Saper leggere uno spartito, conoscere i fondamenti della teoria musicale e dell'armonia
(jazz) è fondamentale per muoversi con scioltezza e consapevolezza nella pratica
dell'improvvisazione e nell'interpretazione di una melodia, insieme all'
EAR TRAINING,
cioè quella "educazione dell' orecchio" musicale che ci consente di operare scelte
adeguate quando si canta una melodia o si improvvisa su una determinata struttura
armonica.
Lo studio del solfeggio è dunque fondamentale e per molteplici ragioni, tutte importantissime.
Innanzitutto è il presupposto per poter fare da soli TRASCRIZIONI di assoli da altri
musicisti o cantanti, una pratica FONDAMENTALE che tutti i grandi jazzisti prima
di noi hanno utilizzato con profitto per impadronirsi del vero LINGUAGGIO del jazz.
Imparando a leggere, si apprende contestualmente anche a RICONOSCERE note e figure
ritmiche ad "orecchio", quindi a trascriverle ascoltando i "maestri".
Nessuno può pensare di diventare un eccellente improvvisatore, se prima non ascolta
e "fa suo" quello che i grandi del jazz hanno precedentemente espresso nella loro
arte, cioè il LINGUAGGIO del jazz.
Su questo aspetto ritorneremo più avanti.
Ma ora mi preme sottolineare un'altra motivazione importante per studiare il solfeggio.
Molti cantanti erroneamente cominciano ad apprendere gli standards direttamente
dai cantanti, invece di cercare uno spartito con una trascrizione affidabile e leggerlo
da lì.
E' vero che molti "neofiti" desiderosi di cantare il jazz non sanno leggere e pensano
che basti ascoltare Ella o Sassy per memorizzare la melodia, senza pensare che a
loro volta queste grandi cantanti eseguono il tema inserendo delle loro personali
variazioni ritmiche e melodiche.
In questo modo si perde di vista la SCRITTURA ORIGINALE, e non è cosa da poco, se
consideriamo quali grandissimi compositori hanno scritto melodie non a caso rimaste
nella STORIA della MUSICA.
Ciò non vuol dire che il cantante di jazz non possa modificare un tema così come
lo ha reso il compositore, ma che prima di cominciare a farlo debba conoscerlo ed
apprezzarlo così com'è stato concepito, e poi eventualmente "personalizzare" la
propria interpretazione.
Errore comune di molti "aspiranti" cantanti di jazz è infatti considerare per così
dire "automatico" che la melodia di un brano vada modificata secondo il proprio
gusto, altrimenti "non è jazz", ed a volte capita di ascoltare interpreti che alterano
la scrittura originale al punto che la melodia si riconosce a malapena, tanto che
è infarcita di "effettini" vocali vari.
Secondo me questa affermazione va presa "con le pinze", nel senso che se da un lato
è vero che il jazz offre al musicista una "libertà" interpretativa superiore a quella
di altri generi musicali (ed in questo risiede parte del fascino che ha su tutti
i musicisti), è anche vero che "improvvisare" non significa fare qualcosa "A CASACCIO".
Anche in questo caso o il cantante è portatore di una musicalità e un talento fuori
dal comune che gli consente di fare scelte musicali appropriate sia da un punto
di vista ritmico che melodico utilizzando esclusivamente il suo istinto, oppure
la conoscenza, anzi la "coscienza" della parte armonica del brano insieme alla PADRONANZA
DEL RITMO lo potranno guidare nelle sue scelte personali.
A proposito della padronanza del ritmo, qui entriamo in un terreno molto delicato
ma secondo me FONDAMENTALE nella formazione di un musicista, e su questo argomento
ritornerò in seguito in una delle lezioni successive, perché per me rappresenta
la chiave di volta che distingue musicisti di altissimo livello da altri.
Per molti cantanti (e strumentisti) la parola SOLFEGGIO evoca terribili ricordi
di quando da piccoli i nostri genitori ci mandavano volenti o nolenti a studiare
il pianoforte ed il solfeggio rappresentava una cosa noiosa e sterile (o almeno
così ci è sembrata)…Scherzi a parte, l'argomento è serio.
Nel caso del cantante, secondo me sono due gli ostacoli che si frappongono alla
comprensione profonda della "lettura".
