Gent Jazz Festival – X edizione
Direttore artistico: Betrand Flamand Gent – Belgio, 7-10 luglio 2011 di Antonio
Terzo
Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene
nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata
del Bijloke Music Centre.
Giovedì 7 luglio
Ad aprire le danze il quintetto capeggiato da Nathan Daems, sassofonista
vincitore dello Young Jazz Talent 2010, la cui musica si caratterizza per
le spiccate influenze medio-orientali: all'avvio il suo sinuoso soprano imprime
un clima arabeggiante in duo con la batteria di Simon Segers, mentre nel
pezzo successivo con tutto il gruppo — il potente contrabbasso di Sebastiaan
Gammeren ed il piano elettrico di Fulco Ottervanger a fare da controparte
— il tenore ha un suono caldo e tornito. Waltz Libanese è un 3/4 con pregevole
contrappunto del contrabbasso, mentre le tastiere mostrano la notevole tecnica e
fantasia di Fulco Ottervanger nel successivo pezzo, un gustoso5/4 su pedale
basso-batteria. Il chitarrista Bart Vervaeck si mette in evidenza nell'intro del
brano successivo, mentre è ancora il soprano a infondere sonorità turco-balcaniche
in Moo-Barack.
Formazione stellare per Michel Portal,
sopraffino ancista che a Gent ha portato i brani del suo recente successo "Bailador":
Bojan Zulfikarpasic al piano acustico ed elettrico, l'astro nascente
della tromba Ambrose Akinmusire, Nasheet Waits alla batteria e
Harish Raghavan al contrabbasso. Si parte con Dolce, elegante il clarinetto
basso di Portal, intrigante Bojan Z, avventuroso Akinmusire, un punto fermo Raghavan,
spingente Waits. I brani si susseguono, nella loro varietà ritmica, a volte in una
splendida sintesi fra suoni balcanici e mediterranei, su cui Portal offre una fluidità
di fraseggio ancora smagliante, in assolo con i colpi di Nasheet Waits. Acuto rifinitore,
tanto al piano che al Rhodes, collante del gruppo è l'arguto e attento Bojan Z,
capace di accompagnare Portal, assecondare le pruderie del giovane Akinmusire e
duettare con Waits: così scorrono gli 11/8 di Bailador. Portal è una vecchia
volpe del jazz e gli spazi per i suoi supporter sono solo durante gli assolo, mentre
per il resto il quintetto deve funzionare come un'orchestra, sensibile ai suoi desiderata
musicali: Cuba Sì, Cuba No. Ma la canizie è anche indice di saggezza, ed
il bianco nocchiere riesce a fronteggiare un chase con Akinmusire sopra i
tamburi di Waits, inseguendolo e facendosi seguire. Senza soluzione di continuità
Alto Blues, numero lento, reso misterioso e affascinante dal clarinetto basso
— strumento in cui Portal è maestro d'eccellenza — e Bojan Z a dare prova del proprio
lirismo. Parte Raghavan, assorto e assolutamente incurante della pioggia scrosciante
in sottofondo, per la moresca Citrus Juice (Eddie Louiss), in cui Portal
si produce prima al soprano e poi al clarinetto basso, mentre l'acclamato bis,
Tadoran, lo vede ancora al soprano, spumeggiante e sul finale sottile.
Com'era nelle previsioni, l'ultimo concerto della giornata inaugurale registra
il pienone: sul palco il leggendario Sonny Rollins
con una lunga camicia bianca – quasi un Gandalf il Bianco del jazz – scortato da
Peter Bernstein alla chitarra, Kobe Watkins alla batteria, Bob
Cranshaw al basso e Sammy Figueroa alle percussioni. Una formazione molto
agile che mette in evidenza quanto il timbro del Saxophone Colossus sia ancora potente
e solare. Nonostante la veneranda età, Rollins non gioca al risparmio e si spende
per cavare fuori dal suo tenore anche note mai suonate. Il calypso Newark News
mostra Bernstein proprio come la chitarra giusta per questo quintetto, versatile,
fantasiosa, malleabile, mentre Rollins scherza continuamente con i semplicissimi
motivi e crea grande jazz: la ballad Blue Gardenia, la danzante Serenade
dove Watkins mostra di sapere il fatto suo al rullante, quindi un'immancabile ed
entusiasmante Why Was I Born? che alla fine provoca la standing ovation
e, anche questa volta, su invito insistente del pubblico, l'encore con
Don't Stop the Carnival. Un set tutto condotto su un'unica linea direttrice,
senza particolari sobbalzi o impennate. Ma si tratta pur sempre di
Sonny Rollins
e dunque si applaude alla grandezza di un ottuagenario che ha fatto grande, a sua
volta, la storia del jazz.
