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JAZZ ITALIANO: Marcello ROSA
di Giovanni Masciolini
http://www.masciolinigiovanni.com


Marcello Rosa, trombonista, compositore, arrangiatore, scrittore di testi, ideatore e conduttore di programmi radiotelevisivi, è nato ad Abbazia il 16 giugno 1935 e risiede a Roma. La sua lunghissima carriera (ha debuttato nel 1954) è densa di avvenimenti positivi. Il suo stile profondamente ispirato al jazz tradizionale, spazia verso concezioni originali che gli hanno valsa l'ammirazione di tanti illustri colleghi, contribuendo in maniera decisiva alla diffusione del jazz in Italia.
Ha fatto parte della Roman New Orleans Jazz Band e della "Seconda Roman". Ha suonato con Trummy Young, Peanuts Hucko, Earl Hines, Albert Nicholas, Bill Coleman, Milton Jackson, Lionel Hampton, Slide Hampton e molti altri. 

Innumerevoli sono i concerti e i festival a cui ha partecipato, con i suoi gruppi o come solista ospite, in Italia e all'estero dove ha rappresentato il nostro Paese in numerose manifestazioni internazionali. Ha partecipato ad alcuni importanti festival del jazz, tra i quali quello internazionale di Comblain - La Tour (per quattro anni consecutivi), dove è stato l'unico esponente del jazz tradizionale italiano ad essere invitato come solista (1965). Ha fatto il dj alla RAI ed anche il collaboratore a programmi radiofonici di jazz.

Nel 1984 ha ricevuto il premio RAI Radiouno "30 anni di jazz". Nel '92 ha fatto parte della Grande Orchestra Nazionale di Jazz e nel '93 ha ricoperto la carica di presidente dell'Associazione Nazionale Musicisti Jazz.

Premio Colonna Sonora '87 "Ente dello Spettacolo"; Premio Personalità Europea '97 (Centro Europeo per il Turismo).


Tratto da "Essere jazzista in Italia" - Blu Jazz n. 29 - 1993
...Avevo cinque anni (1940) quando mi schiaffarono davanti ad un pianoforte e nella mia sana ingenuità non lo reputai un castigo, anzi. Lo studiai abbastanza seriamente per sette anni fino a quando, per una improvvisa crisi di rigetto (la mia bravissima insegnante era molto esigente e severa e, forse, troppo anziana per me) piantai tutto; non volevo più studiare. Tutto quello che riguardava la musica però continuava ad affascinarmi: dalle vetrine dei negozi con gli strumenti in mostra, agli spartiti, ai dischi che trovavo a casa, la radio, i libri di storia della musica, andare al Teatro dell'Opera, i film biografico-musicali (uno su Schumann mi sconvolse addirittura), ecc. Si trattava sempre di musica classica, ma qualcosa cominciava subdolamente a serpeggiare. Cominciarono ad arrivare quegli ormai mitici film-rivista con le orchestre di Tommy Dorsey, Harry James, Xavier Cugat, Glenn Miller,....beh, non me ne perdevo uno.
Sempre grazie a dei film fui poi conquistato dalla musica negra.
Due pellicole furono fondamentali: STORMY WEATHER e HELZAPOPPIN', con la famosa scena della jam session e relativo balletto. Fu poi la rivelazione; ero ormai avido di qualsiasi cosa avesse un sapore jazzistico e pur non sapendo in pratica niente di niente mi riprese una prepotente voglia di suonare. Riesumai un classico pezzetto da principiante, "Pupa Ride", uno di quelli da suonare a quattro mani col maestro; scoprii che potevo accompagnarmi da solo facendo con la sinistra gli accordi (Do e Sol7) e che, anche se mi capitava di cambiare qualche nota, tenevo il tempo e arrivavo lo stesso benissimo alla fine; in pratica ero quadrato. Comunque, osando sempre di più, un po' steccando e un po' abusando di "appoggiature", scoprii anche che suonando certe note veniva fuori, in qualche modo, quel particolare "suono" che tanto mi intrigava; avevo scoperto, senza neanche sapere che si chiamavano così, le blue notes. Quando poi, ma ci volle un bel po' di tempo - riuscii a riprodurre con la sinistra il classico movimento del boogie woogie al posto dell'ingenuo um-pa um-pa, mi sembrò di toccare il cielo con un dito, o meglio con tutte e dieci le dita! 
Ma ci fu un altro fattore fondamentale che contribuì alla mia personale, sentita e assolutamente non guidata, scoperta e scelta della musica jazz: mi appassionai alla musica sud-americana. La colonna sonora di SALUDOS AMIGOS, per esempio, la trovavo (ed è= eccezionale. Mio fratello, un po' più grande di me, comprava per le sue festicciole da ballo, 78 giri di rumbe, sambe e mambi, tutta roba originale che conservo ancora gelosamente e che allargò ulteriormente i miei orizzonti musicali. Mi tornò la voglia di studiare la musica e mia madre mi affidò ad un vero concertista di chitarra: Giambattista Noceti. Per un paio di anni la chitarra classica mi assorbì completamente fino a che arrivò il momento magico. Per i miei sedici anni mia madre mi regalò il "Savoy Blues" di Kid Ory (trombone, 1886 - 1973), tratto dal Dixieland Jubilee del '47 (il Savoy Blues più swingante mai registrato); in un colpo solo capii che il "mio" definitivo strumento, costasse quel che costasse (non in termini economici), sarebbe stato il trombone e che la "mia" musica era il Jazz. Fu la conferma della sincerità della mia passione; con tutto il rispetto per l'altra musica, il jazz aveva vinto! Tutto quello che fino allora avevo studiato, assorbito e cocciutamente cercato era servito a farmi comprendere e sentire intimamente quella musica: i suoni e i "colori" del jazz, il blues, lo swing, la possibilità di esprimersi autonomamente, mi erano orami altrettanto familiari e indispensabili quanto il caffelatte la mattina e da allora il jazz è diventato la mia vita e da allora è cominciata una bellissima e pericolosa avventura al cui confronto la Parigi-Dakar diventa una passeggiatina a Via Condotti. 
Marcello Rosa


