51a Jazz a Juan
Pinede Gould - Antibes Juan-les-Pins - 15 e 16 Luglio 2011
di Gabriele Prevato
foro di Elisa Tessarin
Bitches Brew Beyond Wallace Roney - tromba
Bennie Maupin - sax alto e clarinetto basso
Bobby Irving - piano e fender rodhes
Doug Carn - hammond Buster Williams -
contrabbasso
Joe Mc Creary - basso elettrico
Badal Boy - percussioni
Dj Logic - Mixer, loops, piatti
Al Foster - batteria
Il programma della serata è una delle punte di diamante di questa edizione del
festival di Juan-les-Pins 2011, dedicata alla memoria di Miles Davis
a vent'anni dalla sua scomparsa. La serata prevede un doppio appuntamento per celebrare
uno dei personaggi più significativi ed influenti della storia del jazz. Una folla
trepidante accoglie con un lunghissimo applauso l'entrata sul palco di questa Allstar
band, formata tutta da musicisti che hanno collaborato con Miles Davis e che presenteranno
il loro disco tributo inciso per la Columbia Records "Bitches Brew
Beyond". Il titolo e il tipo di formazione lasciano presagire chiaramente a
quale Davis si rifanno, quello della famosissima incisione del 1969 "Bitches Brew",
pietra miliare nelle incisioni jazz, ed è superfluo quasi ricordarne l'importanza
storico-artistica.
Un Wallace Roney in splendida forma ha fatto
rivivere l'inconfondibile suono di Miles, forte di una profonda conoscenza maturata
suonando assieme a lui ininterrottamente dall' '85 al '91, del quale risulta forse
essere a tratti eccessivamente debitore. Del resto Miles per Roney è stato un maestro
di musica e di vita, un mentore. Non poteva che essere affidato all'unico vero pupillo
trombettista di Davis l'onore di riviverlo e celebrarlo. A volte chiudendo gli occhi
si aveva la reale impressione di star ascoltando lo storico disco; tutto il gruppo
ha saputo ricreare quel sound unico e quell'atmosfera magica e ipnotica che ha rivoluzionato
il corso della musica. Bennie Maupin del resto ha fatto parte dell'originale
incisione negli studi della Columbia, e come forse nessun altro ha saputo portare
sul palco quell'energia ed ispirazione. Diversi durante il concerto i suoi passaggi
dal clarinetto basso al sax alto, mantenendo con entrambi sempre quel suono vivo
e viscerale che lo aveva promosso negli anni '70 tra le file del funk combo Headhunters.
Bobby Irving, maestro del piano elettrico, ha saputo con il fender rodhes
riempire con fine sensibilità i vuoti sonori, improvvisando spesso nei diversi momenti
sempre con un estremo trasporto e concentrazione. Del resto anche lui Miles lo conosceva
bene, ed ha pure inciso assieme i dischi Decoy prima e You're Under Arrest
più tardi, oltre che ad averlo accompagnato in lunghe tournee dove fungeva anche
da coordinatore del gruppo. Inquietante la figura dell'hammondista Doug Carn,
che ha mantenuto per tutta l'esibizione un volto tetro ed impassibile, anche durante
i lunghi soli, ipnotici e ritmici. Un po' nascosto dagli altri musicisti sul palco,
Al Foster ha confermato il suo gusto ed esperienza, in un concerto che lo
ha visto affiancarsi e collaborare di continuo con le percussioni di Badal Boy.
Nessuno dei due ha prevalso e infastidito il compagno, a entrambi va il merito di
aver saputo fondersi dolcemente con l'altro. Lo stesso per i due bassisti; anche
loro hanno sapientemente accompagnato i diversi brani senza scontrarsi. Tra i due
forse è spiccato maggiormente McCreary, se non altro per la maggior spinta
e attacco portata dallo strumento elettrico. Tra tutti il meno presente è stato
Dj Logic, con i suoi effetti e loop. Non vi è stato un grosso intervento
da parte sua, di riempimento ma non sostanziale; forse più necessario in una incisione
più che dal vivo.
Dopo un'ora e mezza abbondante di concerto in pieno stile Brew il pubblico
ha applaudito a lungo scandendo così la pausa per la preparazione del palco in attesa
del secondo attesissimo concerto.
Tribute To Miles Herbie
Hancock - Pianoforte e synth Wayne
Shorter - Sax tenore e soprano Marcus Miller
- Basso elettrico, contrabbasso, clarinetto basso
Sean Jones - Tromba
Sean Rickman - Batteria
Dopo una pausa abbondante di più di mezz'ora il pubblico si ricompone per stringersi
con attenzione attorno al palco per l'entrata di tre mostri sacri del jazz.
Marcus Miller
è il primo ad entrare in quanto direttore musicale. Rivolgendosi al pubblico inizialmente
con tono solenne introduce il tema della serata, precisando di essere molto orgoglioso
di presentare questo progetto; subito dopo chiama energicamente sul palco prima
il batterista e il trombettista, per poi esultare annunciando l'ingresso di
Herbie Hancock e
Wayne Shorter. Ha così inizio il concerto tributo degli "alunni" di
Miles Davis pensato da
Marcus Miller
in occasione del ventennale della sua scomparsa.
Già nel 1994, Hancock e Shorter avevano lavorato insieme ad un album tributo dedicato
al trombettista statunitense, mentre oggi
Marcus Miller
si unisce al duo aggiungendo il suo talentuoso apporto in un progetto che si può
dire nasca direttamente dalle corde del suo basso.
