Pillole di Umbria
Jazz 2006
7 - 17 luglio 2006 - Perugia
di Alberto
Francavilla foto di Giorgio Alto e Alessia
Scali
Ancora una volta, grazie ad
Umbria Jazz,
Perugia è diventata, per dieci giorni, l'epicentro del panorama jazzistico internazionale.
In particolare, nel periodo compreso tra l'11 ed il 14 luglio, abbiamo avuto la
possibilità di ascoltare, tra gli altri, quattro concerti di assoluto livello e
dei quali mi sembra d'uopo parlare.
L'11
luglio, all'Arena Santa Santa
Giuliana, è previsto un doppio set davvero succoso, in cui si avvicendano sul palco
il Brad Mehldau
Trio ed il
Wayne Shorter Quartet. Per i puristi è una boccata d'ossigeno,
dopo le seppur brillanti performance di Diana Krall, Eric Clapton
e Pino Daniele.
Dicevamo, dunque, che dall'11
luglio scende in campo il jazz
con la J maiuscola, eppure l'inizio fa presagire che si continui sull'onda di una
certa "impurità" di genere. Infatti, appena poggiate le mani sul piano,
Mehldau
si avventura in una rivisitazione di un brano che magari non tutti i jazzofili hanno
riconosciuto: trattasi di Wonderwall
degli Oasis, che si innesta perfettamente sulla linea da sempre intrapresa
dal pianista originario della Florida, che spesso e volentieri si dedica alla rilettura
di standard della musica rock.
Mehldau
rimane abbastanza fedele alla melodia originale, anche se il tema viene sviscerato
in tutta la sua ampiezza tonale. Nel secondo brano (Fat
Kid) lo schema non cambia, e comincia a farsi notare Larry Grenadier,
contrabbassista eclettico, che alterna energici slapping a soluzioni decisamente
più melodiche, e alternandosi dunque nella duplice funzione di accompagnatore sia
in fase ritmica che melodica. Quando il trio passa ad eseguire
Secret beach gli spazi
si fanno più dilatati e l'Arena si riempie di un suono dolce, liricamente molto
intenso: le mani di
Mehldau
sembrano danzare sulla tastiera, e anche Grenadier si adegua all'atmosfera
da ballad, impressione che verrà rafforzata nell'incipit della successiva
Black Hole Sun (cover dei
Soundgarden). Qui il pianista sembra quasi voler centellinare le note, il
tempo risulta vagamente spezzato, ma è solo un'impressione: è giunta infatti l'ora
di Jeff Ballard, batterista energico, molto abile nei cambi di ritmo (caratteristica
non trascurabile per un batterista in un trio),
che
trascina letteralmente i due compagni verso fraseggi sempre più veloci, che ovviamente
il pubblico mostra di apprezzare. Il pezzo che segue è
CTA, un omaggio a Jimmy
Heat, che viene interpretato dal trio in maniera particolarmente brillante,
con tono a dir poco swingante: ed è qui che le scariche di Ballard su piatti
e rullante servono a scuotere l'atmosfera un po' bolsa, e la sua intesa con Grenadier
è sintomatica dell'affiatamento immediato che i due hanno stabilito (Ballard
è entrato a far parte del trio a tutti gli effetti solo due anni fa). Il set
si chiude, ufficialmente, con Secret
love di Sunny Fain, in cui
Mehldau
si concede praticamente un piano solo. Ma c'è ancora tempo per il bis: a degna conclusione
della sua esibizione,
Mehldau
regala ai presenti l'interpretazione di uno dei motivi da lui più suonati,
Countdown di
Coltrane: realizzata in maniera impeccabile,
con un lungo assolo di piano, con questa canzone cala il sipario sulla prima
parte della serata. Ma il meglio deve ancora venire.