In primo luogo la maggior parte delle volte chi canta non suona un qualunque strumento
(il pianoforte sarebbe la scelta ideale).
Inoltre l'allievo non sempre viene abituato dall'insegnante a collegare la "pratica"
del solfeggio con la concreta esecuzione di melodie, o ad analizzare ed eseguire
correttamente le figure ritmiche così come sono inserite nei brani che studia, cosa
che invece chi scrive pratica abitualmente coi propri allievi.
Chi non suona uno strumento spesso non capisce dopo aver solfeggiato senza problemi
una determinata sequenza ritmica come CANTARLA se la ritroviamo trascritta in una
melodia, sembra assurdo ma è così, e nel caso del jazz bisogna anche comprendere
come "interpretare" una trascrizione rispetto a quella di un brano di musica classica.
Dico questo per esperienza diretta come allieva e come insegnante, ed a questo proposito
ho sviluppato esercitazioni e percorsi didattici mirati a tal scopo.
Vorrei a questo punto precisare un'altra cosa importante riguardo al solfeggio.
Personalmente in sede didattica dedico tutto il mio tempo alla RITMICA, più che
alla parte MELODICA del solfeggio, perché è la padronanza del ritmo cui accennavo
prima che contraddistingue un musicista dall'altro.
Tanti, troppi musicisti (e cantanti) hanno poco (o nullo) senso del ritmo.
Cosa vuol dire? Spero di riuscire a spiegarlo, perché penso non sia facile esprimerlo
semplicemente "a parole", se mi metto nei panni di un cantante che non ha ancora
una formazione musicale e legge queste mie dissertazioni sull'argomento.
Parto da una considerazione che è in realtà la conseguenza del problema: i cantanti
che non hanno un senso del ritmo sviluppato sono innanzitutto percepiti dall'ascoltatore
medio come "piatti" o senza "energia" o "carica", quindi potenzialmente "noiosi",
"monotoni" da ascoltare.
Durante l'esecuzione l'orecchio più "esperto" avverte che la "quadratura" della
melodia sul tappeto armonico presenta vari momenti di incertezza, che si evidenziano
maggiormente nel fraseggio più o meno "concitato" prodotto nel corso di una improvvisazione.
Questo perché quando si studia la ritmica non si apprende davvero l'essenza del
ritmo, lo si comprende con l'INTELLETTO, ma non lo si "interiorizza", non lo si
fa proprio con l'esercizio, non lo si "digerisce", ci si ferma alla conoscenza,
ma non si raggiunge la COSCIENZA del ritmo.
Quindi anche se l'allievo è perfettamente in grado di capire una determinata figurazione
ritmica (o una sequenza di figurazioni ritmiche), ne passa di tempo prima che nella
sua esecuzione si comprenda che gli accenti che si susseguono nel ritmo effettivamente
"ci sono", che si possano "ascoltare".
Tutto quello che si avverte di negativo nella "pronuncia" anche solo solfeggiando
una certa sequenza ritmica, lo si ritrova pari pari nell'esecuzione di una melodia
che la contiene.
C'è da dire che l'interiorizzazione del ritmo è un processo che può essere molto
lungo e graduale, ed in questo un bravo insegnante attento al problema può fare
molto, ma comunque non bisogna scoraggiarsi se i risultati tardano a venire, proprio
perché è un obbiettivo realisticamente DIFFICILE da raggiungere, perlomeno se ci
riferiamo ad uno standard elevato di coscienza.
E' però importante che lo si tenga sempre presente come OBBIETTIVO nel corso del
nostro percorso formativo personale, e se non lo si comprende da soli, è fondamentale
che ci siano degli insegnanti in grado di guidare l'allievo alla meravigliosa "scoperta"
della propria "COSCIENZA RITMICA".
Ritorneremo su questo argomento anche nelle lezioni successive e quale esempio di
un artista in possesso di un senso del ritmo straordinario, vi rimando all'ascolto
di BOBBY Mc FERRIN.
Ora, per tornare a quanto scritto all'inizio del presente articolo, trovo opportuno
soffermarmi brevemente anche sull'importanza della conoscenza dell'armonia, cercando
il più possibile di semplificare il linguaggio per consentire a coloro che non sono
addentro la materia di capire almeno le linee generali del discorso.