Venerdì 8 luglio
La seconda giornata si apre con il Quartet Del Cuore – Bruno Van Der Haegen
ai sax, Jo De Geest alla chitarra, Lieven Van Pee al contrabbasso
e Laurens Van Bouwelen alla batteria – affiancato dal contrabbassista italiano
Paolo Ghetti,
che ha curato la preparazione del gruppo e gran parte degli arrangiamenti. A parte
Aspettando Anna dello stesso Ghetti e Helena di
Mauro Negri,
il repertorio ha presentato due pezzi di Cavaquiño fra cui Beija Flor, ed
alcuni evergreen come Black Coffe e Cherokee.
Nel quartetto si sono distinti il contrabbassista van Pee, con la sua potente cavata
ed un pizzicato dal lucido discorso improvvisativo e, con minore enfasi, sassofonista
e chitarrista.
Un grande quartetto per rivisitare un grande del jazz: il tributo a Joe Henderson
ha visto in scena tre musicisti che hanno avuto l'onore di affiancare il grande
sassofonista recentemente scomparso: ossia George Mraz al contrabbasso,
Al Foster alla batteria e un Fred Hersch in grande spolvero.
A questi si aggiunge il sassofonista Eli Degibri, che ovviamente non
si impantana minimamente nell'imitazione di Henderson ma lo omaggia rileggendone
lo spirito. Ottima l'interazione fra i quattro, in particolare di Foster e Mraz,
titolari del progetto, durante gli scambi solistici. La scaletta ha presentato brani
cari a Henderson, come Beatrice di Sam Rivers, Blue Bossa
e Night & Day, ma anche sue indimenticabili composizioni, quali Serenity,
Recordame, scritta da Henderson – secondo i ricordi di Al Foster – quand'era
appena diciassettenne, e Isotope. Oltre alla prima voce di Degibri, quasi
mai fuori posto, ai profondi assolo di Mraz e a quelli sempre coloratissimi e guizzanti
di Foster, il set ha visto un concerto nel concerto, con Fred Hersch capace di incantare
ad ogni suo intervento per la puntualità, la raffinatezza e la linearità del suo
tocco pianistico.
Decisamente per un pubblico di soli jazzofili adulti la performance del DHQ, il
Dave Holland
Quintet che schiera alcuni fra i migliori solisti della scena, connotandosi
per la particolare dotazione strumentale: l'immarcescibile Steve Nelson al
vibrafono e alle marimbe, l'incredibile Robin Eubanks al trombone, l'insostituibile
Chris Potter ai sax e l'implacabile Nate Smith alla batteria. L'energia
prorompe fin dalle prime note, dal sax di Potter fuoriesce un magma di note, magistrale
l'assolo del contrabbassista inglese, duo di fiati vulcanico e risultato esplosivo:
una The Eyes Have It che trascina il pubblico. Il 10/8 di Sum of All Parts,
di Eubanks, è avviata dal trombone, un fiume in piena di note e multiphonics,
con grande creatività, per un tessuto di trame fitte e variegate – i controtempi
di Nelson alle stizzose marimbe – che dà vita a un brano avvincente. A Rio
mette in musica le impressioni della prima volta di Holland nella capitale carioca:
una città non colorata e chiassosa ma piuttosto notturna e solitaria, languida sul
leggero assolo di vibrafono. Walkin' the Walk è altro tempo composto, un
tema malizioso con un Eubanks incisivo ed un incantevole monologo di Holland, fraseggio
repentino e felino. Free for All riscatta Potter al soprano dopo alcune sue
incisioni che evidentemente non gli avevano reso giustizia con questo strumento:
propulsive le batterie di Smith sotto gli avvicendamenti di Eubanks e Potter, in
brillante combinazione. Finale frammentato per l'inserimento di Smith: incredibile
sensibilità e rapidità del pedale alla cassa, e break pirotecnico su rullante e
charleston. Il pubblico è in visibilio ed il bis è presto accontentato con Easy
Did It, dedicato alla città di New Orleans.
Ha lasciato invece perplessi la "World Sinfonia" di Al Di Meola
che, con alte vette di virtuosismo chitarristico e sincere intenzioni artistiche,
ha condotto nel suo mondo sinfonico, coinvolgendo quel rifinito pianista che è
Gonzalo Rubalcaba, ospite d'eccezione di questo tour, nonché il fisarmonicista
italiano Fausto Beccalossi, il chitarrista Kevin Seddiki e le percussioni
di Gumbi Ortiz, senza però prendere fino in fondo: una musica sicuramente
raffinata, ricca di sfumature gitane e aromi vari ma difficile da seguire, che ha
richiesto moltissima attenzione senza ricambiare corrispondenti emozioni. Anche
le diverse permutazioni dei solisti hanno solo in parte ravvivato la musica: prima
Misterio senza il piano, poi Mawazine in duo Di Meola e Rubalcaba,
buona la loro intesa, quindi tutto il gruppo senza la batteria per Brave New
World e le inflessioni spanish di Double Concerto, e a seguire il trio
Di Meola-Seddiki-Beccalossi per Michelangelo's. Musica che stordisce, narcotizza,
risucchia nella sua grandiosità senza dare modo all'ascoltatore di goderne: Turquoise
è forse il momento più emblematico, c'è pathos sul palco ma ne arriva poco
all'auditorio. Più penetrante la fase finale: due momenti solistici, prima il pianista
cubano con una ninna nanna quasi impressionistica, e poi il chitarrista, molto delicato,
quindi ancora cambi in organico per Café 1930, e infine chiudere in ensemble
con Chiquelin. Il pubblico si scuote e chiede un rientro: parte Siberiana,
un boato dalla platea.