Passa
appena un quarto d'ora, necessario per il cambio di palco e il sipario si riapre
di nuovo. Gli spettatori cercano affannosamente di recuperare le proprie posizioni,
ignari (ma forse non tutti) di quello che stanno per ascoltare: pochi secondi ed
ecco comparire, in tunica bianca, una leggenda vivente del jazz,
Wayne Shorter. Accompagnato dal suo attuale ensemble, il celebre sassofonista
imbraccia subito il suo tenore e attacca, gli altri lo seguono. Il pezzo d'apertura
è Adventures aboard the golden
mean, tratto dal suo ultimo album "Beyond the sound barrier" del
2005. In realtà il seguito del concerto aiuterà
a capire come sia praticamente impossibile riuscire a capire dove finisce un pezzo
e comincia l'altro, sembra che il quartetto delinei un'unica traccia e la segua,
pur nelle variazioni di tono e di ritmo, come un continuum per tutta la serata.
Questo
è possibile grazie ad un interplay praticamente perfetto: tutti sanno cosa fare
e sanno cosa faranno gli altri, ed è chiaro già dal primo brano, nel quale sulle
melodia tratteggiata dal sax di
Shorter e accompagnata egregiamente dalla sezione ritmica (John
Patitucci al contrabbasso e
Brian Blade alla batteria), irrompe improvvisamente l'esuberanza del
piano di Danilo
Perez, che imprime una sferzata di brio nella traccia sonora del combo.
Apparentemente tutto sembra lasciato al caso, all'improvvisazione (come da tradizione
nell'approccio tipicamente free di
Shorter), ma non è così, perché ogni intervento dei musicisti è studiato,
denota un grande lavoro a monte nella composizione e nell'arrangiamento. Nella successiva
Zero gravity, tratta
dal succitato album, le atmosfere si fanno più cupe,
Patitucci
impugna l'arco e dalle corde del suo contrabbasso le note risuonano più distese,
la composizione si fa più ariosa. In realtà
Shorter sembra in posizione defilata, preferisce lasciare le luci della
ribalta ai suoi compagni. In particolare,
Patitucci
e
Blade sembrano indiavolati, mantengono il ritmo sempre elevato e
costruiscono passaggi incredibili per velocità d'esecuzione e intesa assoluta, confermando
di essere, con i rispettivi strumenti, due tra i migliori interpreti al mondo. Una
citazione particolare, per quanto visto in questa serata, merita
Brian Blade, batterista pirotecnico, che sceglie soluzioni difficili
anche quando si potrebbe rilassare; si rivela il batterista giusto al posto giusto,
sembra nato apposta per suonare con
Shorter…Non è un caso che
Smiling through si apra
proprio con un duetto contrabbasso – batteria:
Blade e
Patitucci
costruiscono un incessante groove sul quale si innesta, improvviso e dolcissimo,
il sax di
Shorter. A loro si aggiunge il piano di
Perez,
pulito e privo di fronzoli: il cubano non eccede mai, le note sembrano distillate
una ad una, non c'è mai tendenza a prevaricare gli altri strumenti, le sue incursioni
sono fulminee ed impreviste. Ma l'imprevedibilità è e continua ad essere il marchio
di fabbrica di
Wayne Shorter, capace di stupire ancora, pur dopo tanti decenni di attività,
i suoi ascoltatori. E così, se in
Prometheus Unbound
Shorter, adesso al sax tenore, sventra il tema fin nei suoi angoli più
nascosti, nel bis Going, gone
c'è spazio per tutti, con
Perez
che compare improvvisamente quando meno te l'aspetti. Alla fine il pubblico dimostra
di apprezzare un concerto sicuramente non di facile ascolto, e all'uscita dall'Arena
tutti, ma proprio tutti, sono soddisfatti di questo doppio appuntamento.
