Ai Confini tra Sardegna e Jazz 2018 XXXIII Edizione "Integrazione sui 7/8" Sant'Anna Arresi - Masainas - San Giovanni Suergiu - 1 - 9 settembre 2018 di Aldo Gianolio foto di Agostino Mela, Danilo Codazzi, Luciano Rossetti
Tante cose distinguono il festival di Sant'Anna Arresi, "Ai confini
tra Sardegna e Jazz", dagli altri italiani. Intanto è uno dei pochi (forse ormai
l'unico?) che mantiene per ogni edizione un indirizzo programmatico, un tema preciso
a cui riferirsi (in genere un tema "forte", con implicazioni politiche e sociali).
Poi è rivolto soprattutto al jazz di ricerca e di sperimentazione, legato al free
jazz storico e alle sue multiple derivazioni. Ancora, tende a commissionare opere
inedite, a fare partecipare i musicisti alla vita del festival, a farli incontrare
e collaborare fra loro come resident artist, arrivati appositamente in esclusiva
per il festival, direttamente dal paese d'origine. Con questa impostazione è palese
che si vada incontro a rischi maggiori, che sia più facile che sopraggiunga qualche
inconveniente, come difatti sono sopravvenuti in questa XXXIII edizione, quando
tre musicisti hanno dato forfait per cause di forza maggiore: Orrin Evans per braccio
fratturato, Tyshawn Sorey per problemi di salute e Lonnie Smith per volo mancato.
Anche se il tema conduttore del festival era quest'anno il pianoforte (e le tastiere
in generale), che con i suoi tasti bianchi e neri viene a rappresentare l'integrazione
fra i popoli ("Integrazione in 7/8" era l'esatto sottotitolo della rassegna), Evans
e Smith non hanno creato particolari scombussolamenti; si è maggiormente sentita
la mancanza di Sorey, che avrebbe dovuto essere il punto clou del cartellone, con
la sua – poi non effettuata – conduction di una composizione ritrovata fra le carte
musicali di Butch Morris. Pazienza; sembra che Sorey presenterà questa Conduction
n. 200 a Cagliari in autunno.
Il festival è comunque riuscito brillantemente, a nostro
giudizio assegnando la palma dei musicisti più significativi (per quantità e bellezza
delle performance) a David Murray, Alexander Hawkins, Rob Mazurek,
Antonello
Salis/Sandro Satta e Chad Taylor, il quale ultimo, oltre
ai tre gruppi in cui era già destinato a suonare (duo con Brandon Lewis,
i Chicago London Underground e A Pride Of Lyons) ha dovuto sostituire
Sorey (aspettato invano non solo per la citata Conduction n. 200, ma anche per il
Sant'Anna Arresi Black Quartet), dando quattro concerti in due giorni.
Il concerto d'apertura è stato dei Roots Magic, gruppo italiano formato da
Alberto Popolla ai clarinetti, Enrico De Fabrittis ai sassofoni,
Gianfranco Tedeschi al contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria,
che ha trasformato murmuri blues classicamente terzinati o arabeschi melodici orientaleggianti
in cacofonie free (ricordando Eric Dolphy e Don Byron), attraverso arrangiamenti
ben congegnati con continui stop, stacchi, riprese e cambi di tempo. Tutti bravi
e pieni di solare vitalità (un encomio particolare al clarinettista Alberto Popolla).
A seguire la White Desert Orchestra, tentetto diretto dalla pianista Eve
Risser, che ha presentato una musica di grande seduzione, mescolando, a volte
contrapponendo, differenti tendenze e coloriture (basi classicheggianti con parti
solistiche free, o viceversa fondi destrutturati con andamenti melodici bucolicheggianti),
inerpicandosi su pareti sghembe e frastagliate alla M-Base o appoggiandosi su terreni
pianeggianti alla Carla Bley, o addirittura standosene pacata e distesa in una specie di
voluto immoto non procedere (ottimi il chitarrista Julien Desprez e il sassofonista
Benjamin Dousteyssier).
Il 2 settembre i Young Mothers, sestetto (con due batterie) guidato dal contrabbassista
norvegese Ingebrigt Haker Flaten (già con The Thing), ha dato uno dei concerti
più belli del festival, offrendo una musica coesa, senza cedimenti di sorta, tirata
e tesa, sia nelle parti piene e magmatiche che in quelle (quantitativamente più
limitate) diradate, mescolando con energico approccio funkeggiante free jazz, metal
e rap (di grande efficacia l'uso della voce "alla Brian Johnson" dei AC/DC
del batterista-vibrafonista Stefan Gonzales, come fosse uno strumento aggiunto
a fini coloristici e compositivi).