L'incontro con Marcello Rosa, uno dei decani del trombone jazz in Italia, si può subito condensare nella breve ma efficace considerazione effettuata da Laudenzi: "un puro ai margini, una creatura francescana" nel senso della non accettazione di compromessi.

Vive e lavora prevalentemente a Roma e un tempo era anche molto presente, non solo come musicista, ma anche come arrangiatore, nelle varie occasioni radiofoniche e televisive:

"oggi praticamente suono e basta perché non ci sono più, per nessuno, collaborazioni radiofoniche e televisive"

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Il motivo, manco a dirlo, è da ricercare negli interessi che il grosso pubblico riserva oramai ad altro genere che il jazz:

"secondo i 'burratinai' il Jazz non è una cosa che interessa il grosso pubblico e siccome qui si va soltanto a solleticare il finto, così, più becero, non c'è spazio per niente che abbia un qualcosa, un significato un po' più culturale."

Come già detto, Marcello Rosa ha a lungo partecipato ai programmi televisivi e radiofonici pertanto può essere considerato un addetto ai lavori. A tal proposito è già abbastanza emblematico il racconto sul suo ingresso in RAI.

"nel '63, entrai alla radio con la qualifica di maestro programmatore attraverso un concorso nazionale, e tanto d'esame scritto e orale, di carattere musicale, ma ad un livello d'idiozie che ti facevano sentire un disco e ti chiedevano: 'questo e' un fox-trot o una samba?'. Io su questo risultai brillantemente fra i primi e mi piazzai. I posti erano quattro e i vincitori di questo concorso nazionale eravamo io, Arbore e altri due che poi hanno fatto altre cose. E tra i bocciati a questo concorso ci fu anche
Boncompagni che però fu ripescato perché i posti erano quattro e poi diventarono cinque…"

Questa qualifica fu creata proprio perchè già all'epoca in RAI c'erano stati dei problemi di mazzette pertanto fu creata la figura del cosiddetto "programmatore esterno" per essere al di sopra della critica. L'obiettivo primario  che Marcello Rosa si pose fu ovviamente quello di divulgare il jazz, inventando, per primo, veri e propri programmi innovativi:
 
"Cominciammo a lavorare cercando di svecchiare quella che era la RAI dell'epoca. In parte ci riuscimmo, poi
Arbore trovò la sua strada - Bandiera Gialla etc., etc., io riuscii a fare nel '68, senza nessun riferimento, il primo programma di un discjockey jazzistico che si chiamava 'Jazz Jockey'"

Quello che si cercava di fare era di presentare il jazz nelle sue varie forme, senza pregiudizi, ospitando chi lo rappresentava e differenziandosi fortemente da ciò che, fino ad allora, era stato fatto.

