EFG London Jazz Festival Londra 10 - 19 Novembre 2017
di Vittorio Pio foto di Roger Thomas, Tim Dickeson
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Grandi atmosfere per i venticinque anni del prestigioso EFG London
Jazz Festival, con ben 350 eventi (molti ad ingresso gratuito o educativo), sviluppati
su oltre 60 location, a conferma di un interesse sempre vivo in terra d'albione,
alimentato da una grande versatilità nelle scelte artistiche.
Nei giorni di permanenza si sono ammirati
dei concerti molto ispirati, a partire dalla rinnovata verve di Pat Metheny,
che dopo il pessimo congedo dal proprio storico gruppo nel 2010 (nonostante l'aurea
presenza di Lyle Mays e Steve Rodby, i concerti italiani duravano il minimo sindacale,
risultando algidi e distratti), ha ritrovato oggettivamente nuovi stimoli con gli
inserimenti di Gwilym Simcock e Linda Oh posti al fianco dell'inamovibile
e tellurico Antonio Sanchez. Insieme a loro uno dei beniamini del pubblico,
ha creato una band dalla brillante alchimia, ribadita dal continuum fra i suoi
marchi di fabbrica impregnati di alcune indimenticabili melodie ed altre schegge
di derivazione free, in cui i frammenti tematici rimbalzavano da una voce all'altra
del gruppo, con innesti virtuosistici ed estroversi, dove ha molto bene impressionato
il rigoglioso pianismo di Simcock. Una formazione da tenere d'occhio, che tornerà ad
esibirsi in Italia nell'estate del 2018 a corredo
di un nuovo disco in uscita.
Nell'incontro di cartello che allineava Gonzalo Rubalcaba
e Chucho Valdès si sono viste scintille: siamo al cospetto di personalità
dalla verve rutilante, la cui ricerca armonica e l'ampissima gamma timbrica non
hanno praticamente rivali sulla scena contemporanea. Un set dalla foga visionaria
che unisce maestro ed allievo, capaci di scambiarsi più volte il posto, ricco di
fraseggi convulsi ed accordi danzanti, talvolta con dinamiche esasperate dalla pedaliera,
e comunque applauditi a scena aperta dal pubblico del Barbican Centre.
La sera dopo invece, altro rendez-vous stratosferico tra il progetto
Cross-Currents di Zakir Hussain, che ospitava i nomi illustri di
Chris Potter e
Dave Holland,
impegnati in un doppio set lunghissimo e pieno di guizzi repentini, offrendosi a
vicenda spunti regolarmente a segno e poi rilanciati, in un continuo gioco di piacevolezze,
forse un filo troppo ridondanti e alla lunga poco incisive. Sempre nella stesso
luogo dalla maestosa acustica, è arrivata la classe straripante di
Brad Mehldau e Chris Thile, che ha rapito l'attenzione
di un pubblico quanto mai partecipe: non è un mistero che l'ex enfant prodige dei
tasti in avorio abbia raggiunto la totale consapevolezza (e padronanza) del suo
potenziale, e non solo per la tecnica che gli concede dei lussi che a molti altri
sono proibiti. Qualche anno fa ha incrociato il mandolinista (e cantante) Thile,
le cui radici sono totalmente opposte rispetto alle sue. Ebbene, dopo aver condotto
una fortunata tournèe negli States e racchiuso quel feeling in un ispiratissimo
album, i due hanno ripreso l'attività concertistica in Europa, tenendo ovunque in
scacco le platee. Bluegrass e folk d'autore (i prediletti Bob Dylan e Joni Mitchell),
si sono dati il cambio con echi del
Chet Baker
più fragile e l'astrattismo di Satie, dilatando il campo sonoro con morbidezza,
sostanza ed il vezzo della citazione colta. All'opposto invece l'esuberanza di un
veterano del mainstream come Kirk Lightsey, solista dal fraseggio convulsivo
anche adesso che ha oltrepassato la soglia degli 80, sempre capace di arpeggi fluttuanti
ed arditi spostamenti degli accenti, non sempre carichi di sapori. Resta un Maestro
da preservare ad oltranza, con cui di recente hanno collaborato le nostre cantanti
Marilena Paradisi
e Chiara Pancaldi per i loro ultimi e lusinghieri album.
Serata di gala, a dir poco trionfale, per Paolo Conte
nella cornice del Southbank Centre gremita in ogni ordine di posti, con una discreta
rappresentanza italiana, dove l'avvocato si è presentato con tutto il suo charme,
serrato dai perfetti meccanismi della prodigiosa orchestra che lo asseconda alla
perfezione, su un repertorio che malgrado le minime variazioni nel tempo ed uguale
nei riti, (il bis è sempre appannaggio di "Via con me", cantata a squarciagola
dalle platee di ogni dove), è sempre capace di emozioni nuove. Una serata veramente
magnifica dunque. E se la violinista classica Viktoria Mullova ha dimostrato
una buona assimilazione della bossa nova con un concerto calligrafico e quindi privo
di grandi sussulti sia pure nell'ottimo livello complessivo, la personale chiusura
(in un vortice di celebrazioni ed altrui omaggi alla genialità di Monk e Zawinul),
è stata con il trio di Fred Hersch, pianista che definire fuoriclasse è ormai
riduttivo per la superiore delicatezza di tocco e senso melodico, rafforzate in
questa occasione da una ritmica ben oleata composta da Eric Mcpherson e
John Herbert, con i quali si esibisce misteriosamente ben poco in Europa
a dispetto di un valore complessivo monumentale. Un gruppo cui anche i superlativi
risultano non essere totalmente adeguati.