Il giorno dopo, 12
luglio, all'Arena Santa Giuliana,
l'appuntamento è in apparenza unico, ma le durate dei due set fanno sì che ne esca
uno spettacolo di tre ore circa. Stavolta il proscenio è tutto per
Chick Corea,
il camaleontico pianista che nel corso della sua carriera ne ha viste di tutti i
colori. E siccome una delle sue peculiarità innate risiede nella costante capacità
di sorprendere, anche stavolta non si smentisce.
Chick
Corea, pioniere nell'utilizzo del jazz elettrico, alfiere della
sperimentazione, regala al pubblico una ciliegina veramente gustosa: la rilettura
del concerto n.24 in Do minore di Mozart. Non che
Corea
sia nuovo a questo tipo di esperienza (ha già inciso, con
Bobby
McFerrin, l'album "The Mozart session"), ma per l'occasione si presenta
affiancato dalla Bavarian Chamber Philarmonic Orchestra. I ventiquattro elementi
si fanno guidare dal pianista, che appare subito molto ispirato, fin dalla prima
composizione, Africa,
che è in realtà una suite scritta dallo stesso
Corea
con Gary Burton. Concepita per essere suonata con un quartetto d'archi, questa
suite mostra tutta la versatilità di
Corea,
straordinario interprete che però raramente si lascia imbrigliare nelle maglie del
rigore compositivo. Invece la melodia si sposa benissimo con le istanze esecutive
dell'orchestra, i fraseggi sono puliti e misurati, le parti sono sempre legate tra
loro. Quindi parte il concerto mozartiano vero e proprio,
Corea
lo interpreta a modo suo, concedendosi di tanto in tanto variazioni di matrice jazzistica,
ma fondamentalmente mette in mostra una grande rigidità nel rispetto formale della
composizione mozartiana e non si discosta, dunque, molto dalla lezione del maestro,
confermando che, nonostante le apparenti diversità, musica classica e jazz possano
benissimo non solo convivere, ma anche richiamarsi l'un l'altra. Al termine del
primo set ci si chiede cosa attendersi per il prosieguo. Dopo una breve pausa siamo
subito accontentati: stavolta ad accompagnare il maestro, oltre alla Bavarian
Chamber Philarmonic Orchestra, arriva anche un terzetto, formato da Tim Garland,
Hans Glawischnig e Marcus Gilmore. E sono subito scintille. Infatti
i cinque movimenti che compongono il set sono un omaggio alla Madre Terra e non
a caso recano il nome dei cinque continenti (tale è considerato anche l'Antartide)
in un percorso circolare che si ricongiunge idealmente all'iniziale Africa. Dunque,
partendo da Europa,
eseguita senza l'ausilio dell'orchestra, il quartetto esprime tutto il suo potenziale,
fatto di accelerazioni improvvise e melodie che, pur nella loro impeccabile pienezza
compositiva, lasciano ampio spazio a variazioni e numerosi assoli, soprattutto della
premiata ditta Corea
– Garland. Specie quest'ultimo si conferma incredibilmente eclettico: parte
piano col flauto, quindi, nell'ordine, imbocca sax alto, soprano, clarinetto, per
chiudere in Antartica
col sax tenore. Il risultato è sempre di altissimo livello, infatti, non a caso,
Corea
gli cede spesso e volentieri il ruolo di protagonista. Anche con gli altri elementi
il leader mostra buon affiatamento, soprattutto con il contrabbassista Glawischnig:
questi, dal canto suo, sembra inserito perfettamente a suo agio nel contesto anomalo
dovuto alla presenza di un'orchestra di stampo classico e la sua raffinatezza esecutiva
è confermata in Asia,
quando suona con l'archetto. Per il resto dell'esibizione,
Corea
conferma il suo ottimo stato di forma, giocando col pubblico e coinvolgendolo fino
a renderlo partecipante attivo dell'evento: a questo punto è chiaro che l'obiettivo
del progetto, denominato "In the spirit of Mozart" sia pienamente raggiunto,
in quanto Corea
ha ricreato quelle atmosfere gioiose di libertà espressiva che hanno contraddistinto
la carriera, per non dire la vita, del grande compositore austriaco.
