Il Jazz a Torino
di Gian Carlo Roncaglia
Jazz e "Movimento"
A metà degli anni Settanta anche in Italia il Jazz diventa specchio della realtà e della storia, e in quegli anni la "contestazione giovanile" aveva un peso non trascurabile. L'estemporanea avventura di Don Cherry al Palasport del Parco Ruffini non distolse però l'inossidabile
Nini Questa dal continuare con le sue proposte allo Swing, che a metà maggio 1974 ospitò il modernissimo sassofonista
Steve Lacy in coppia, come avveniva da tempo, con
Steve Spott. Sempre più cerebrali le sortite dei due, coadiuvati (si fa per dire, naturalmente) dal piano di
Michael Smith, dal contrabbasso di Kent Carter, dalla batteria di
Kenneth Taylor e, ciliegina sulla torta, dalle elucubrazioni sonore della moglie di Lacy,
Irene Aebi, col suo violoncello. Di tutt'altro spessore fu invece l'esibizione all'Auditorium Rai di
Dollar Brand, alla guida di una big band di grande valore musicale e non più accolto con la puzza sotto il naso dagli inservienti del teatro, come era invece avvenuto in occasione della sua performance al Conservatorio Giuseppe Verdi. Seguì un avvenimento musical-politico organizzato da una formazione di estrema sinistra all'insegna del circolo "Ottobre" e che vide protagonista Giorgio Gaslini col suo quartetto. All'epoca, Gaslini cavalcava da protagonista la protesta giovanile, e nel concerto il pianista si sbizzarrì in una serie di sue composizioni dai titoli inequivocabili: "La Fabbrica Occupata", "Canto del Potere Popolare", senza dimenticare "Oriente Rosso", vero inno della rivoluzione culturale cinese dilagato dall'Asia all'Europa in quelle tumultuose epoche.
Su un altro versante, la visuale dei musicisti jazz tendeva a far proprie le idee di Miles Davis e del suo rivoluzionario (ma per davvero)
Bitches Brew. In questo contesto ebbe il suo debutto al
Good Music (locale di Corso Traiano che due sere la settimana si trasformava da discoteca in sala da concerto) il gruppo dei
Perigeo, ideato dal contrabbassista Giovanni Tommaso assieme al pianista Franco D'Andrea e al sassofonista Claudio Fasoli. La loro esibizione richiamò al
Good Music una folla strabocchevole, costituita perlopiù da giovani attratti dalla loro musica di fatto rocchettara ancorché costruita su canovacci raffinati. Nel frattempo, lo
Swing aveva fatto arrivare, direttamente da New Orleans, i Joymakers, formazione in cui militavano il veterano
Preston Jackson col suo trombone groove, ed il batterista Louis Barbarin, un pioniere ultrasettantenne capace di offrire un drive unico a un'orchestra degna dei migliori locali del
Vieux Carré. Vi fu anche un concerto del pianista Joe Albany, un solista appartenente alla generazione di Charlie Parker e di Bud Powell, del quale era chiaramente debitore stilistico.
Il Good Music, col suo ideatore Antonino (che non aveva mai nascosto il suo amore per il Jazz, tanto da tappezzare le pareti del locale con ritratti dei grandi jazzmen), rispondeva però colpo su colpo. Dall'America, dove risiedeva ormai stabilmente, arrivò Enrico Rava, onusto dei riconoscimenti conferitigli da
Down Beat, la "bibbia" del jazz statunitense. Al suo fianco il giovanissimo ma già celebre sassofonista Massimo Urbani
che nell'intervallo ai giovani che gli domandavano come fare per diventare come lui, rispose testualmente, e perentoriamente, che bisognava innanzi tutto "aver ascoltato
–e capito!- tutto Coleman Hawkins e Lester Young, altrimenti ci si infila in un vicolo cieco dal quale sarà impossibile uscire".
