Il giro d'Italia a bordo di un disco Francesco Cusa, Improvvisatore Involontario novembre 2014
di Alceste Ayroldi
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Nuovo appuntamento con "Il giro d'Italia a bordo di un disco",
questa volta con Improvvisatore Involontario nella persona del batterista e compositore
Francesco Cusa.
Qual è la vostra filosofia di vita? Perché fare il discografico?
Nasce da una duplice esigenza. Da un lato la necessità di produrre musica senza
dover "dipendere" dalle scelte di altre label (o dagli eventuali rifiuti). Dall'altra
da una passione viscerale per le musiche contemporanee, nel tentativo di fare emergere
ciò che continuerei a definire "underground", senza tema di smentita.
Come reperite i nuovi talenti?
Non reperiamo alcun nuovo o vecchio talento. Esiste la musica e chi la suona, il
resto essendo stimolo e prurito di certa nosologia dell'oggi. Siamo una realtà artistica
aperta. Chiunque ne può far parte. Così come accogliamo le proposte discografiche
di esterni e interni a Improvvisatore Involontario.
Come scegliete i musicisti?
In base al nostro gusto. Come più o meno potrebbe sceglierli un qualsiasi altro
discografico.
Quali sono le vostre politiche relative alla distribuzione?
Facciamo molta difficoltà perché proponiamo supporti desueti, quali il cd, che notoriamente,
risente di una crisi decennale. Certamente non aiuta la disgraziata pressione fiscale
che grava sul prodotto.
Quali mezzi utilizzate per raggiungere il vostro pubblico,
anche potenziale?
Tutti i mezzi leciti. Adesso disponiamo di un agguerrito ufficio stampa, grazie
alla bravissima Cinzia Guidetti. Dal sito, alla newsletter, passando per
i social network: tutto pare funzionare a meraviglia.
A cosa è dovuta la crisi del disco? E' da attribuire a
mp3, peer to peer, o c'è dell'altro?
E' sempre un insieme di concause che determina l'entropia o il collasso di un sistema.
Certamente le nuove modalità di fruizione, la musica liquida, hanno avuto un ruolo
determinante. Però ciò non spiega, ad es., il ritorno di fiamma del vinile, ossia
di un supporto ben più "ingombrante" del cd medesimo. Inoltre c'è da appurare quale
sia poi il settore di riferimento del supporto, le aree dei generi e dei sottogeneri:
jazz, pop, rock ecc. Nel caso specifico del jazz, vi è una maggiore resistenza,
dovuta forse al valore di "feticcio" del cd, spesso oggetto di crapula da post concerto,
scalpo da mietere sistematicamente. Se ci si pensa bene è un assurdo nell'era di
Spotify. Ci piace pensare che sia una cosa positiva (anche se non esiste alcuna
ragionevole base per fondare tale bonaria sensazione). Personalmente vendo quasi
tutti i miei cd ai concerti.
Qual è lo scenario futuro?
A) Il passaggio di Nibiru e la fine della specie. B) Una rivolta di jazzisti e metalmeccanici
capeggiata da Giuseppi Logan. C) La fine del monopolio Siae e la defiscalizzazione
delle musiche d'arte. (L'ipotesi A è di certo quella più attendibile dal punto di
vista probabilistico).
Per combattere il nemico comune non sarebbe meglio coalizzarsi?
Quali sono gli ostacoli alla creazione di un consorzio o un network?
La questione meridionale, la città-stato, il Vaticano. Non è una provocazione. Le
ragioni storiche di questo paese rivestono ruolo fondamentale nell'evoluzione di
qualsivoglia aspetto delle vita sociale, culturale e politica di questo paese. Ogni
tentativo in questo senso - del coalizzarsi, - è destinato a fallire, giacché sono
i particolarismi a rendere eccellenti le qualità dell'italiano medio. Astrarre la
"nebulosa jazz" da un contesto generale è operazione capziosa ed alla fin fine stucchevole.
La frammentazione culturale rende frastagliata la proposta, non essendoci poi una
vera "scena", dei poli attrattori, quale altrove potrebbero essere New York, Amsterdam
o Parigi. Ne risulta uno scenario paradossale, in costante fibrillazione. Nel caso
del jazz nostrano, tutto il baraccone sembra tenersi assieme grazie ad un senso
dello "straordinario", d'una "fenomenologia dello stupefacente". Ogni cosa viene
infarcita di dettami, dogmi e stilemi, esacerbata da ipertrofie maniacali. Non che
da altre parti questo aspetto sia assente. Ma è dettaglio di un sistema che prevede
criteri di selezione altri, forse spietati, ma quantomeno logici. In altre parole
siamo un paese provinciale e dunque inevitabilmente esterofilo.
