Piacenza Jazz Fest 2018 XV Edizione 17 febbraio - 27 marzo di Aldo Gianolio foto di Angelo Bardini
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Il Piacenza Jazz Fest ha compiuto quindici anni festeggiati nei
migliori dei modi, con una edizione ricca, varia (anche con gruppi musicali extra-jazzistici)
e di qualità: un fiore all'occhiello per la città, che continua a rispondere con
calorosa partecipazione (anche grazie all'ottimo lavoro organizzativo dell'Associazione
culturale Piacenza Jazz Club).
Il cartellone principale (a cui sono stati affiancati
diversi altri eventi "collaterali" sia in città che a Salsomaggiore, Monticelli
D'Ongina, Stradella e Fiorenzuola d'Arda) è stato formato da nomi importanti del
panorama internazionale e nazionale, con concerti dal 17 febbraio al 27 marzo, fra
cui quelli di Mauro Ottolini, Dave Douglas con
Uri Caine,
NNenna
Freelon, Vijay Iyer, Michel Portal con Sclavis,
Lee Konitz e Toquinho (per il programma completo vedere
il sito
del festival). Noi abbiamo assistito a tre concerti: Iyer, Portal e Konitz.
Il pianista Vijay Iyer si è esibito il 13 marzo al Conservatorio Nicolini,
in piano solo.
Iyer suona (e registra) soprattutto in trio; di recente anche con un fenomenale
sestetto che ha inciso il disco Ecm "Far From Over"; ma restituisce pienamente la
sua poetica anche in solo, come ha dimostrato al Nicolini, con una musica personale
e per molti versi innovativa, anche se legata, come nella maggior parte dei grandi
artisti, alla tradizione (una tradizione fatta rivivere sotto altre forme, non più
resa "inoffensiva" da una pratica di maniera) e anche, per vie traverse e mediate,
alla musica popolare. Per Iyer la tradizione ("prossima", non "remota") è rappresentata
certo da Thelonious Monk (Rocky Mount, 10 ottobre 1917 – Weehawken, 17 febbraio
1982), ma soprattutto da Andrew Hill, Lennie Tristano e Paul Bley; la musica popolare,
da quella indiana tamil (lui è indiano americano, figlio di immigrati), ma anche
a sprazzi l'africana e la balinese: tutte sollecitazioni accolte attraverso una
sensibilità contemporanea e colta. Così, come altri rappresentativi pianisti delle
recenti generazioni (da Uri Caine a Jason Moran, da Matthew Shipp a Craig Taborn),
ha preso una direzione che evita sia il romanticismo di
Bill Evans
e dei succedanei (Keith
Jarrett e
Brad Mehldau),
sia il tumulto del free e dell'informale, recuperando da questo semmai solo la
gentle side di Cecil Taylor (quella di "Fly", edito dalla MPS, per
intenderci). In solo il distillato è più puro, il sapore più preciso, l'aroma più
incontaminato, assumendo connotati un po' più cupi e meditabondi del consueto: non
c'è scherzo, gioco, ilarità, ma un greve senso di oppressione senza spiragli di
speranza. La fantasia del quarantaseienne artista newyorkese sembra avere individuato,
senza compiacimento alcuno, il punto che unisce e divide la forma e l'informale,
applicando una propria sottile concezione sia del plenum che del vacuum,
sia del tempo che del metro, muovendo il tutto attraverso varie temperate complessità,
densità e trasparenze armoniche che incrocia a più o meno serrati lucidi melodismi.
