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Quattro chiacchiere con… Fabrizio Savino
A cura di Alceste Ayroldi
aprile 2013

Fabrizio, nel 1998 hai iniziato a suonare la chitarra. Chi, cosa o come e perché hai scelto questo strumento?
Non c'è una ragione o motivazione ben precisa. Ricordo solo che a casa di mio nonno c'èra una chitarra classica non in ottime condizioni con solo due corde. Ripensadoci rivivo ancora il clima dopo pranzo, dove, a volte, mi mettevo nel giardino e provavo a suonarla. Poi ho lasciato tutto e verso i sedici anni ho ripreso lo strumento in mano e non l'ho più abbandonato.

Nel 1998 avevi diciassette anni. Ora, è sempre difficile vedere un adolescente che si appassiona al jazz. Chi è stato il tuo mentore in tal senso?
La passione per la musica in genere me l'ha trasmessa mio fratello. Lui mi ha fatto conoscere artisti come Hendrix, Zappa, Queen, Led Zeppellin, Davis, Coltrane, Mozart, Bach, Stravinskij, Bartók, Liszt, Santana, B.B.King etc… Musica a 360 gradi. Poi da quando ho intrapreso lo studio della musica, tutto si è sempre più canalizzato nello studio del jazz e della musica improvvisata. Merito del mio maestro Fabio Zeppetella.



Ti sei diplomato presso Percentomusica, a Roma pur essendo barese. Perché questa scelta? E, poi, perché non hai voluto intraprendere gli studi accademici?

Quando ho capito che la musica stava prendendo piede nella mia vita e non riuscivo più a farne a meno ho deciso di iniziare a studiarla in maniera seria. La scelta della Percentomusica è legata alla professionalità dei docenti che c'èra quando decisi di iscrivermi. Volevo studiare musica con chi faceva questo di professione non solo didatticamente ma soprattutto dal punto di vista pratico-lavorativo. Ed è anche per questo che non ho scelto il percorso accademico.

Dopo Metropolitan Prints, arriva ARAM. Prima spieghiamo una cosa: Aram significa, in persiano, quiete. Perché proprio questo titolo?
Perché ho ricercato una "quiete" improvvisativa. Ciò che desidero dalla musica, e di riflesso anche dalla vita, è una serenità espressiva. Inoltre Aram è una dedica ad una persona molto importante nella mia vita.

Senza dubbio hai parecchio meditato, visto che hai atteso quattro anni prima di uscire con il tuo secondo lavoro. In questi anni, musicalmente parlando, cosa è successo?
Dopo M.P. avevo bisogno di rimettere in gioco tutto. Volevo seguire ciò che dentro di me stava diventando un bisogno espressivo ma non riuscivo ancora a codificare musicalmente. Ho deciso di andare più volte a New York per ricercare e studiare il suono che da sempre adoro nell'improvvisazione.

I tuoi riferimenti stilistici, dal punto di vista compositivo, risiedono nel sound newyorchese, ma anche in quello europeo di matrice più nordica. O mi sbaglio?
Il sound newyorkese è presente dentro di me, non posso nasconderlo. L'Europa invece è presente dal punto di vista classico. Ho studiato e ascoltato tanti compositori europei. Non potrei fare musica se non unissi questi due aspetti. Ultimamente sono rapito dall'espressività della musica africana.

Nel disco, oltre a Luca Alemanno e Dario Congedo alla batteria, c'è anche Enrico Zanisi, fresco vincitore del Top Jazz di Musica Jazz nella sezione "miglior nuovo talento". Come hai scelto i tuoi compagni di viaggio? A quali caratteristiche hai badato?
Perché suonano benissimo e sono umanamente favolosi. Quando penso a un ensemble, chiaramente è la musica ha sceglierlo. Una volta pensato agli strumenti inizio a pensare a chi vorrei come musicista. I due fondamenti importantissimi sono, oltre la qualità musicale, il lato umano e la voglia di studiare insieme affinché il sound di un progetto sia valorizzato il più possibile.

Rispetto a "Metropolitan Prints", escono di scena i fiati (Luca Aquino e Raffaele Casarano) ed entra a pieno titolo il pianoforte, che non era presente. Cambio di scena, di sound?
Il piano è uno strumento che ti da la possibilità di pensare la chitarra più come un fiato. Volevo diventare "voce" del nuovo progetto.

Quando hai composto i brani e arrangiato Naima, ti aspettavi poi che il suono restituito sarebbe stato quello del disco? E' andata meglio o peggio?
E' andata molto bene. Sono soddisfatto del suono del disco che rispecchia molto il suono che avevo in testa. Merito è stato anche quello di aver lasciato spazio, durante la session di registrazione, a nuove idee che ognuno di noi proponeva. Ciò che amo di più di Aram è la naturalezza del disco e la sua verità sonora.

Anche nelle tue note al disco (le note di copertina sono firmate da Flavio Boltro, tuo sostenitore e ammiratore), menzioni New York alla stregua della tua musa. A parte l'allure della Grande Mela, cosa ti affascina dal punto di vista artistico di New York?
Innanzitutto colgo l'occasione per ringraziare Flavio per tutta la stima che ha nei miei confronti. Di New York mi affascina la capacità di arrivare prima di altri alla realizzazione di un nuovo modo di fare musica. Lì ho respirato una serenità improvvisativa molto stimolante. Serenità che sfocia anche nel assoluto rispetto di chi è artisticamente e comunicativamente più avanti. New York è piena d'arte non solo musicale. Inoltre sanno anche fare business legato alla musica; non male considerando lo stato attuale della musica in Italia. Abbiamo tanto da imparare.