Il 13 luglio,
invece, appuntamento impedibile alle 18. Al Teatro Morlacchi, infatti, è in programma
il trio composto da Ron Carter, Mulgrew Miller e Russell Malone.
Già dalla composizione, si può notare l'assenza del batterista, che obbliga i musicisti
a trovare delle soluzioni alternative in fase ritmica.
Ma,
al contrario di quanto ci si può aspettare, almeno all'inizio, con
Laverne walk di Oscar Pettiford,
vengono sovvertite le regole tradizionali: infatti a reggere il ritmo sono il piano
di Miller e la chitarra di Malone, mentre a Carter è affidato
il ruolo più propriamente melodico; il suo contrabbasso trova soluzioni armoniche
sempre diverse, ora arpeggiate e delicate, ora slappate e decise. Il groove di
Carter è accompagnato in modo morbido da Miller e Malone, con
il secondo in possesso di un tocco davvero leggero sulle corde della sua chitarra.
Anche nel successivo Cedar tree
(composto da Malone) lo schema rimane pressappoco lo stesso, con Carter
a recitare il ruolo di protagonista. In
Elyge il sound del
contrabbasso si fa più vibrante, liricamente molto intenso, ma ad impressionare
maggiormente è probabilmente la leggiadria con la quale le dita di Miller
sembrano danzare sulla tastiera del pianoforte. Nei toni del possente pianista ritorneranno
sovente durante il concerto echi dal sapore blues, vagamente retrò: in alcuni momenti
sembra che manchi solamente il cartello con la scritta "Non sparate sul pianista".
Con Parade (di Carter)
si passa a toni più vivaci, si respira aria di bossa, e la chitarra di Malone,
finora un po' in ombra, comincia a farsi sentire in maniera più nitida, se non altro
per non essere sovrastata dal prolungato slapping di Carter. È la volta di
My Funny Valentine e finalmente Miller
assurge a protagonista: la sua è un'esecuzione toccante, quasi struggente, al suo
fianco Carter tiene saldamente il tempo, per poi scomporlo in un dirompente
assolo. Nel successivo Eddie's
theme Carter recita la parte del comprimario e lascia la ribalta
soprattutto a Malone, che, pur su ritmiche decisamente più veloci, mette
in luce uno stile molto pulito, in cui la singola nota viene scandita e mai sovrapposta.
In Willow weep for me
(title track di un album di Carter del 2003)
il leader "putativo" del trio esibisce l'ultima vera e propria chicca, suonando
tutto il brano in tapping e conquistando definitivamente il pubblico presente
in sala. The golden striker
(di John Lewis) e Banks groove
(di Milt Jackson) riportano l'esibizione su un piano brioso, con gli strumenti
che si divertono a dialogare tra loro. La definitiva apoteosi si raggiunge nel bis,
con la celeberrima Summertime a far da colonna
sonora all'uscita di scena di tre interpreti, promotori di un jazz molto elegante
e raffinato.
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
18/08/2011 | Gent Jazz Festival - X edizione: Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata del Bijloke Music Centre. Michel Portal, Sonny Rollins, Al Foster, Dave Holland, Al Di Meola, B.B. King, Terence Blanchard, Chick Corea...Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena. (Antonio Terzo) |
21/06/2009 | Bologna, Ravenna, Imola, Correggio, Piacenza, Russi: questi ed altri ancora sono i luoghi che negli ultimi tre mesi hanno ospitato Croassroads, festival itinerante di musica jazz, che ha attraversato in lungo e in largo l'Emilia Romagna. Giunto alla decima edizione, Crossroads ha ospitato nomi della scena musicale italiana ed internazionale, giovani musicisti e leggende viventi, jazzisti ortodossi e impenitenti sperimentatori... (Giuseppe Rubinetti) |
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Data pubblicazione: 18/09/2006
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