Jazz&Wine of Peace 2018 XXI Edizione Cormons (GO), 24 - 28 ottobre 2018 Teatro Comunale di Cormons e varie sedi nel Collio e in Slovenia di Aldo Gianolio
Il festival Jazz & Wine of Peace edizione ventunesima si è svolto
dal 24 al 28 ottobre a Cormons e nei dintorni, nel Collio friulano e sloveno, zona
di produzione di vini fra i più pregiati al mondo, con un ricco e vario cartellone
(qui
il programma).
L'idea del Circolo Culturale Controtempo di accomunare jazz e vino (concerti in
aziende agricole, cantine e tenute con susseguenti assaggi eno-gastronomici) si
è dimostrata già dalle prime edizioni azzeccata con un successo sempre crescente.
Il ricco cartellone dei concerti è affiancato da un altrettanto ricco calendario
di eventi collaterali, a partire dagli appuntamenti di 'Round Midnight nei
locali di Cormòns a ingresso libero, diventati un vero e proprio festival nel festival,
e dalla mostra fotografica itinerante (nei vari luoghi del festival) "Sconfini.
Vent'anni di Jazz&Wine of Peace" di Luca A. d'Agostino.
Sono stati anche presentati libri: quello di Paul Steinbeck "Grande Musica
Nera - Storia dell'Art Ensemble of Chicago", edito da Quodlibet, con Claudio
Sessa, Fabio Ferretti, Pino Saulo e tre componenti dell'AEOC stessa
(Mitchell, Moye e Dudu), prima del loro concerto; "4 x 8.
Cent'anni di vittime dimenticate", composto da quattro racconti dedicati alla
guerra del ‘15-'18, con foto di Luca A. d'Agostino e un cd allegato del quintetto
di Giovanni Maier, il tutto portato in scena il 23 ottobre, a Rubbia (Savogna
d'Isonzo); e anche la Guida Slow Food Osterie d'Italia 2019.
Noi abbiamo seguito solo la parte finale della rassegna, i concerti dal pomeriggio
di venerdì 26 ottobre alla mattina di domenica 28.
Venerdì, suonando contemporaneamente
in due posti diversi,
Gaetano Valli
con il suo Tre per Chet e il quintetto Tell No Lies, abbiamo ascoltato
la prima parte dell'uno e la seconda dell'altro: due concerti di differente (opposta)
impostazione stilistica, che vengono a rappresentare la divisione nello stato odierno
del jazz di chi prosegue lungo la strada segnata dal bop (Tre per Chet) e
chi invece quella dal free (Tell No Lies), free che ormai, dopo cinquant'anni
di esistenza, perpetuando all'incirca gli stessi stilemi e canoni, pur diversamente
collocati e interpretati, non si può più considerare avanguardia, ma è andato a
costituire un genere a sé. Così Gaetano Valli(chitarra), Fulvio Sigurtà (tromba) e Riccardo Fioravanti
(contrabbasso) hanno recuperato di
Chet Baker
la formazione dei trii drumless con il chitarrista Philip Catherine, unitamente
alla sua vena più intima e poetica, dove la bella pulita intensa voce di Sigurtà
ha dato sfoggio di articolata fantasia, ben coadiuvato dai compagni; mentre Filippo
Orefice (sax tenore), Edoardo Marraffa (sax sopranino), Nicola Guazzaloca
(piano e composizione), Luca Bernard (contrabbasso) e Andrea Grillini
(batteria) dei Tell No Lies si sono buttati negli intrichi del free (quello
più strutturato) con fervore e accanimento, riuscendo a mantenere una propria precisa
e forte personalità con singoli assolo travolgenti e amalgama fortemente coeso.
Yuseff Dayes, col suo trio, si può invece collocare nel jazz rock, che pure
non è un genere nuovo: lui è batterista, accompagnato da Rocco Palladino
al basso elettrico e Charlie Stacey alle tastiere: i tre rappresentano la
musica jazz di tendenza che si sta facendo adesso a Londra, una musica ritmica,
ripetitiva, che giostra su ritmi rock e hip hop, con tastiere elettriche dalla sonorità
vintage, ma non troppo originale.
Fuori dai confini del jazz invece è da considerarsi l'esibizione in solitaria, al
Teatro Comunale, di Egberto Gismonti, che ha suonato un primo tempo alla
chitarra (a dieci e dodici corde) e un secondo al piano. Virtuoso in entrambi gli
strumenti, in entrambi ha elaborato uno stile personale ricco e fittamente cesellato
in continue acrobazie, con cui interpreta composizioni classiche brasiliane (Villa
Lobos,Pixinguinha) e pop (Jobim), frammiste a brani del folklore
dell'America latina e a composizioni proprie (Frevo Rasgado), facendo risaltare
le preziosità delle composizioni con leggere manipolazioni delle idee di base ai
fini della propria unica sorprendente espressività.
Il trio East West Daydreams ha dato un concerto la mattina del sabato a Nova
Gorica: pure loro tre si sono dati libertà totale di agire e lo hanno fatto in modo
serrato girando attorno a brevi temi in una musica che ha commisto folklore balcanico,
mediorientale e latinoamericano col jazz. Alexander Balanescu al violino
e Javier Girotto
ai sassofoni soprano e baritono, si sono trovati benissimo insieme, sia dal punto
di vista del mescolamento delle sonorità che del modo avviluppato di intrecciare
i fraseggi, così formando un cordone intorcigliato unico, colorato all'esterno dagli
interventi fitti e mossi di Zlatko Kaucic alla batteria.