Subito dopo un altro concerto per certi versi entusiasmante, anche se con approccio
più "classico": quello del trio (avrebbe dovuto essere un quartetto, con Orrin Evans
al piano) del tenor sassofonista David Murray, uno dei grandi maestri dell'improvvisazione
post-bop, con Nasheet Waits alla batteria e Jaribu Shahid al contrabbasso.
Forse proprio perché in trio (ricalcando epici concerti e registrazioni pianoless
come quelli dei tenor sassofonisti
Sonny Rollins,
John Coltrane,
Joe Henderson e, fra i contemporanei, Josuah Redman e Joe Lovano), quindi con maggiore
libertà senza l'ancoraggio armonico e tonale conferito ineluttabilmente dal pianoforte,
e caricando su di sé tutta la responsabilità dell'improvvisazione, ha liberato la
fantasia in maniera superlativa, anche grazie all'apporto altrettanto superlativo
dei compagni, che lo hanno assecondato in ogni passaggio, in ogni svolta, in ogni
impennata. Nell'improvvisazione di Murray è concentrata tutta la tradizione del
jazz sia del passato remoto sia del passato prossimo, addirittura quella che parte
da Coleman Hawkins e, nel suo caso, passa attraverso Ben Webster (e quindi
Archie Shepp,
il free jazz-man per antonomasia, che proprio in Webster aveva trovato illuminazione),
per arrivare sino alle grida di Albert Ayler; ma il tutto solo come idee-forza
ispiratrici, perché poi il suo stile rimane prettamente quello di un solismo fra
i più personali del jazz moderno: rapsodico, ma diversamente da Hawkins, però con
la stessa veemente forza; free, ma diversamente da Ayler, ma con quei medesimi improvvisi
scarti aggriccianti sui sovracuti che scombussolano, ubriacano, infiammano.
Murray ha suonato ancora meglio nel gruppo formato espressamente per il festival,
il Sant'Anna Arresi Black Quartet, tre giorni dopo, il 5 settembre, assieme
a James Brandon Lewis al sassofono tenore, di nuovo Jaribu Shahid
al contrabasso e, alla batteria, Chad Taylor, che ha preso il posto dell'annunciato
Sorey. Il Black Quartet ha reso omaggio a Butch Morris, interpretando suoi brani
(Murray conosce bene Morris, avendo collaborato con lui in inizio di carriera).
Solo che, come spesso succede nel jazz quando a improvvisare si trovano di fronte
due musicisti che suonano lo stesso strumento, viene fuori l'istinto competitivo:
così Murray e Lewis hanno dato vita, se non proprio a un duello come quelli storici
fra Wardell Gray e Dexter Gordon, Sonny Stitt e Gene Ammons, Johnny Griffin e Eddie
Lockjaw Davis, a un serrato confronto, non solo di eloquenza, retorica, tecnica,
ma anche di stile: Murray, più vecchio, sessantatreenne, sembrava più azzardato
di Lewis, più giovane, trentacinquenne; Murray era più guizzante nei suoi improvvisi
cambi di registro e sonorità, più distante dai canoni del "bel suonare"; Lewis invece
più omogeneo e compatto, pur sempre espletando un fraseggio spesso declinante nei
viluppi coltraniani, ma più logicamente costruito, meno passionale.
Se Murray si è superato col quartetto, Lewis si è superato il 4 settembre in duo
con Chad Taylor: da una parte Taylor, mosso e dinamico, pieno di variabili
idee ritmiche e soluzioni timbriche di fine cesellatura, eseguite con somma tecnica
(spesso passando alla mbira, strumento africano a lamelle); dall'altra Lewis con
il suo incedere melodico a passi decisi e sicuri, in fraseggi almanaccati alla Ogunde
di Coltrane, che non dimenticano la melodia più cantabile, con un suono che più
che a Coltrane si avvicina a quello di David S. Ware, un suono robusto, scuro, a
tratti nasale, e a quello degli squarci infiammati di Ayler.
La terza giornata, il 3 settembre, si è rivelata perlopiù di passaggio.
