Il concerto di Brandford Marsalis
è alle 21, sono le 20,50. E' il primo concerto della sua ultima sera al
Blue Note di Milano. C'è ancora fila fuori, è compostissima, c'è un vociare riservato e si sentono anche frasi in inglese e tedesco. Ci si stupisce persino che gli italiani si mettano a due a due, senza dare segni di intemperanza. Attendiamo che la security ci faccia entrare, non appena quelli davanti a noi si saranno sistemati. La fila è piuttosto lunga: speriamo non piova perché siamo all'aperto. Arriva il "furbo" che passa sotto il nastro della transenna senza neppure voltare lo sguardo...
Non sono qui per una recensione del concerto, ma comunicherò ciò che vedo e sento, fortemente influenzata dai temi di marketing e di comunicazione cui spesso faccio riferimento nel mio lavoro.
Entro: si ha la strana sensazione di non essere stupiti, la sensazione di esserci già stati. L'impronta è inconfondibile: la stessa di tutti gli altri
Blue Note nel mondo, che ho visto solo in fotografia, ma è sufficiente. In conferenza stampa
Paolo Colucci, ideatore, socio e avvocato d'affari milanese, aveva parlato di
franchising. Casa Blue Note ci ha messo l'impronta, tutta la sua esperienza e l'immagine che si è guadagnata negli anni.
Il locale era una fabbrica, ci si passava di fianco frettolosamente cercando di evitare l'assembramento di auto sul marciapiede, ora è il Blue Note di Milano, il primo aperto in Europa da quella che oramai possiamo considerare una catena.
Certamente è un'impresa a tutti gli effetti, anche se fa jazz, e rispetto alla programmazione futura
Nick the Nighfly, dj di Radio Montecarlo e direttore artistico del locale, ha anticipato che entrerà anche altra musica e la proposta non si attesterà solo al livello internazionale ma saprà alternare, alle star, nomi meno noti ma non per questo meno interessanti, dando anche spazio ai giovani.
Il Blue Note di Milano, a mio avviso, introduce una fondamentale novità nel panorama dell'imprenditoria jazz in Italia, perché è chiarissimo che dietro questa impresa c'è un progetto di investimenti (importante), imprenditoriale (specifico), di marketing (come ci si muove sul mercato) e comunicazione (cosa si dice, come si comunica), alleanze (Radio Montecarlo) e la ricerca del prestigio.
Tutto questo non toglie nulla, ma semmai aggiunge, alla musica e cerca di creare l'ambiente ideale perché l'arte possa esprimersi rispettata. Dice (almeno a me così sembra) che tutti i criteri che vengono applicati al mercato della musica commerciale possono essere applicati altresì al jazz e che, per fare in modo che un genere arrivi e con successo, sia meno rischioso farvi riferimento. Questo lascia,
passatemi la battuta, "l'improvvisazione" ai musicisti e sembra anche
affermare che la ricetta dell'esito positivo abbia ingredienti programmabili e certo, purtroppo, molto costosi soprattutto quando l'impresa che
si vuole affrontare ex novo ha le dimensioni di un locale come il Blue Note.
Altra cosa che trovo interessante è il fatto che un team di persone, amanti del jazz abbiano deciso di investire proprio lì il loro denaro, dimostrando che forse non è più un genere così di nicchia. Ed ecco il Blue Note, fino ad oggi sempre pieno, e a quanto ne so in occasione di entrambi i concerti quotidiani, a rispondere a chi gufava, me compresa, che far uscire la gente di casa è difficile.
L'entrata è poco più sollevata del palco, cosa che dà l'impressione di essere a teatro, gli spettatori sono tutti seduti ai tavoli. Chi ha cenato, chi non ha resistito ad uno spuntino, chi ha una minerale con due bicchieri davanti. Il pubblico è trasversale: dai ragazzini con il chiodo, alle signore attempate in mess'in piega. I tipici tavoli da quattro sono tutti messi in modo che ci si passi con agio e, contemporaneamente, così vicini che quasi si finisce schiena a schiena.
Il concerto inizia in ritardo ma non di molto. Applausi, salgono sul palco
Branford Marsalis (sax soprano e tenore), Joey Calderazzo (piano),
Eric Revis (contrabbasso), Jeff "Tain" Watts (batteria). Poi parte Marsalis. Io non mi addentrerò in ambiti strettamente musicali, la critica la lascio a chi la fa di mestiere, ma non posso non sottolineare quanto questa atmosfera giovi alla musica, l'attenzione del pubblico è rilassata ma non superficiale.
La musica vola e conquista il suo spazio, il pubblico ha occhi solo per il palco, i soli vengono applauditi, non tutti, quando è bello è bello e quando non regge non regge, e allora si capisce che i presenti se ne intendono e che non sono molti quelli che sono lì solo per un fatto i costume.
Girando un po' ti accorgi che l'acustica è buona dappertutto ed anche la visuale: sopra, in balconata e pure sul fondo, in quella che sembra essere la galleria di un cinema.
Poi ridiscendi, guardando in alto vedi i palazzi intorno in cui si vive la vita di sempre, attraverso una porzione di tetto trasparente, e ti ricordi che sei a Milano.
Poi c'è un po' di trambusto e arriva Antonio Zeni, responsabile del locale, trasportando un tavolo e alcune sedie. Poi arriva Chick Corea e si siede.
E allora realizzi che quello che hai sempre letto sui libri che parlano della storia del jazz sta per accadere sotto i tuoi occhi: al piano nei due bis successivi, non c'è Calderazzo. Ed è avvenuto per caso. Speriamo continui.
Clara Salina