E alla fine il giorno dell'evento
arrivò.
15 Luglio, Keith Jarrett torna in Italia e stavolta lo fa con Gary
Peacock al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria, in sintesi
una
delle formazioni più importanti dell'intera storia del jazz. E l'attesa è
stata febbrile, caratterizzata anche da qualche polemica (prezzi troppo
elevati, biglietti esauriti già a due giorni dall'apertura ufficiale delle
prevendite) e da molta curiosità: come starà Jarrett? Le sue condizioni di
salute di cui si è parlato, senza per la verità molte certezze, negli ultimi
due, tre anni, saranno tali da consentirgli di regalarci una performance ai
suoi livelli?
Perugia, Giardini del Frontone
ore
18,00; mi aggiro davanti ai cancelli (aperti) alla ricerca del posto dove
ritirare i miei biglietti fino a che, si sa, un passo tira l'altro, mi ritrovo
in pratica sul palco, dove i tecnici lavorano agli ultimi preparativi.
Due
sono gli Steinway a disposizione di Keith, uno sarà scelto per il
concerto, l'altro verrà smontato e rimesso nel T.I.R. da cui è appena
uscito. Alle
18,30
viene giù il diluvio e cominciano i grattacapi per gli
organizzatori: il soundcheck è problematico e (poteva mancare la nota di
colore?) pare che Jarrett non voglia suonare perché fa freddo (?!).
Quando
alle
21,00
comincia ad entrare il pubblico sono queste le voci che girano tra
i tantissimi fan accorsi da tutta Italia e non solo. Nonostante si parlasse di
tutto esaurito ormai da settimane, vengono messi in vendita all'ultimo momento
biglietti per posti in piedi, scelta comunque discutibile, dato che, essendo
lo spazio utile per un'agevole visione riservato tutto per i posti a sedere,
avere un biglietto per un posto in piedi equivale a cercarsi un'improbabile collocazione nel restante spazio dei giardini, tra aiuole ed
alberi, o a distanze eccessive o con angolazioni improponibili...ma tant'è.
C'è solo il tempo per lo speaker
di pregare insistentemente di spegnere i cellulari, di non scattare foto col
flash (per contratto neanche i fotografi accreditati possono farlo), di
annunciare che il concerto consisterà di un solo set e poi il trio fa la sua
trionfale apparizione tra l'ovazione generale. Accanto al piano sono state
piazzate due stufe e prima ancora di iniziare, Jarrett chiede a gesti ai
tecnici di aumentare al massimo il livello delle luci sul palco. Poi si parte.
Dirò subito che il concerto è stato un'esperienza assolutamente
eccezionale. I tre hanno mostrato a più riprese di "esserci"
completamente, di godere delle direzioni impreviste che istante per
istante la musica prendeva, di chiamarsi e di rispondersi costantemente, di
"suonare" davvero. Al secondo brano Jarrett, mentre ancora scroscia
l'applauso si alza dal piano, si avvicina a Peacock dicendogli qualcosa e
staccando un tempo lento; Gary parte con un tranquillo walking bass su armonie
familiari e gli altri due si uniscono a lui senza che Jarrett accenni
minimamente al tema. Improvvisa alla sua maniera, un flusso inesauribile ed
appassionante di idee, frasi, melodie cantabili e quei suoi gridolini: eccolo,
è lui, Keith Jarrett ci sta suonando un
"Round Midnight"
che
ricorderemo a lungo. Il tema di Monk emerge solo dopo l'improvvisazione del
contrabbasso ed è come una scoperta gioiosa. E poi il finale. E
un'altra ovazione. La versione di
"But Not For Me"
è stupenda per
il rispetto assoluto, in tutta la prima parte, del tema e dello spirito stesso
della canzone, segue un assolo nel quale non una nota è fuori posto, larghi
spazi tra i suoni, sapiente spostamento di accenti ritmici da parte di tutti,
grande senso del blues (a me è venuto in mente Miles) e diventa poi spigolosa
e addirittura inquietante quando nel finale il tema viene sconvolto da una
riarmonizzazione nella quale è ancora (con difficoltà) riconoscibile la
melodia originale, ma sommersa dai clusters del piano, dissonanze che
spingono l'ascoltatore lontanissimo dal clima di pochi istanti prima, una
tensione palpabile che si scioglie nell'ennesimo lunghissimo applauso.
Non manca il blues, un classico
"Straight No Chaser", ancora Monk, nel quale sono dilatati i limiti
armonici e ritmici delle classiche 12 battute sulle quali evidentemente non
ancora tutto è stato detto.
"John's Abbey"
è un
tema di Bud Powell nel quale emerge l'anima be-bop del trio. Le volate di
Jarrett sono una più entusiasmante dell'altra, i tre viaggiano sicuri e
sempre perfettamente in sintonia, gli scambi con DeJohnette sono fantastici,
c'è una bella atmosfera tra loro sul palco, si guardano, si sorridono, Keith
lancia i suoi inconfondibili urletti che tanto urtano i suoi detrattori e
tanto divertono i suoi sostenitori e noi in platea godiamo.