Gli austriaci Radian, un trio chitarra basso e batteria (con l'ottimo drummer
Martin Brandlmayr e con John Norman al basso e Martin Siewert
alla chitarra e alle elettroniche), hanno costruito un fitto lavoro di elettronica
e basi preregistrate (loop, effetti, suoni particolari) che si sono sommate ai suoni
live di chitarra, batteria e basso, con sequenze ripetitive, ridondanti, d'atmosfera,
con molti echi, rifrazioni, rimbalzi, estenuazioni, fumi fantasmagorici.
I Talibam, duo formato da Matt Mottel (tastiera computerizzata portata
a tracolla) e Kevin Shea (batteria), con l'aggiunta di Luke Stewart
al contrabbasso e Sandy Ewen alla chitarra, si sono dimostrati meno raffinati
dei Radian nell'uso dei marchingegni elettronici, ma forse è meglio dire più diretti
e meno nebbiosi, con Sheaa batterista iridescente, nervoso, agilissimo e preciso
che è il contrario esatto di Brandlmayer, più controllato, essenziale, misurato.
I quattro hanno comunque saputo costruire per il tenor sassofonista Joe Mcphee,
uno dei maestri "minori" del free storico, un adeguato tappeto sonoro (simulante
i terreni semoventi del free), dai quali McPhee è sembrato però starsene ai margini,
senza entrare con più decisone nel costrutto generale (forse perché non abituato
a quei suoni), così lasciando troppo spazio al quartetto, risultato a tratti prolisso
e poco incisivo, probabilmente perché ha prolungato momenti di attesa cercando di
suonare per McPhee, non per sé stesso e per la propria musica.
McPhee il 5 settembre ha dato un secondo concerto con i suoi A Pride of Lyons
(Daunik Lazro al sax tenore, Joshua Abrams e Guillaume Séguron
ai contrabbassi e Chad Taylor alla batteria), dove si è trovato più a suo
agio su un terreno tipicamente free, con i due contrabbassisti che hanno costruito
una base ottimale per le liberamente improvvisate divagazioni vigorose ma evocative,
irrequiete ma prudenti, di entrambi i sax tenori (McPhee anche alla tromba tascabile,
che usa come
Ornette
Coleman usava la tromba).
Il 5 settembre, prima del Black Quartet e del A Pride Of Lyons, alle 19, a Masainas,
in località Is Solinas, si è esibito il duo Rob Mazurek - Gabriele Mitelli
in un concerto sui generis pieno di poesia e suggestione.
Mazurek alla tromba piccola e Mitelli alla cornetta e al flicorno hanno suonato
sulla spiaggia, vicino al mare, sul far del tramonto, come due Don Cherry
dolenti e riflessivi che ogni tanto adoperano anche campanellini, campanacci e percussioni
varie, oppure cantano al cielo, o usano qualche effetto elettronico, fino a quando,
proprio mentre il sole sta sparendo dietro l'isola di Sant'Antioco, entrano nel
mare calmo e liscio dirigendosi lentamente verso il largo, suonando estatici al
cielo come in una invocazione di un rituale sciamanico, continuando a camminare
e a suonare nenie malinconiche e fermandosi solo quando l'acqua arriva fino al collo.
Nello stesso posto, due giorni dopo, è stata la volta di Alexander Hawkins,
al piano solo. Anche lui, come molto musicisti contemporanei, mescola gli stili
o addirittura li accosta senza mescolarli, formando un tutt'unico legato fortemente
alla tradizione, ricordando Duke Ellington e Earl Hines, ma anche arrivando sino
a Cecil Taylor attraverso Jacki Byard e
Keith Jarrett
(e, nel bis, riprendendo Bach), con una capacità di sintesi, una propulsione ritmica
e un compendio armonico di elevata fattura.
Hawkins si è esibito in altri due occasioni: con il Chicago London Underground
(il 4 settembre) e con il suo quartetto (il 6 settembre).
Il nome Chicago London Underground deriva dal fatto che il gruppo è formato da due
chicagoani, Rob Mazurek alla tromba e Chad Taylor alla batteria, e
da due londinesi, John Edwards al contrabbasso e, appunto, Hawkins.