Verso l'una, a Dolegna del Collio, l'XY Quartet, fondato e guidato dal sassofonista
Nicola Fazzini
e dal bassista Alessandro Fedrigo, comprendente Saverio Tasca al vibrafono
e Luca Colussi alla batteria, prende a modello i vari Steve Coleman ed Henry
Treadghill con linee melodiche a spigoli vivi e ritmica statica fondata su convulse
asimmetrie di tempi e metri. Composizione e improvvisazione, messe sullo stesso
piano, si sono divise il campo a metà, creando esatte forme geometriche, tanto che
una è venuta a sembrare improvvisazione e l'altra composizione. Il solismo di Fazzini
ha richiamato concettualmente Steve Coleman, senza essere così tagliente, il tutto
eseguito a regola d'arte con meticolosa cura del dettaglio.
Sabato è stato concluso da due concerti fra i più attesi: The Thing e l'Art
Ensemble Of Chicago, entrambi appartenenti al versante free (l'AEOC ne è stato
uno dei fondatori e massimi aedi), ma che curiosamente hanno visto i giovani di
The Thing ritornare al passato della tradizione (naturalmente del free),
mentre i vecchi dell'AEOC hanno guardato avanti, andando oltre se stessi.
A Dobrovo, The Thing (cioè Mats Gustafsson al sax tenore e baritono,
Ingebrigt Haker Flaten al contrabbasso e basso elettrico, Paal Nilssen-Love
alla batteria), in un serrato confronto che non ha lasciato un secondo di tregua
ubriacando, ha sprigionato una energia smisurata che ha trovato spazio in lunghi
episodi di improvvisazioni collettive di (quasi sempre) furore iconoclasta (acre,
ma non rabbioso). Una musica che è andata sempre diritto al sodo, senza preamboli,
dettata da una insistente e impellente frenesia, soprattutto per gli interventi
di Gustafsson, ricco di inusitate e prorompenti soluzioni che ricordano il Coltrane
di Ascension il Sanders di Tauhid? e l'Ayler di Love Cry.
La sera, al Teatro Comunale, c'è stato l'Art Ensemble Of Chicago con i due
soli musicisti rimasti della originaria formazione, i veterani Roscoe Mitchell
(alto, soprano and sopranino, flute, percussion) e Famoudou Don Moye (batteria,
conga, bongo, percussioni), a cui si sono uniti Hugh Ragin (tromba, flicorno,
piccolo), Tomeka Reid (violoncello), Silvia Bolognesi (contrabbasso),
Jaribu Shahid: (contrabbasso) e Dudu Kouate (percussioni africane).
Con la mancanza di Lester Bowie, Malachi Favors e Joseph Jarman, l'AEOC ha mantenuto
il nome, ma non è più la medesima cosa, diventando di fatto il gruppo di Roscoe
Mitchell, perché tutto parte da lui e ruota attorno a lui.
Il concerto si è consumato in un unico lungo brano di un'ora (oltre una breve conclusione
affidata all'esecuzione del loro classico "Odwalla"). L'intento di Mitchell
è stato di costruire (seguendo sempre più una via estetico-espressiva apparentata
alla composizione dotta occidentale sperimentale - John Cage e John Adams -, ma
mantenendo contemporaneamente il consueto recupero in chiave epico-narrativa del
patrimonio musicale afroamericano), partendo dal quasi silenzio, una sempre più
vigorosa, potente e rumorosa sonorità. Muovendo da note e percussioni isolatissime,
da suoni radi e spaziati, isolati, quasi immobili, che hanno delineato un irreale
puntillinistico stato di rarefazione della musica, ha proseguito, in un gioco delicato
di pesi e contrappesi, misure e contromisure, innalzando in lentissima progressione
attraverso successivi scarti infinitesimali, il volume del suono e la quantità degli
interventi dei musicisti, diventati man mano sempre più fitti e convulsi, sia in
libera improvvisazione che in isolate brevi parti obbligate scritte, in un crescendo
che ha trasformato le iniziali sparute gocce, distillate da un ritroso alambicco,
in rigagnolo, poi in ruscello, poi in fiume che mano a mano è andato in piena sul
punto di travolgere tutto.
L'AEOC ha usato stilemi arrangiatori, atmosfere sonore e tipologie di assolo che
fanno parte di un canone (da loro stessi fondato), ma mettendo insieme i pezzi e
strutturando l'insieme in maniera diversa, mai sentita prima. Il bello e la novità
(costruita proprio con stilemi non-novità) è stato il disegno compositivo, reso
palese solo quando il brano è terminato dando la possibilità di guardare indietro
e assumere la consapevolezza della costruzione nella sua totalità, potendosi altresì
rendere anche conto dell'abilità musicale necessaria per costruire questo calibratissimo
e lunghissimo crescendo. Mitchell porta così la sua arte a nuovi estremi di melanconica
intensità e purezza che lasciano trasparire senza mediazioni l'oscuro fondo della
vita e le sue pulsioni.
Anche il Roots Magic, formato da Errico De Fabritiis (sassofoni),
Alberto Popolla (clarinetto e clarinetto basso), Gianfranco Tedeschi
(contrabbasso) e Fabrizio Spera (batteria), rientra nei parametri dei seguaci
del free, ma quello più ancorato al passato, al blues in particolare, che i quattro,
a Farra di Isonzo, hanno inteso recuperare e trasformare, arrangiando con felice
invenzione brani di celebri bluesman, come Charley Patton, oltre che di vecchi leoni
(misconosciuti) del free, come Kalaparusha Maurice McIntyre, e contrapponendo la
tradizione di Pee We Russell con la sperimentazione di John Carter. Le esecuzioni
sono state trepidanti e passionali, con i due solisti che contrapponendosi (più
classico Popolla, più acremente moderno De Fabritiis) si sono integrati perfettamente
con l'aiuto determinante di una forte e vivace sezione ritmica.