"Fino ad allora i programmi erano sempre di carattere pallosissimo cultural-divulgattivo, ma nel senso 'palloso', io invece programmavo quello che c'era sul mercato, e una 'vecchia volpe' della radio, forse tu te lo ricorderai, che si chiamava Renzo Nissim, mi disse: è un idea così semplice ma è geniale. In effetti io ogni settimana nel mio programma, che durava mezz'ora, se parlavo di una riedizione di King Oliver (cornetta, 1885 - 1938) coglievo l'occasione di parlare del vecchio Jazz, e così se parlavo dell'ultima novità di Davis (tromba, 1926 - 1991) veniva fuori il cool, mentre invece fino ad allora era stato fatto qualcosa del tipo: 'Il jazz comincia nel 1900...'. A me di questo non me ne fregava niente, invece così c'era sempre la possibilità di essere aggiornati passando di 'palo in frasca' ma sempre di jazz in jazz, senza prevaricazioni. E con questo sistema io sono andato avanti quasi trent'anni, e nei miei programmi sono passati tutti anche quelli dell'avanguardia da Schiano a Vitturini, Gaslini etc., ho dato spazio…"

Ma poi qualcosa cominciò a cambiare e qualcuno pensò il programma di Marcello Rosa doveva essere cambiato perchè il Jazz era sinonimo di fascismo:

"...
pensa che il programma 'Jazz Jockey' durò con quel titolo un anno poi Piccioni, che all'epoca era Piccioni, una persona di cultura, appassionatissimo di Jazz, però così appassionato da essere anche un po' snob, mi chiamò e mi disse:
«non si può chiamare Jazz Jockey perché la gente quando sente la parola Jazz cambia canale» e mi obbligarono a cambiare il titolo e diventò 'Un Certo Ritmo'. Poi dopo cambiò ancora, insomma alla fine si doveva cercare sempre un modo per contrabbandare il jazz. Pensa che alla fine i giornali alla fine insorsero dicendo: «Ah, la parola Jazz, sono tornati i fascisti…», pensa un po' i fascisti, il programma lo facevo io, che con i fascisti non avevo avuto mai a che fare. Io ero diventato il vessillo della rivoluzione! Poi, due anni dopo mi cominciavano a dire che io ero fascista, insomma, certe cose…."

Sono i primi segnali di un cambiamento che influenza un po' tutte le scelte che ruotano intorno alla musica jazz in Italia. Il jazz, ma si potrebbe dire l'arte in genere, venne anche utilizzato come simbolo politico, come strumento di messaggio di una certa politica di cui cominciò a seguirne pure le mode e le tendenze.

"A un certo punto anche la rivista scoprì il Jazz ed è cambiato tutto, perché giustificò tutte quelle cose terrificanti che sono state fatte in nome di questa musica che non era più Jazz. Pensa che bastava che uno qualsiasi prendeva un pezzo Blues e non lo doveva intitolare Blues in Sib, come farei io e come ho fatto io,  tu dovevi scrivere, cioè fare lo stesso blues in Sib, suonato bene, male o a cazzo, ma lo dovevi chiamare 'Ballata per un compagno che ha avuto il motorino ammaccato durante la carica della polizia mentre protestava per il popolo palestinese' hai capito? Allora dicevano: 'ah, cazzo, questo sì che è bello'. E con questo equivoco non si è andati avanti solo nell'ambiente di straforo, quello degli appassionati, dei passionari, tanto è vero che lo stesso Polillo uscì su Epoca - mi ricordo, mai fatto un servizio a colori a grandi pagine - con un articolo chiamato 'Ritmo tricolore per dire no'. Pensa che titolo, è di una retorica allucinante e in questo articolo, finalmente su Epoca per cui un giornale a grande tiratura, a larghissima diffusione, venivano fatti i nomi di Schiano, di Gaslini. E da lì è cominciata la cosa che il Jazz si identifica con 'quella cosa lì'. E noi? Io che facevo i programmi? Mi dicevano: 'ma lei maestro fa questo genere che fa battere il piedino, è una cosa obsoleta'.