Il concerto è stato ricco di spunti, di groove, di fantasie melodiche, di rumori
e di atmosfere estatiche, con il Davis elettrico, il Coltrane free e il Cecil Taylor
monkiano a tirare dall'alto qualche filo, riuscendo a mantenere in schemi articolati
e aperti la forza del free jazz senza essere per niente free, perché ogni nota improvvisata
va interamente al servizio della composizione e perché il clima non è cacofonico,
c'è solo grande energia che si risolve in forte tensione. Mazurek ricorda stilisticamente
Don Cherry, Lester Bowie e Bill Dixon, senza scordarsi gli antichi e la loro forza
(Bix Beiderbecke,
Jabbo Smith), mentre Hawkins, come detto, ricorda Taylor (Cecil) e Byard, ma qui
scivolando più verso le frenesie tayloriane, sebbene mitigate dal pianismo più classicheggiante
dell'altro Taylor pianista, John, suo connazionale.
L'Alexander HawkinsQuartet è invece stato meno irruento e agitato,
costruendo con una specie di post-bop cubista (ancora attraverso John Taylor) un
clima scintillante e dilatato, campato in aria fra lunghi silenzi e articolazioni
sonore spaziate, che ha avuto la funzione soprattutto di supportare, assieme al
contrabbasso di Neil Charles e alla batteria di Stephen Davis, il
canto lamentoso di Elaine Mitchener, che si rifà in modo evidente a Jeanne
Lee, pur in un proprio modo, che calca più sulla dizione operistica e tratta con
sfumature più attoriali i sospiri, i gemiti, il parlato.
Il 6 settembre il trombettista Gabriele Mitelli è tornato ad esibirsi, questa
volta col suo gruppo ONG, con Gabrio Baldacci alla chitarra baritono,
Enrica Terragnoli al basso, chitarra, elettroniche e tastiere e
Cristiano Calcagnile
alla batteria e elettroniche: un jazz elettrico ed elettronico, che passando fra
le eruzioni telluriche continue di Calcagnile, le distorsioni rock di Baldacci,
le invenzioni cibernetiche di Terragnoli, fra temi funky, free jazz, country and
blues, fusion e noise, vede Mitelli improvvisare lungamente con voce chiara e suadente
in una sorta di continua espansione circolare.
Il 7 settembre ha visto sul palco il duo A-Septic, che ha messo in evidenza
l'ammaliante contrasto fra le arse sonorità di Stefano Ferrian al sassofono
e quelle distillate di Simone Quatrana al pianoforte, influenzati dalla musica
armena e russa; poi, al posto della Conduction n. 200 che avrebbe dovuto essere
affidata a Tyshawn Sorey, è stata anticipata la Conduction che invece avrebbe dovuto
chiudere l'intera rassegna l'ultima sera in piazza del Nuraghe, sempre con la medesima
grande orchestra di giovani proveniente dal Conservatorio di Cagliari, in questa
occasione diretta da Daniele Ledda, che si sono entrambi (orchestra e direttore)
comportati egregiamente, divertendosi e facendo divertire.
L'8 settembre, dopo i Blacktones, band sarda che ci ha portato su rumorose atmosfere
prettamente metal rock, il duo formato da
Antonello
Salis al piano e alla fisarmnica e da Sandro Satta al sassofono
tenore ha sostituito il mancante Lonnie Smith: forti di una perfetta intesa frutto
di anni di conoscenza e di collaborazioni, Salis e Satta hanno proceduto concordi
e compatti pur nelle sporadiche difformità, avviluppando con fervore le loro note
oppure mettendole in espressivamente proficui contrasti, di volta in volta assecondandosi
o contrastandosi per poi trovare subitanea consonanza, confermandosi improvvisatori
eccezionali.
I medesimi due con l'aggiunta di
Paolo Damiani
al violoncello e Bruce Ditmas alla batteria, hanno poi chiuso il festival
il 9 settembre a San Giovanni Suergiu presso la Chiesa romanica di Palmas Vecchio,
con un concerto in memoria di Carlo Mariani, figura chiave delle sperimentazioni
avviate nelle prime edizioni del festival sul terreno di incontro tra musica afroamericana
e tradizione sarda. Carlo Mariani, romano, non sardo, era virtuoso suonatore delle
launeddas, antico strumento a fiato dell'isola, probabilmente il più antico del
Mediterraneo. "The Man Of The Long Canes", come è stato intitolato l'omaggio, è
stato aperto da una registrazione delle launeddas suonate da Mariani, presto sfumate
per fare posto alla musica del quartetto, che ha proceduto brillantemente mantenendo
lo spirito della musica evocativa e danzante di Mariani, celebrando, insieme a lui,
la terra di Sardegna e il festival di
Sant'Anna
Arresi che all'isola fa onore.