì dove si trova, un motivo c'è sempre. Dopodiché l'importante è divertirsi, quando si suona. Il resto… come si dice in Toscana… son
solo discorsi!