Quando Mazzoletti aveva la trasmissione e ogni tanto faceva suonare pure me, mi diceva: 'Oh mi raccomando, tu fai degli standard non suonare i tuoi pezzi che non gliene frega niente a nessuno". Ma Adriano, dico, il lavoro mio è quello del musicista non me ne frega niente di suonare 'Bye Bye Blackbird', fammi fare i pezzi miei. Quello invece era il pedaggio per essere presenti in radio. Poi però lasciava 'liberi' musicisti come Mazzon, per dire uno di questi creativi, no? Una volta stavo lì e per tre quarti d'ora questo andava avanti facendo delle cose osé e si beccavano pure dei bei diritti d'autore con questa cosa. Allora tu hai uno spazio radiofonico così e lo rovini con dei 'rumori'. Uno accende la radio e non capisce niente e pensa che si è sintonizzato male. Perché guarda che c'è stato un momento in cui la musica era veramente incredibile, no? Più era agghiacciante e più era riverita".

Oggi è ancora peggio, il jazz in televisione è sparito del tutto e i grandi contenitori non vengono utilizzati per dare spazio, anche se per poco, a questa musica.

"...
non ci sono gli spazi. A Domenica in che dura sette o otto ore, si potrebbero trasmettere due minuti di un jazzista che possa divulgare la musica facendo anche cose un po' più leggere. Non dico che l'artista deve prostituirsi, ma è chiaro che se io vado a parlare in una scuola elementare chiamato dal preside, non mi rivolgo ad un ragazzino leggendogli una poesia di Ungaretti, gli leggo una cosa più semplice, no? Allora in televisione devi sapere gestire quello spazio che ti danno, da un punto di vista spettacolare, del contenuto della cosa insomma, devi saperci fare. Invece qui non si fa assolutamente nulla. E anche quando è stato fatto qualcosa in televisione, quando io avevo gli spazi, mi davano la squadra più scarsa che c'era…io mi ricordo che c'era un regista a cui i cameramen gli dicevano: oddio a me mi fa male la testa con questa musica! Allora, ma come puoi riprendere? Mi dicevano mettiti così con sto' microfono…altrimenti sei all'ombra…, e che me ne frega dell'ombra si deve sentire il suono! E allora vedevi la gente che suonava e non si sentiva niente. Mi ricordo una volta un concerto in diretta dell'orchestra di Clark Terry, 18 persone e non si sentiva niente. E' chiaro che poi la gente cambia canale! Invece senti all'epoca i Rokes che erano in tre e si sentiva chissà che, anche perché era tutto finto, in playback."

Una specie di degenerazione che ha inglobato anche chi il jazz non lo ha fatto mai come i rappresentanti vari della musica cosiddetta commerciale.

"Sì, c'e' stata una degenerazione, però il danno è stato fatto e quelli che sono saliti sul gradino, sul piedistallo, ci stanno ancora e degli altri non gliene frega niente a nessuno. Adesso poi li vedi che recuperano tutto e fanno l'omaggio a questo e fanno l'omaggio a quello, ripescano pezzi, facendo delle cose di una ingenuità bieca, perché a sentire 'In a mellow tone' fatto dai cosiddetti ex-avanguardisti, cioè quelli che prima erano gli avanguardisti, è una cosa davvero deludente e ti accorgi proprio anche dei limiti. Qui in Italia siamo arrivati all'assurdo che quando il Jazz lo suonavamo noi, non lo potevamo suonare perché era una cultura che non ci apparteneva, poi però quando addirittura Zucchero si è messo a fare il blues, allora va bene! Ma non si percepisce il distacco tra il jazz come lo intendiamo noi e quello di adesso perciò se tu fai il blues e suoni il blues con swing passi per uno che fa il rockettaro, hai capito? Si sono impadroniti di tutto quello che era giusto e swingante per farne una cosa commerciale e oggi, chi fa quella musica lì, automaticamente è out da un punto di vista jazzistico e infatti per essere jazzista devi rompere i…hai capito?"

