I problemi di Marco Zurzolo sono due. Il primo l'ha raccontato nell'intervista che appare su "Jazz Magazine" in edicola questo mese: "Non siamo una setta, non siamo noi napoletani a riunirci in gruppo "etnico", sono gli altri che se lo inventano.
Anche se è vero che più volte ho tentato di suonare al Blue Note
e solo questa volta mi hanno chiamato: per la settimana napoletana." L'altro l'ha dichiarato paro paro proprio da quel palco: "Tutti mi definiscono "un giovane", sono sempre considerato una specie di esordiente,
anche se ormai ho più di quarant'anni e ho inciso sette album da leader."
Ma li affronta con il sorriso sulle labbra e con quella sorta di abituale accettazione fatalistica tipica del carattere partenopeo: un "sentire" la vita e i suoi fatti che si riversa anche sulla musica. Una musica che si sta spogliando sempre più del tipico incidere un po' a marcia bandistica un po' a tarantella della tradizione napoletana. Una musica che si sta facendo vieppiù solida e ispirata, dai toni che diventano intimisti, senza però perdere le liriche prospettive sui sapori speziati e i profumi esotici del Mediterraneo, e anche dell'Europa dell'est e del vicino Oriente.
Un sound che il suo affiatatissimo gruppo propone quasi a menadito, con solo un pizzico di autocompiacimento, scivolando lieve sull'essenziale bellezza di brani come "Torno a sud" oppure su "Sette e mezzo" (la title-track – inevitabilmente orfana dal vivo dello splendido assolo di oud di
Erasmo Petrigna – dell'ultimo album, cui è dedicato pressoché tutto il concerto), sviluppando il lirico tema orientaleggiante di "Cinque e un po'" dal suggestivo sviluppo armonico, giocando sull'ostinato "pedale" posto a sostegno di "Napoletana a coppe".
Mentre il sax alto che impugna Zurzolo, un leader perfetto nel lasciare spazio ai comprimari – da apprezzare in particolare il chitarrista Carlo Fimiani, uno che ha assimilato con intelligenza la lezione di Bill Frisell – sa essere romantico e melodico (qualcuno ha addirittura scritto che certe sue linee ricordano quelle delle colonne sonore di Francis Lai) e anche delirante e struggente, in un incrocio incestuoso tra lo spirito iconoclasta di John Zorn e la dimensione fusion di David Sanborn.