Sabato 9 luglio
Della giornata dedicata al blues, inserita probabilmente per accontentare gli sponsor
e richiamare gente, a convincere più di tutti è il gruppo Steven De Bruyn, Tony
Gyselinck & Roland, il primo all'armonica, il secondo alla batteria, il terzo
alla chitarra. Una sorta di blues progressivo, per smentire chi pensi che questo
genere sia ripetitivo e suonato solo su tre accordi. I tre sono ad ogni brano sorprendenti:
c'è dentro medio-oriente, tango, elettronica – a tratti persino la slide guitar
è filtrata – ed i brani sono molto variegati, minimo comune denominatore il riff
battente e le improvvisazioni. Ed anche queste vedono De Bruyn darsi da fare con
l'armonica, l'armonica basso, filtri ed effetti a trasfigurarne il suono, una mini
chitarra e perfino una chitarra-tastiera con soli 4 grossi pad. Fra i numerosi pezzi,
Round Up and Down, con la voce ora nasale ora grottesca di Roland, My
Baby Don't Care, in omaggio a
Nina Simone,
una ballad, un po' di Mississippi blues e tanto divertimento. Qualche effetto elettronico
in meno ed un paio di colpi in più, magari un break acustico, non avrebbero guastato
alla potenza ritmica del batterista. Ma il concerto è stato senz'altro divertente.
Nonostante le passate glorie, Mavis Staples invece è riuscita a
coinvolgere soltanto chi aveva nostalgia delle Staple Singers: vari canti gospel
come Wade in the Water, sermoni in stile Baptist Church, una ballad scritta
dal patriarca Roebuck "Pops" Staples nel 1962, ed in chiusura I'll Take You There
of the Weight e Too Close to Heaven. La sua voce consumata graffia appena
ed anche il gruppo, salvo forse il cantante solista, resta attaccato ai cliché
di questa musica.
Tutto esaurito in ogni ordine di fila e posto per il concerto del mitico B.B.
King, la cui esibizione tuttavia è stata a livello del minimo sindacale: un
lungo brano di riscaldamento della band, poi l'ingresso del King of the Blues, cerimonia
di "imbracciamento" della chitarra Lucille, giro di presentazione dei musicisti,
e finalmente, inframmezzato da tante parole, un po' di grande verace blues: Rock
Me Baby, Every Day I Have the Blues, One Kind Favour. Pochi gli
assolo della band, anche meno quelli del Re, che si spende davvero poco, anche se
quando canta e suona il blues lo fa come se non avesse il carico dei suoi 85 anni.
Ultimo brano, l'effervescente Thrill Is Gone, il pubblico balla elettrizzato
e avrebbe voluto un bis: ma in un attimo è finita la magia del blues.
Domenica 10 luglio
L'ultima giornata è all'insegna del jazz più improvvisato e declinato in molte delle
sue accezioni. Si comincia con Rêve d'Eléphant Orchestra, settetto delle
meraviglie che concilia Duke Ellington ed il suo jungle jazz con le più moderne
spazialità elettroniche, artefici in testa il tubista e trombonista Michel Massot
ed il batterista Michel Debrulle, nonché tutti gli altri singolari solisti,
dal trombettista Alain Vankenhove al flautista Pierre Bernard, dal
chitarrista Benoist Eli ai percussionisti Etienne Plumer e Stephan
Pougin. I groove sono ipnotici, gli assoli ben articolati, le atmosfere spaziano
dalla musica orientale ai ritmi nordafricani e il concerto trova godibilità a molteplici
livelli. Particolarmente versatile Massot, tanto alla tuba che al trombone, ma anche
Vankenhove con l'harmonizer opportunamente dosato su tromba e flicorno. Spesso i
brani concatenati senza soluzione di continuità non permettono al pubblico di tributare
l'applauso finale al solista di turno, mai come in questo caso meritati. Percussioni
a tutto spiano ed obbligati all'unisono, varietà di stili e babele di linguaggi
per O cieco mondo, di lusinghe pieno del compositore trecentesco Jacopo da
Bologna, mentre l'ultimo brano è avvolgente e magnetico, con un altro nitido e rigoglioso
fraseggio di Massiot.