"Adesso per far parlare non devi suonare jazz bene, devi suonare un'altra cosa, perché altrimenti i critici non ti considerano e per loro quello è jazz. Noi che facciamo un certo tipo di jazz, e alla fine forse un po' bene lo facciamo pure noi, non veniamo calcolati perché noi invece copiamo, noi siamo gente che vive sugli allori, che rispolvera i cadaveri, hai capito? Allora io non mi posso mettere a fare, la 'Monferrina', perchè non me ne frega niente, non mi piace, e perché non è la mia cultura. Dovrei stare 40 anni nelle langhe e forse mi entra dentro, siccome però non mi piace manco la fonduta non me ne frega niente, mentre mi piace il riso coi gamberi, suono il jazz di New Orleans ma come lo penso io, adattato al mio modo di suonare. Ma comunque non voglio fare delle etichette che poi diventano dei paradossi.".

E questo porta ad un circuito ristretto che offre possibilità sempre ai soliti nomi.

"E poi sono sempre i soliti che prendono i premi, sono sempre quelli che hanno gli articoli. Se io avessi avuto il 10% delle pagine di pubblicità che hanno avuto questi magari starei in America. E invece loro sono su un piedistallo e non li sposta più nessuno, oramai, sono anni, decenni, D'altra parte sulle riviste specializzate si fa di tutto per ignorare quello che fanno quelli che fanno il Jazz, perché fare il Jazz, è diventata una cosa...bisogna essere strani, bisogna essere
Trovesi, Coscia. A me non me ne frega niente della 'Monferrina', capito?, non me ne frega niente, sono anche divertenti e sono dei bravi musicisti, ottimi musicisti, ma dicono: tu non lo devi fare il jazz, ma cazzo! Io sono 50 anni che sto a seguire, ad inseguire il blues, ti pare che non mi sono impadronito di un certo tipo di linguaggio?"

E' evidente che Rosa si sia indubbiamente impadronito di tale linguaggio. Ma la storia di questi musicisti in Italia ha contribuito anche ad un aspetto più folkloristico diventato poi noto anche grazie al cinema. In particolare mi riferisco a quel famoso episodio al "Rugantino" di Roma, nel '58...

"...al Rugantino c'era la Roman, la gloriosa Roman che tanto ha avuto, tanta importanza e anche tanto demerito e che purtroppo io ci ho passato sette anni con loro e con il nome che avevano e che ancora hanno riescono sempre ad essere molto seguiti. Anche se è roba di 40 ani fa, oggi se vado a suonare a, a, a  "Tagliacozze", la Roman la conoscono e questo un po' causa un ignoramento di tutto quello che uno ha fatto quarant'anni dopo; ma comunque sono stati i primi e giustamente bisogna dargli onori. Comunque, c'era Riccio al clarinetto, Borghi alla tromba, Cesari al piano che suonava con noi ma c'entrava come 'il cavolo a merenda' perché Cesari stava su un altro pianeta, sulla luna. Lì è stato fisso, pensa un po'; poi c'era Pintino alla batteria, Pino Liberati al basso, e in più Battistelli aggiunto al vibrafono. Faceva degli intervalli con Riccio, swing."

E l'atmosfera che si respirava era quella dei night club in cui oltre ad ascoltare i famosi cantanti dell'epoca c'era anche un po' di jazz...da ballo.

"Poi si suonava pure alle 'Grotte del Piccione' che era all'epoca un famosissimo night dove ci alternavamo con Marino Barreto che a quell'epoca era il massimo del commerciale, notevole interprete di un certo tipo di musica. Però la gente che andava al night poteva sentire la canzone suadente, vagamente latina, e poi anche il jazz nostro, perché all'epoca il ballo, il ritmo ballabile era quello lì. Adesso purtroppo la differenza è molto più marcata per cui se vai a suonare il jazz non balla più nessuno. Ma di questo tutto sommato non ho nostalgia. Oggi il jazz si può suonare e bene, in altri ambienti, nei club, che una volta invece non c'erano. Una volta suonavi nel night perché andava benissimo se tu dovevi fare un un 'fox trot' e suonavi 'Body and Soul' o 'Baciami Piccina' era la stessa cosa, insomma, tanto il ritmo era quello."

Il tutto era sempre legato da una grande passione e dedizione al mestiere di musicista grazie forse a quello spirito romantico che ha notato Laudenzi nel suo racconto.