Iyer giostra la concatenazione degli episodi e l'uso drammaturgico dei silenzi e
delle pause con un suono preciso, rotondo e pulito e una improvvisazione nitidamente
delimitata, seppur fittamente elucubrata. In ognuno dei brani eseguiti (da "Work"
di Monk, che si è lentamente trasformato in una sua composizione, "Libra"; ad altri
brani scritti da lui, come "Spellbound and Sacrosanct" e "Autoscopy"; da "Night
And Day" che va a finire nello strayhorniano "Blood Count", a "Countdown" di
Coltrane che va a finire in "Black And Tan Fantasy" di Ellington; e nei due bis,
il suo "Remembrance" e "Stable Mates" di Golson) si entra subito nel vivo del racconto,
non importa se con leggeri, calibrati e spaziati passi danzanti o con decise aperture
di porte che subito rivelano mondi arzigogolati, seguendo certe tipiche cicliche
ossessioni ritmiche (derivate dalla musica carnatica e dal minimalismo), demolendo
i confini fra tema e improvvisazione, non individuando dove l'uno cominci e l'altra
finisca, e viceversa; e anche se le improvvisazioni non sembrano seguire alcuna
sequela preordinata, l'alea è bandita e impera la logica, addirittura una logica
matematica, piena dei rimandi di cui si è detto. Affrancando il particolare dalla
totalità costrittiva e facendo risultare ogni nota, frase e sviluppo privi di un
unico centro, Vijay Iyer crea un affresco scuro e inquieto, spogliato da qualsiasi
orpello di retorica.
Il Michel Portal Quartet ha suonato nella Sala degli Arazzi il 17 marzo.
Con il leader Portal al clarinetto e clarinetto basso, erano Louis Sclavis,
suo "modello" e maestro, sempre al clarinetto e al clarinetto basso, Bruno Chevillon
al contrabbasso e Daniel Humair alla batteria. A parte Humair, sono musicisti
di estrazione accademica che non possono che dare vita a un jazz cameristico con
forti influenze (di sonorità, tecnica ed espressione) classicheggianti, dove comunque
jazz e musica dotta occidentale (Alban Berg), ma anche quella folklorica, specialmente
orientale, vengono perfettamente mescolate, cancellando ogni distinzione. Hanno
eseguito nove brani da loro composti (quasi tutti da Portal), fra cui l'iniziale
"Dulce", poi "Voyage", "Max Mon Amour" "Matinerie" e "Judie Garland, dai colori
scuri e mezze tinte in grigio (Humair spesso ai tamponi e al timpano), con momenti
d'insieme forti e brulicanti, spesso contrappuntati attraverso una precisa e sapiente
scrittura, ma anche con calcolate, seppur estemporanee improvvisazioni, sempre facendo
risaltare la bellezza delle sonorità degli strumenti.
I quattro si conoscono da tempo, collaborando in diverse occasioni e in gruppi che
hanno fatto la storia del jazz europeo. Con l'intesa superiore maturata in tante
collaborazioni, anche composizione e improvvisazione si confondono, integrandosi
e compenetrandosi con estrema naturalezza, in una continua esplorazione delle interazioni
fra melodia e armonia e delle connessioni più recondite fra i differenti suoni dalle
infinite sfumature timbriche, piene di arcane risonanze.
Un luogo ancora diverso è stato per
Lee Konitz, che ha suonato il 20 marzo al Milestone, in due set
per andare incontro al grande numero delle richieste. Accompagnato da Florian
Weber al pianoforte, Jeremy Stratton al contrabbasso e George Schuller
alla batteria, il novantunenne Konitz, arzillo e spiritoso, durante l'esibizione
ha litigato col suo sax alto, da lui a più riprese pubblicamente accusato di non
funzionare (voci di corridoio attestano che non lo tratti con la dovuta attenzione
quando lo appoggia su superfici dure, ammaccandone i tasti), quindi lasciando ampio
spazio agli eccellenti compagni e pure cimentandosi al canto con voce esile, un
po' fragile, e fascinosa. Nel primo set ha cantato di più e suonato di meno, rispetto
al secondo, dove è stato più volitivo e presente sullo strumento, interpretando
i suoi brani preferiti, da lui più battuti in carriera: "'Round Midnight", "What
Is This Thing Called Love", "Subconscious Lee", "Stella By Star Light" e "Kary's
Trance". Konitz evoca lo stile di un tempo facendo signoreggiare la melodia in tutti
suoi rivolti, ma asciugando la tecnica e dandosi, nelle scarne improvvisazioni,
a una sorta di minimalismo pigro e dinoccolato di note rade e un po' acri, distribuite
con la massima parsimonia.