Il concerto successivo vede sul palco il quintetto di Terence Blanchard,
introdotto dal giovanissimo pianista cubano Fabian Almazan che da solo avvia
la sua Pet Step Sitters Theme Song: vorticoso il tenore di Brice Winston,
Blanchard è un elogio della misura quando suona senza effetti, risparmia le note,
si appoggia alle pause, costruisce pian piano l'assolo e poi esplode con l'harmonizer.
Il prodigioso Almazan sviluppa le sue frasi nell'arco di poco più di un'ottava prima
di portarsi sulle note più estreme del piano. Formatosi con
Lionel Hampton
e i Jazz Messengers di Art Blakey, il trombettista di New Orleans sa cosa sia la
tradizione, e la sua rilettura di Autumn Leaves lo dimostra:
ottima la sottotraccia fornita dall'instancabile Kendrik Scott, in evidenza
nel duetto con il leader. Dolcissima Ashé di Aaron Parks, dall'album "Tale
of God's Will", che impegna la band – presentata dal leader con ottime capacità
di intrattenitore – ad un diverso stadio di sensibilità. Nell'ultimo brano previsto
il trombettista è doppiato dal tenore di Winston, ed affiora il grande rigore che
il capitano chiede ai suoi musicisti, la chiave perché tutto sia al suo posto ed
ognuno possa esprimersi anche in modo personale. Una magnifica performance, che
merita l'acclamazione del pubblico per un ultimo pezzo: Wonder Wandering,
già un classico, con Blanchard che si concede ancora all'effettistica e la band
ormai montata ed effervescente.
Ha decisamente convinto il Soulbop di Randy Brecker e Bill Evans,
spalleggiato da uno dei trii più eclettici della moderna musica improvvisata: John Medeski, Billy Martin e Chris Wood,
che festeggiano 20 anni di musica insieme. Evans ne esce sicuramente rivalutato
rispetto al suo precedente Blue Grass, mentre Randy Brecker rappresenta l'elemento
"classico", dall'alto della sua esperienza hard-bop: entrambi hanno letteralmente
sguazzato dentro le liquide strutture amniotiche del trio MMW. Medeski è un architetto
di volumetrie, incredibile ciò che riesce a fare zampettando e smanacciando sulle
sue tastiere, o imboccando un'effettata diamonica; Martin equilibra in modo lucido
le intemperanze del compagno; e Wood, per non farsi mancar nulla, tira fuori l'archetto
per un avvio quasi avanguardistico di quella che sarà una pungente rilettura della
monkiana Well You Needn't.
La settimana jazz del Gent Festival viene chiusa dal supergruppo Return to
Forever IV: un Chick Corea smagrito ma in ottima forma, alcuni dei pilastri più
longevi quali il poliedrico Stanley Clarke al basso, l'instancabile
Frank Gambale
alle chitarre e il roboante Lenny White alla batterie, ed un elemento di
assoluta novità, ossia il tocco magistrale e signorile di Jean-luc Ponty
al violino. C'è da dire che la parte più pregnante del concerto è stata la seconda,
a fronte di una prima serie di brani – forse i primi tre: Medieval Overture,
Señor Mouse e l'articolato binomio Sorceress/Shadows of Lo – in cui
sembrava esserci poca organicità. Si sono avvicendati pezzi elettrici ed acustici:
fra i primi, più d'effetto e trascinanti, è sicuramente da annoverare A Dayride
in Oakland, con Gambale incisivo e spericolato, ed un frizzante dialogo fra
Clarke e White; fra i pezzi acustici, molto più genuini, ha spiccato After the
Cosmic Rain con un inarrestabile Ponty. Ovazioni per Spain e Romantic
Warriors, ed inevitabile bis con School Days. Come l'araba fenice,
Return to Forever risorge ormai dalle proprie ceneri, e dunque considerata che
questa è la quarta edizione di un progetto iniziato praticamente 40 anni fa, il
concerto è stato almeno all'altezza della sua storia.
Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi
nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici
sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena.
Per completezza di informazione, la seconda settimana, dal 14 al 17 luglio, si
è svolta nel segno di una musica a più ampio respiro, ospitando: Philip Catherine,
Jef Neve Trio, Sing The Truth: Angelique Kidjo,
Dianne Reeves
& Lizz Wright, Agnes Obel, Absynthe Minded, Angus & Julia Stone, Nouvelle Vague,
Raphael Saadiq, Gotan Project, BackBack, Red Snapper, Morcheeba, Daniel Lanois'
Black Dub ft. Trixie Whitley &
Brian
Blade.