Lo Swing, per parte sua, aveva aperto le porte a un gruppo di quattro musicisti che qualcuno un paio di sere prima aveva visto improvvisati attacchini sulla spalletta del cavalcavia della stazione di
Porta Susa dove, armati di colla e pennello, avevano appiccicato delle strisce di carta colorata con la misteriosa scritta "Art Studio". Si trattava in realtà del nome che si erano dati il sassofonista Carlo Actis Dato, il chitarrista
Claudio Lodati, il contrabbassista Enrico Fazio ed il batterista
Fiorenzo Sordini. Le loro origini erano disparate, dal blues alle esperienze autodidatte che in qualche modo (anche nel nome) facevano riferimento al particolarissimo sound dell'Art Ensemble di Chicago. La loro esibizione si prolungò fino alle ore piccole, quando arrivarono dal
Good Music, dopo il loro concerto, Massimo Urbani e
Calvin Hill, contrabbassista di Rava, e lo stesso Enrico tutto pimpante seduto al pianoforte a dire da maestro la sua prima di ritornare a New Yprk.
Un intermezzo al jazz in club ci fu persino, alla metà degli anni Settanta, con l'esibizione al teatro Nuovo del gruppo del pianista Herbie Hancock, il cui look dell'epoca - foltissima e riccia capigliatura e uno sgargiante daisiki africano – era lontano anni luce da quello di distinto gentleman che lo caratterizza da alcuni anni. Sovrano disprezzo per il (non folto per la verità, anzi assai esiguo) pubblico, concerto iniziato con un'ora e mezza di ritardo, aggressione sonora da parte di sideman di chiara estrazione rock, e pubblico che "precedeva e seguiva verso l'uscita" il recensore del – si fa per dire – concerto, concludendo così un avvenimento da dimenticare con urgenza. Ben altro il clima allo
Swing che, nello stesso periodo, aveva messo in cartellone il sassofonista Charlie Mariano con compagni del calibro di Philippe Catherine, dell'olandese
Jasper Van'Hof, del contrabbassista Jean-François Jenny Clarke e del batterista Aldo Romano. Un'autentica UE musicale ante litteram riunita attorno al leader giramondo (era stato persino direttore dell'orchestra della radio malese!), e un concerto di altissima classe che avrebbe avuto degna conclusione nel disco registrato live per la Rai torinese (che in quegli anni offrì non pochi spazi al jazz nei suoi studi, mica come oggi…) davanti ad un clamante pubblico di studenti ivi convogliati dalle scuole. Che tempi.
Ancora, allo Swing, Gianni Basso con il suo quartetto; quello di un altro sassofonista, l'americano dell'Oklahoma
Hal Singer, solista di gran classe che inondò chi si intrattenne a chiacchierare con lui di ricordi vissuti con gente cone Charlie Parker e il bandleader Jay McShann. Esperienze che costituiscono per chi le visse un patrimonio inestimabile, senza paragoni.
Come non bastasse, in Via Monte di Pietà aprì un negozio specializzato in musica che offriva spartiti e libri con una evidente predilezione per il jazz.
Fred Mancini, vecchio (ma non di età) appassionato torinese, lo aveva battezzato "Il Pentagramma" e lo aveva dotato di un'ampia sala con tanto di pianoforte a coda e modernissime apparecchiature per la registrazione.
Gianni Negro
e Raf Cristiano avevano trasferito a Torino la loro attività didattica, fino a quel momento svolta al Conservatorio di Alessandria dal quale si disse che erano stati "sfrattati". In realtà,
lo stesso direttore di quel Conservatorio spiegò alla stampa specializzata che i corsi nel suo istituto sarebbero ripresi non appena fossero terminati i lavori che ne avevano imposto la sospensione… Addirittura, il Circolo della Stampa aprì i suoi saloni ad
Arrigo Poliillo che vi presentò il suo libro "Jazz: la vicenda ed i protagonisti della musica afro-americana". Con l'autore erano sul palco i giornalisti
Dino Tedesco, promotore dell'iniziativa, e Gian Carlo Roncaglia, uno dei più "datati" collaboratori di Polillo. Poi, ciliegina sulla torta, due complessi a chiudere la giornata: il
Two Saxes Group cuneese e l'Art Studio, esprimente un'autorevolezza esecutiva frutto della decisione dei quattro fondatori di andarsene a Parigi (su uno scassato furgone 600) per oltre un mese "per suonare
– come raccontò Actis Dato – mattino, pomeriggio, sera e notte con chiunque fosse disposto a suonare con noi… e non morire (musicalmente) soffocati senza il confronto con il mondo musicale di una città nella quale il jazz si respirava (allora) ovunque". Varrebbe la pena di raccontare come i due sopravvissero e a quali sacrifici si sottoposero, ma è un'altra storia e non è questa la sede.