Anche le major non godono un buon stato di salute. In periodi
di crisi è meglio essere "più piccoli"?
La "Crisi" è sempre una benedizione. Crollano vecchie ideologie, si mettono a ferro
e a fuoco i palazzi dei vecchi tiranni. Come la muta del serpente, essa è funzionale
al "cambiamento". Questa non è una crisi del settore. Semmai è una crisi epocale.
Nell'ambito museale del jazz nostrano, riterrei più opportuno semmai parlare di
ristagno, di stasi. Gli ultimi decenni hanno visto sperperare immani risorse nell'ambito
delle musiche jazz, comunque si voglia definirle. Le oligarchie che gestiscono la
grossa fetta della torta, rappresentano i feudi di un sistema arroccato su se stesso,
che si fagocita da solo. Le "politiche culturali" (uso un eufemismo) degli ultimi
decenni hanno finito col castrare qualsivoglia necessità dialettica tra i "vecchi
e giovani". È emerso dunque un quadro nominalistico, parrocchiale, che ha finito
con l'appiattire la proposta diffusa, determinando una peculiarità tutta nostrana:
la mancanza assoluta di un confronto (o di uno scontro) tra generazioni di musicisti.
Ciò è stata prerogativa d'ogni libera espressione artistica che si rispetti, da
che mondo è mondo. Non si parla di grandi cose tipo, che ne so, il Surrealismo o
l'avvento della Musica Seriale. Ci si riferisce a certa temperie, che determina,
nello scambio dialettico e aspro, le micro-fratture, le venature e le crisi di alcuni
fattori del gusto estetico, predisponendo il terreno agli avvicendamenti dei protagonisti
che abitano la scena di riferimento. Dunque in Italia si vive una sorta di congestione.
È passata questa mitopoiesi del "mercato del jazz", quasi di " default", ossia delle
peculiarità del pop prestate alle dinamiche di un contesto differente, in una operazione
di mimesi in senso brutto. Da qui quanto ne consegue. Il dramma è che queste cose
le dicono oramai in pochi. I giovani, che dovrebbero mettere a "ferro e fuoco" il
tutto, sono indolenti e come impauriti. Non si capisce che cosa abbiano da perdere.
Cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare e aiutare
il settore, soprattutto per la lotta contro la pirateria? Anche qui. La pirateria è l'altro risvolto della medaglia. Un falso problema.
I Wu Ming, pubblicano per Einaudi ma autorizzano i lettori a fotocopiare il libro.
Occorrerebbe liberalizzarlo integralmente questo mercato, altroché! Sono gli hacker
che consentono lo sviluppo di nuove e rivoluzionarie applicazioni.
La vostra struttura organizzativa si completa con il management?
Ritenete, comunque, che possa essere utile per completare il percorso e fidelizzare
al meglio i vostri artisti?
Sarebbe auspicabile. Ma nessuno può fare il manager in Italia perché il "mercato"
è monopolizzato (vedi sopra). Ci abbiamo provato, ma sbattono tutti contro dei muri
di gomma. Parliamo di decenni di tentativi.
Quali sono le difficoltà che incontrate e qual è la tendenza
del mercato dello spettacolo dal vivo?
Il paradosso è che ai nostri concerti c'è sempre un grande entusiasmo. La crisi
degli spettacoli dal vivo ha radici profonde che non sono necessariamente inerenti
alle peculiarità di questa musica. C'è anche da dire che molta gente si è stufata
di vedere sempre i soliti nomi maramaldeggiare nei festival (questo sia detto con
il massimo rispetto per gli artisti che vanno per la maggiore. Non è mai un problema
personale ma di trend generali). Il pubblico stagionato mantiene ancora in equilibrio
la bilancia di questo circo, come quello dei pensionati i talk show televisivi.