Dopo un'ora circa di musica (in
effetti un po' pochino considerando costi e disagi di chi è arrivato dai
posti più disparati per vederlo) Keith e i suoi si alzano, si inchinano ed
escono dal palco. Poi inizia il balletto delle loro apparizioni, inchini e
nuove sparizioni con il sottofondo delle urla incessanti e degli applausi e la
scenetta si ripete infinite volte. I bis sono due ed il secondo (ultimo pezzo
della serata) è
"When I Fall In Love", altro classico del
repertorio del trio, in una versione che ha veramente colpito duro le
sensibilità dei presenti e aperto i rubinetti delle lacrimucce di tanti. Il
tema struggente, armonizzato con la solita delicatezza è seguito da una prima
sentita improvvisazione del piano, poi è la volta di Peacock ed alla
fine, per la prima volta in tutta la serata, Gary e Jack lasciano Keith da
solo dopo l'esposizione dell'ultimo tema. Ed è qui che il pianista di
Allentown ci prende per mano e, abbandonando la struttura armonica della
canzone, ci porta con lui in
uno di quei suoi viaggi seguendo la musica dove
la musica stessa decide di andare. Sono pochi minuti ma intensissimi, canta,
armonizza in modo incantevole, segue la melodia che nasce estemporaneamente
per poi chiudere con gli altri due con l'accordo finale. Brividi. Si inchinano
un'ultima volta, salutano e vanno via.
E io ero felice.
Si può chiedere
di più ad una serata di musica?
Antonio Iammarino
antoiam@tin.it
Alle
emozioni di Antonio Iammarino, si aggiungono quelle di Paolo Braschi,
un altro che il 15 luglio 2000 era a Perugia |
Keith Jarrett
è un musicista che, per sua natura, divide in due: o dà emozioni forti, come quelle di sabato sera a
Perugia, o lascia indifferenti e scettici. Sulle sue capacità tecniche, credo che nessuno abbia da eccepire; sul suo
personaggio, schivo, egocentrico, antipatico, chi come me lo adora può solo sorvolare, sostenendo che
"tutti i geni sono un po' ignoranti".
D'altronde, chi è innamorato perdona qualunque difetto!
L'ho visto tre volte, con il trio: quattro anni fa, sempre al
Frontone, fu uno shock: ricordo quante volte ho
tremato, seguendo i suoi movimenti e le
sue note, e quella serata resterà per sempre dentro di me. L'anno scorso, a Verona, ho tremato di nuovo, questa volta nel rivederlo,
dopo la malattia, poi con un po' di amarezza nel sentirlo "normale", senza quel "qualcosa in più".
Quest'anno, già al sapere che sarebbe stato a Perugia, ho iniziato a tremare. Pur di avere i posti migliori ho fatto decine di telefonate, ho
organizzato il fine settimana con cura, ho fatto il viaggio sotto una pioggia fortissima, con la paura di veder saltare tutto per il maltempo, e
quando le nuvole si sono diradate, mostrando la luna (quasi) piena, come l'anno scorso a Verona, ho pensato "è un miracolo, sì è un miracolo!".
Una incredibile serie di coincidenze, culminate in un concerto
bellissimo, che ha riscaldato una serata che, infine, dopo il concerto ha visto ancora
la pioggia, fortissima! Naturalmente, anche questa volta, ho tremato, anche per il freddo!
E' un genio, per me che ascolto la musica con il cuore, che mi faccio
trasportare dalle sue poche o moltissime note, mai troppe, e mai troppo poche. Ora sogno di sentirlo in un concerto da solo, e spero che stavolta, non come
qualche anno fa a Ferrara, la nebbia non mi impedisca di raggiungerlo, con i biglietti già in tasca!
Dopo aver visto e sentito Miles, lui è l'unico capace, ogni volta, con la
musica, di farmi felice.
Paolo Braschi
paolobraschi@libero.it
A conferma del grande momento di Jarrett & C. ecco cosa dice Massimiliano Farinetti dopo averlo visto e sentito a Juan Les Pin
|
20 luglio 2000
Ieri sera l'ho visto a Juan les
Pins, per la seconda volta dopo Verona 99.
I due concerti non sono minimamente paragonabili: professionale quello di
Verona, entusiasmante e trascinante quello di ieri sera.
I francesi, con la loro grandeur, dicono che la Pinede Gould di Juan Les
Pins sia l'unico posto all'aperto dove a Jarrett piace suonare (lo chiamano "il maestro"): beh, l'Arena è unica, ma un palco naturale sul mare,
affacciato sul Golfo con lo sfondo delle isole di Cannes di certo non è da buttare
(quando poi con "When I
Fall In Love" si sono a messi a cantare i gabbiani...).
Il trio era ispiratissimo, Jarrett e DeJohnette non hanno perso un attimo
per scherzare tra loro, Keith ha dato spettacolo con tecnica.
Lo aspetto da solo al più presto: l'anno scorso ero pronto per la Scala ma
tutto è andato a rotoli.
Massimiliano Farinetti
dycwfa@tin.it
|