Dopo un' introduzione molto lenta e rarefatta creata da un basso effettato e distorto,
il gruppo inizia accennando le note del brano Milestones. L'arrangiamento
rende meno riconoscibile il tema, concentrandosi più su un ritmo ostinato scandito
dal basso di Miller e dalla batteria. L'idea di Miller per questo tributo è essenzialmente
ripercorrere cronologicamente le diverse fasi della lunga carriera artistica di
Miles attraverso una scelta di brani più celebri. Non ci sono però pause tra un
brano e l'altro, bensì un unico arrangiamento che unisce assieme diversi brani attraverso
delle fantasiose transizioni e modulazioni. Si passa ad esempio da Milestones
ad All Blues, giocando con il tema secondario di quest'ultimo,
ripetendolo ciclicamente all'inizio e al termine come momento di passaggio al brano
successivo.
Durante il concerto Miller è passato a suonare strumenti diversi. Oltre al basso
elettrico ha suonato il contrabbasso, il clarinetto basso e il flauto, confermando
la sua fama di polistrumentista.
Wayne Shorter, tra tutti, è sembrato quello più trattenuto e a tratti
meno a suo agio; nei diversi spazi concessigli per il solo ha prediletto frasi semplici,
a volte deboli, improvvisando mai più di un chorus. Sicuramente questa sua essenzialità
ha un po' cozzato con l'esuberanza di
Herbie Hancock il quale in diversi brani si è dato a lunghissime improvvisazioni,
per questo applaudissimo. Il suo solo più bello forse è stato sul brano Footprints,
8 chorus di pura energia e stile.
Molto bella la versione di Someday My Prince Will Come aperta
con un lunghissimo pedale di basso e dove progressivamente si sono aggiunti nell'ordine
batteria, tromba, sax, piano. Anche qui Shorter ha preferito esprimersi in un solo
giro armonico e lasciare spazio agli altri, soprattutto ad Hancock e Sean Jones.
Quest' ultimo ha saputo fin da subito creare quel suono tipico di Miles, così particolare
e riconoscibile, trasportando l'intero pubblico indietro nel tempo. Curioso il fatto
che nonostante sia stato lui l'interprete di Miles per questo tributo, l'attenzione
fosse invece tutta per il trio Hancock-Shorter-Miller. Se da un lato è comprensibile,
dall'altro essere al fianco di tre star non gli ha tributato il giusto merito.
Una menzione particolare anche a Sean Rickman alla batteria, molto melodico,
preciso e coinvolgente il suo stile, oltre al valore aggiunto a mio avviso di aver
sorriso per tutta l'esibizione.
L'ultima parte del concerto è stata quella più applaudita; sulle prime note di
Time After Time un boato ha riempito l' arena di Antibes seguito da uno ancora
più grande sull'ultimo brano scelto, Tutu dove la band al completo ha interamente
riversato la restante energia e concentrazione.
Il trio di
Keith
Jarrett è ormai di casa qui al Festival di Antibes, quest' anno festeggiano
la loro ventesima esibizione, e dal 2000 non hanno mancato un'edizione. Sia l'organizzazione
che il pubblico ha imparato ormai come comportarsi in presenza di questo irascibile
pianista (no flash, no video, no rumori di fondo, puntigliosità e capricci vari)
tant'è che questa volta si può dire sia filato tutto liscio.
Puntualissimo il trio ha aperto con il brano Summertime con
un arrangiamento scarno ed essenziale che ha permesso al pianista di giocare molto
con la melodia, sia nei soli che nell'esposizione del tema, per lasciare nei brani
successivi invece lo sviluppo delle armonie. Molto intensa ed apprezzata una
slow-version del brano Things Ain't What They Used To Be di Duke Ellington.
Qui il trio ha dato prova di gran compattezza sonora e di un senso della pulsazione
comune e preciso anche ad un tempo lentissimo come quello scelto. Ma come si sa
è nelle sue lunghe introduzioni e code che Jarrett da' il suo meglio. Una lunghissima
coda sullo standard Body & Soul ha strappato l'applauso più lungo della serata.
Qui il pianista ha preso l'ultima frase della melodia reiterandola a mo' di cantilena
per incorniciare e giustificare le sue ardite e liriche riarmonizzazioni.
Il secondo set è iniziato con una sempre solenne, quanto immaginable Someday
My Prince Will Come, brano dove Jarrett ormai ha scavato talmente
in profondità da saper donare poesia in ogni frammento improvvisato. Nel brano
St. Thomas finalmente si è visto un
Jack DeJohnette
cimentarsi in un solo, cosa rara per lui in questo trio, attraverso il quale ha
fatto battere il piede all'intera platea. Due i bis concessi dal trio a questo diligente
e meritevole pubblico: God Bless The Child, nella celebre versione contenuta
nel disco del trio "Standards Vol. 1", sempre molto d'effetto, e la ballad When
I Fall In Love con cui il pianista ha salutato il pubblico omaggiandolo
di un ultimo dono del suo lirismo.
Un concerto sicuramente intenso e di alto livello, ma non forse tra i più ispirati
del trio. Trio che ormai sembra conscio di essere sempre più uguale a se' stesso
e di non essere innovativo, ma se non altro almeno non ha la pretesa di esserlo.