Si è forzatamente determinato un circolo vizioso che coinvolge organizzatori, manager
e artisti: non si capisce se è il pubblico a inseguire il jazz o il jazz ad inseguire
il pubblico. Ma sento che la giostra prende a girare in senso inverso. Il periodo
della vacche magre non risparmia nessuno. (Ovviamente sarò smentito a breve, e mi
prenderò gli sberleffi di turno).
A tal proposito, come giudicate lo stato di salute del
jazz attualmente (sia quello italiano, che internazionale)?
La sostanziale differenza tra l'Italia e l'estero (generalizzando) è che qui manca
un forte senso della comunità tra musicisti di jazz. Le ragioni penso di averle
espresse in precedenza. Quello che è stato fatto è stato reso possibile grazie alle
indolenze della nostra categoria.
Il pubblico del jazz, almeno in Italia, è statisticamente
provato che sia formato perlopiù da persone over 35 anni. In altri stati, però,
ciò non succede. Secondo te quali sono i motivi di fondo? I prezzi dei biglietti
sono troppo alti? Il jazz non trova spazio negli ordinari canali di comunicazione
dei giovani? E' frutto di una crisi culturale?
Semplice: tutto, dai conservatori alla gestione dei festival, è (in larga parte
e fatte salve alcune eccezioni) in mano a dei parvenu, ovvero a delle figure non
professionali. Il dilettantismo amatoriale, certa intraprendenza dei simpatizzanti
ha finito col determinare svariati trend. La poetica (jazz) di una nazione è frutto
di cotanta solerzia. Il nascente MIDJ dovrebbe riuscire a far proprie certe istanze,
in una disperata, ma quanto mai necessaria, inversione di tendenza che oramai si
impone. la nave è quasi sugli scogli.
E' un fenomeno che mi dispiace constatare, ma la tendenza
dell'Opera è quella di annoverare un pubblico sempre più giovane. Forse anche per
il fatto che molte opere sono rivisitate da registi di chiara fama che lo hanno
svecchiato parecchio. Nel jazz, però, anche lo svecchiamento non sempre porta risultati
entusiasmanti. Come mai?
Perché le opere per cominciare a svecchiarsi ci hanno messo più di trecento anni
(ah, le stanno svecchiando?). Aspetterei dunque qualche secolo per vedere le gesta
dei nostri campioni nostrani, messe in scena da chissà chi...magari in chiave patriottica.
Certo una "Ode al Jazz Italiano" non sarebbe malaccio.
Non pensi che il jazz, in Italia, difetti in organizzazione
e coordinamento? Sarà forse perché lo Stato e gli enti territoriali lo tengono sullo
stesso livello delle sagre di paese (con tutto il rispetto anche per queste)?
Rovesciamo la prospettiva. Sono le sagre di paese che tengono insieme la baracchina
jazz. Vogliamo analizzare come vengono titolate la maggior parte delle rassegne
di jazz? Naaah. Jazz è oramai sinonimo di abbinamento gastronomico, nella stragrande
maggioranza dei casi. Diciamo che il jazz italiano - quello rappresentativo, chè
ci stanno anche musiche e musicisti straordinari, - mi ricorda il contadino col
vestito buono della domenica. In questi ultimi vent'anni, si è esacerbata una estetica
del genere, e in questa "casamatta del jazz peninsulare" sono confluite istanze
d'ogni genere, in forme di ibridazione non proprio pertinenti, con collassi tra
significato e significante, e conseguente deriva dell'oggetto estetico. Ripeto:
non è un problema di musicisti e bravura. Parliamo oramai di eccellenze, sia chiaro,
in tutti gli ambiti espressivi. Riducendo all'osso la questione: è un problema di
alternanze delle proposte e varietà. Queste iterazioni, ovviamente, producono risultati
grotteschi. Quantomeno in chi ha il buon gusto di praticare le massime di Karl Kraus.
La diversificazione del prodotto artistico, e quindi discografico,
anche al di fuori dell'ortodossia jazzistica, può essere utile, oppure ritenete
migliore la specializzazione in un singolo settore musicale?
Il jazz è un linguaggio, come l'inglese o l'esperanto. E' musica di sincretismi.
Senza una dialettica costante finisce per cristallizzarsi in schematismi e idiomi
surreali. Certamente ci sono dei parametri di riferimento, estetici e di contenuti.
Ma la specializzazione ha ucciso la Bellezza. Stiamo accorti.
Quali sono i prossimi progetti?
Fare le scarpe all'esistente.