Mi scuso pertanto con chi più esperto forse troverà eccessivamente semplificati
alcuni concetti.
Quando parliamo di armonia ci riferiamo al "tappeto sonoro", o all'"accompagnamento"
suonato dai musicisti mentre il cantante (o lo strumentista) esegue una melodia.
L'accompagnamento è composto da una "struttura armonica", cioè da un insieme di
accordi, questi ultimi composti da note che vengono suonate contemporaneamente.
Il termine "struttura" implica che questi accordi di cui parliamo si susseguano
l'uno dopo l'altro (formando una cosiddetta progressione armonica) sulla
base di alcuni criteri di organizzazione interna e di rapporti tra le parti che
la compongono, su cui al momento sorvoliamo per chiarezza espositiva, e rimandiamo
alle prossime lezioni.
Ogni melodia procede su questo "tappeto" e chi improvvisa sostituisce alle note
del "tema" (ossia la melodia originaria del pezzo) un altra "melodia" estemporanea
composta da altre note, che per "suonare bene" sugli accordi della struttura devono
innanzitutto contenere note che non "contrastino" all'ascolto con quelle che troviamo
negli accordi.
Per fare ciò si analizzano e si studiano i vari tipi di accordi e le note che essi
contengono, e si procede con adeguati esercizi, tra cui importanti sono quelli di
ear training, cioè si abitua l'allievo a riconoscere "ad orecchio" il tipo
di accordo, le note (e gli intervalli tra le note) che lo caratterizzano rispetto
ad altri tipi di accordi, per far sì che attraverso l'esercizio l'allievo sia "indotto"
per così dire "automaticamente"a cantare (o suonare) le note "giuste", sia ascoltando
l'accompagnamento, sia leggendo lo spartito.
Ad ogni accordo corrispondono una o più "scale", sequenze di note (per il momento
limitiamoci a definirle così) che contengono le note caratteristiche di quell'accordo,
e dalle quali il musicista "attinge" per le proprie improvvisazioni.
Sugli spartiti del jazz è normale trovare trascritte insieme alle note della melodia
sul pentagramma anche le "sigle" (=nomi) degli accordi, (ad es. CMaj7).
Un musicista può teoricamente improvvisare anche senza conoscere il pezzo, semplicemente
leggendo le sigle degli accordi, se ovviamente è consapevole del significato di
quelle sigle, se sa quali scale è possibile utilizzare, ecc.
Tengo a precisare che quanto ho appena esposto è un discorso estremamente semplificato
e che comunque descrive solo una piccolissima parte del processo di apprendimento
dell'improvvisazione, che consiste in molto di più che conoscere (e riconoscere)
accordi e scale, direi…
C'è una differenza per me importante tra cantanti e strumentisti, come diretta conseguenza
di diverse strategie di apprendimento.
Lo strumentista ha il problema di confrontarsi con le caratteristiche del proprio
strumento se vuole raggiungere agilità e scioltezza nel fraseggio.
Uno dei modi tipici per allenarsi è fare ricorso ai libri di patterns, che
non sono altro che frasi musicali "tipiche" del linguaggio del jazz, costruite su
determinati tipi di accordi.
Lo strumentista per sviluppare l'agilità prende questa frase e si esercita in TUTTE
LE TONALITA', cosa per lui necessaria perché ogni tonalità vuol dire una diteggiatura
diversa.
Chi canta invece non ha problemi una volta creata o ascoltata o letta una frase
musicale a ripeterla in tutte le tonalità, se non il limite dell'estensione della
propria voce, in quanto il cambio di tonalità viene fatto "ad orecchio".
Gli strumentisti a volte rimangono "vittime" dello studio dei patterns, al
punto che la scelta delle frasi che si susseguono in una improvvisazione diventa
quasi un fatto "meccanico".
Mi riferisco a quegli esecutori tecnicamente impeccabili perché hanno studiato molto,
la cui agilità e scioltezza nel fraseggio è fuori discussione, ma che non risultano
incisivi sull'uditorio perché in realtà fanno assoli "senz'anima", delle semplici
sequenze di patterns.
Questo dimostra che improvvisare bene è come scrivevo prima molto di più che perizia
tecnica e conoscenza di accordi, scale e patterns, ma su questo ed altro
ritorneremo nelle prossime lezioni.
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Data pubblicazione: 31/10/2011
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