A Torino, comunque, ci si dava da fare per offrire alla città della Fiat la veste di città del Jazz e continuare, a quarant'anni dai due concerti di
Armstrong, iniziative di alto livello a quell'epoca ben sostenute dalle pubbliche amministrazioni e dagli Assessorati alla Cultura del Comune. Nel 1976 la sede fu il Teatro Stabile dove, dal 4 al 16 maggio, si svolse una serie di "Incontri con il Jazz", in cui si parlò di argomenti quali "La rivoluzione del Bop", "Il Free e gli anni Sessanta" e "Il Jazz oggi". Relatori furono
Arrigo Polillo e Walter Mauro, Umberto Santucci e Giorgio Merighi, e
Gian Carlo Roncaglia, coordinatore delle iniziative che non furono prive di provocazioni, come quando Santucci affrontò il tema "Si ha ancora il diritto di usare il nome Jazz?".
Poi, il colpaccio di cui fu protagonista Sergio Ramella, già noto localmente come promoter di concerti jazzistici, ma di lì innanzi ormai celebre come organizzatore di eventi di grande rilievo. Venuto a conoscenza che Bologna aveva dovuto rinunciare al suo Festival dal momento che il sovrintendente del Teatro Comunale era partito per Milano ed era stato rimpiazzato da un individuo al quale di jazz non importava un fico secco, Ramella si mise in contatto con
Alberto Alberti, il promoter felsineo che si era ritrovato fra le mani la patata bollente di un package di altissimo livello (già da tempo predisposto, vista la consuetudine consolidata del Festival a Bologna) senza più saper che farsene. Ramella, legato a un partito che all'epoca aveva grosso peso politico a Torino, non ebbe grande difficoltà ad ottenere dall'amministrazione comunale i 15 milioni di lire necessari, oltre all'uso del Palasport. Fu così che Torino potè godersi Gil Evans (il Duke Ellington bianco, lo definì in quell'occasione Arrigo Polillo accorso a Torino per il concerto) con la sua orchestra, McCoy Tyner col suo pimpante sestetto, Sonny Rollins, mattatore col suo incandescente sax tenore;
Betty Carter, vocalist sulla scia di Sarah Vaughan, e infine il grande Muddy Waters
a chiudere in crescendo una manifestazione che per il jazz pedemontano fu un ulteriore giro di boa. Infatti, non poche iniziative ebbero vita di lì innanzi, sia al cabaret Pellico di Via delle Rosine, nuova sede cittadine per concerti di grande respiro; sia con il successo di una rassegna di film a tema jazzistico organizzata dal
Movie Club nella sede di Via Giusti; sia, ancora, con le sortite della neonata
Cooperativa Torinouno, tesa alla diffusione di opere caratterizzate da una specifica "politicità" che gli anni ruggenti della contestazione avevano figliato soprattutto nel campo della musica – fra le sue manifestazioni ricordiamo il concerto del pianista milanese
Gaetano Liguori, che nell'austera sala del Conservatorio Giuseppe Verdi propose la sua "Ballata Rossa di Tell al-Zataar", opera musical-poetica ispirata al massacro di palestinesi avvenuto l'anno precedente nell'omonimo campo di concentramento israeliano.