Sette composizioni originali e solo un brano che è uno standard: Naima di Coltrane. Perché proprio questo brano?
Perché l'armonia del brano è affine al mio modo di scrivere musica. Perché adoro Coltrane. Perché adoro quel brano.

Dietro ogni composizione ci sono delle sensazioni, c'è un qualcosa che ha ispirato il musicista. Il primo brano è Into My Mind: cosa c'è nella tua mente?
Tanta musica. Into my mind è una sorta di viaggio sonoro intorno ai miei pensieri, stimoli ed emozioni. Dalla matematicità che mi caratterizza fino al flusso sregolato di stimoli. Quando maturo un suono, l'emozione è a farne da padrona. Poi man mano che le idee diventano più chiare, inizio a codificare il tutto e ultimo passaggio inizio a suonarlo. Tutto ciò esiste dentro me.

Facciamo finta che Aram non sia ancora uscito e che devi ancora formare il gruppo e che hai a disposizione una produzione economicamente illimitata, chi avresti voluto al tuo fianco?
Domanda molto difficile. Nel senso che confermerei il quartetto originale, per i motivi umani e tecnici dei musicisti che ne hanno preso parte. Poi inizialmente avevo anche pensato ad invitare come ospite Mark Turner, ma l'idea è andata scemando. Pensandoci, un sogno nel cassetto è di registrare un disco con Aaron Goldberd al piano, Reuben Rogers al contrabbasso e Antohny Jackson alla batteria.

Non è facile imbattersi in un giovane musicista che, in entrambi gli episodi discografici metta in un angolo gli standard per suonare solo brani suoi. Sei contrario agli standard o alle cover?
Non sono contrario agli standard. Per adesso la mia esigenza di scrivere musica è maggiore. Ho sicuramente in progetto uno standard trio, ma devo ancora fare un percorso musicale tale da potermi esprimere in modo personale e suonare uno standard senza cadere in qualcosa di riconducibile ad un canone sonoro. Una mia voce, una mia espressività sonora.

E' anche non facile, di questi tempi, trovare qualcuno fedele alla casa discografica, l'Alfa Music nel caso di specie. Come è nato questo connubio?
Ciò che mi lega ad AlfaMusic è soprattutto la loro professionalità. Con Fabrizio Salvatore (manager della Label) ho instaurato un rapporto di stima e di amicizia che fin'ora ci ha permesso di fare tante belle cose. Per adesso non poteri pensare ad un'altra etichetta se non loro. La squadra c'è e quindi perché cambiare?

Quali sono le maggiori difficoltà che un giovane musicista deve affrontare in Italia? E, in base alla tua esperienza, è così anche altrove, all'estero?
L'estero l'ho vissuto maggiormente dal punto di vista di crescita artistica. In Italia le difficoltà per un giovane musicista sono troppe. Dal fatto che sei e rimarrai sempre un emergente confronto con i grandi nomi italiani, fino al fatto che la musica (intesa come produzione artistica) non ha spazi e non è riconosciuta socialmente.

Visto che conosci bene entrambe le aree geografico-musicali, quali sono le principali differenze tra il jazz statunitense e quello italiano?
Sicuramente la cultura sociale legata al jazz. Poi la cosa che ho notato maggiormente (chiaramente parliamo di una mia esperienza) è stato l'approccio a volte "semplice" all'arte dell'improvvisazione. In Italia ho visto spesso gente "atteggiarsi" di jazz…in America ho visto spesso gente "fare" del jazz. (sottolineo: mie esperienze).

Negli States ci sono tanti jazzisti interessanti, però in Italia arrivano sempre gli stessi, alcuni anche abbastanza cotti, bolliti. Secondo te è colpa del pubblico che è poco curioso?
Diciamo che la curiosità è la ninfa dell'evoluzione. In Italia c'è un appiattimento della curiosità legata all'arte. Ci troviamo in un'epoca consumistica e ciò si rispecchia soprattutto sui giovani, futuro di una società. Chiaramente tutto ciò indebolisce la ricerca e anche il grado di attenzione. È più semplice assistere a (o organizzare) concerti di musicisti di grande fama che impegnarsi in un ascolto anche di artisti poco conosciuti alla grande massa. Questo perché, molte volte, si va ad un live sapendo un po' già cosa si sentirà, senza correre il rischio di assistere a stimolazioni sonore differenti dal comune o semplicemente personali e quindi difficili da ricondurre ad una song o suono conosciuto.

Cosa ti aspetti da questo disco? Quali sono i tuoi progetti futuri?
Personalmente che mi apra una nuova direzione del far musica, artisticamente parlando. Penso sempre alla realizzazione di un disco come chiusura di un modo di pensare musica ed un apertura ad altri suoni. Dal punto di vista professionale che mi dia un po' più di spazio e visibilità nella scena del jazz internazionale. Progetti per il futuro? Tantissimi. Nel frattanto sto meditando e ricercando un nuovo suono nel mio modo di pensare e far musica. Penso a due realizzazioni discografiche (per adesso senza idea di tempo), una in trio ed una in guitar solo. Inoltre penso sempre più alla possibilità di trasferirmi in Europa.







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Data pubblicazione: 25/05/2013

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