A metà giugno 1977, nel Salone delle Feste del Casinò di Saint-Vincent, ancora
Sergio Ramella propose una sventagliata di musicisti e gruppi rigorosamente italiani, fra i quali non si può non ricordare il pianista
Ettore Zeppegno, cultore come pochi, in Europa, del jazz di tradizione; Gianni Basso con Guido Manusardi, e infine Enrico Rava arrivato con Massimo Urbani ed i francesi (unici stranieri nella rassegna),
J. F. Jenny Clark, e Aldo Romano. Neanche un mese dopo, dal cilindro ramelliano spuntava una nuova iniziativa che, col nome di "Estate Jazz 77", scorrazzò per il Piemonte iniziando con Orta San Giulio e il quintetto del grande Charles Mingus e proseguendo con Casale e la big band di
Thad Jones e Mel Lewis aggredita da nugoli di zanzare per nulla rispettose della grande prova musicale offerta ma attratte dalla vicinanza del Po e dai riflettori. Seguirono Moncalieri, nella cui Piazza del Municipio si esibì
Dizzy Gillespie e, la sera successiva, Alba con un doppio concerto: prima il quartetto di
Charles Tolliver e poi un protagonista della storia del jazz, il sempreverde
Earl Hines. Concluse la rassegna itinerante Vercelli con una all stars internazionale capeggiata da Franco Ambrosetti e Gianni Basso. Grande novità di questa rassegna fu affidare l'apertura di ogni concerto a gruppi di giovani musicisti, fra i quali si misero in luce, oltre all'Art Studio, anche gli
Esagono e gli Hobo, dalle chiare connotazioni jazz pop.
In città la musica, quella senza particolari etichette, stava però creando seri problemi, come successe in occasione del concerto di
Carlos Santana al Palasport, quando orde di manifestanti esagitati bloccarono un camion che chiedeva strada, quindi tirarono giù di brutto l'autista e lo pestarono a sangue dando quindi fuoco all'automezzo. La faccenda aveva finalmente sollevato scalpore anche nel mondo dell'underground torinese, tanto da indurre le radio "libere" (si chiamavano così, allora) a insistere sulla necessita di "non piantare casini, sennò di concerti a Torino non se ne sarebbero più visti" (testuale). L'invito, va detto, venne ascoltato, tanto che in occasione di un concerto di Archie Shepp si poté assistere a scene di stile londinese, con giovani ordinatamente in coda davanti al Teatro Alfieri ad aspettare che gli inservienti li facessero entrare a piccoli gruppi per non intasare la biglietteria! Del concerto invece è superfluo parlare, come delle non troppo nascoste intenzioni del sassofonista di effettuare una sorta di carrellata a ritroso rivisitando stili e linguaggi dei suoi grandi predecessori. Più interessante è invece ricordare la nascita a Torino, alla fine del 1977, della
CMC, la "Cooperativa per la Diffusione della Musica Creativa". La sua ragion d'essere era la diffusione di quei linguaggi di origine jazzistica che, rifuggendo dalla pedissequa lettura degli standard, avessero nella "improvvisazione creativa" l'humus in cui far germogliare le idee del musicista/creatore, oltre all'"autogestione delle manifestazioni culturali", che secondo i fondatori erano in mano a gente che scientemente proponeva l'avvenimento musicale in modo "avulso dalla realtà in cui nasceva". Il linguaggio è datato, ma indica come anche nel microcosmo jazzistico torinese si fosse inserita la consapevolezza che la musica rifletteva la realtà circostante, come d'altronde il jazz aveva sempre messo in evidenza nella sua turbolenta storia. E la "contestazione giovanile" aveva, in quegli anni, un peso ed un significato di non poco conto.
12/12/2018 | Addio a Carlo Loffredo, tra i padri del Jazz in Italia: "Ho suonato con Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Django Reinhardt, Stephan Grappelli, Teddy Wilson, Oscar Peterson, Bobby Hachett, Jack Teagarden, Earl "father" Hines, Albert Nicholas, Chet Baker, i Four Fresmen, i Mills Brother, e basta qui." |
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Data ultima modifica: 05/01/2008
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