"Sai, prima ci vedevamo a fare le prove, ci mettevamo ad ascoltare i dischi perchè prima c'erano solo quelli. Li ascoltavamo centinaia di volte per capire che accordo mettere, che note fare, non c'erano libri, manuali, niente. Oggi hai tutto, ci sono molti spartiti, scritti anche male, ma c'è una base da cui partire. Però prima si viveva con un'emozione interna. Mi ricordo che andavo col tram a Velletri per provare, adesso non se ne parla di provare, si pensa solo a quant'è il compenso. Prima non si parlava d'altro che di suonare. Tornavi a casa che eri distrutto dalla fatica però dicevi:
«Ammazza! Siamo riusciti a fare il tema di...». Ed eri contento. Adesso è tutto più facile e tutto più difficile perchè non gliene frega niente più a nessuno. Poi quello che si faceva all'epoca non c'era in giro, la gente non lo sentiva. Oggi nell'orecchio hai tutto, che è un bene, però se vuoi fare qualcosa di più tradizionale, niente, non si può fare. E tu scrivi materiale su materiale, metti su i gruppi e poi magari fai due serate all'Alexander Platz, poi butti tutto. Qualsiasi americano che fa una cosa ci fa minimo una tourneè estiva, dischi..."

I dischi, altra nota dolente rilevata da Marcello.

"adesso i dischi si fanno, basta però che uno paga al produttore e dice:
«voglio fare questo disco». Ne compri tremila copie, te le vendi durante le serate. Poi c'è qualche fortunato, tipo, che so', Gatto, Giovanni Tommaso e altri, che sono riusciti ad incidere per la Sony. Mah, non so, ci sarà qualche ragione in più che non so. Mi hanno detto che questa strombazzata di trasferta che hanno fatto per fare Rugantino Jazz non è stata un granchè. Dice che non è servita assolutamente a niente, ha avuto successo ma perchè anche i telegiornali ne hanno parlato. Però finisce lì, perchè non credere che agli americani gliene fregasse qualcosa. Una cosa pilotata perchè oramai Umbria Jazz è diventata un'industria tale, gemellaggi ecc..."

Oggi Marcello suona spesso all'Alexander Platz con gruppi di varia dimensione a seconda delle disponibilità, anche queste dettate da una logica commerciale.

"suono qui a Roma all'Alexander Platz che è l'unico posto rimasto con una programmazione giornaliera di jazz, che è tipo una cave dove si mangia e si ascolta. Suono con uno dei miei quattro gruppi. Quando hanno soldi porto il sestetto, quando ci sono meno soldi vado in quartetto, certe volte mi allargo e diventiamo otto, ma sempre a discrezione loro. Poi il bello è che se suoni di giovedì hai una paga se suoni il sabato ne hai un'altra, poi di mercoledì costa di meno perché poi c'è la partita allora non ci va nessuno. Tutte queste cose terrificanti…pensa un po', c'è la partita, ma chi se ne frega, però anche questo condiziona. Una volta sono andato a Praga e ho visto che lì i gruppi hanno le locandine fatte per bene, la programmazione curata. Qui i gestori non ci credono, non fanno niente, ti scrivono il nome sulla lavagnetta accanto al menù!"

Oggi i musicisti sono tutti un po' manager di se stessi e si ingaggiano tra di loro a seconda dei progetti che ognuno riesce a promuovere. E spesso, esauriti i nomi di propria conoscenza, diventa poi difficile trovarne. A questo va aggiunto che il livello retributivo è veramente ai minimi consentiti.

"Infatti non è affatto facile trovare musicisti. Una volta ero a casa di Tony Scott (sax, clarinetto) e gli dissi che non riuscivo a trovare qualche musicista per suonare. Allora lui mi prese un librone che conteneva tutti, dico tutti, i musicisti di New York. E meno male che erano solo quelli di New York! Allora mi fa, a titolo provocatorio, s'intende: «scegli, chi vuoi?». Io allora aprii il libro e alla voce trombone ce n'erano tanti. Vedi, lì c'è più organizzazione. Inoltre in America mors tua vita mea, nel senso che c'è anche ricambio, mentre qui per uno che eccelle si crea subito il vuoto, o c'è lui o niente.
Poi qui non ci sono agenti non perchè non ci vogliono essere, ma semplicemente perchè non ci sono i margini anche per loro. Per esempio, una volta ho fatto una convention per i tassisti, all'Holiday Hinn. Pagavano una miseria eppure c'era uno sponsor internazionale, era una cosa in grande, con grande budget. Invece, se per queste cose vai a chiamare, che so,
Little Tony
, tanto per dirne uno, a lui quindici milioni glieli danno, solo a lui. Io invece devo andare lì, devo fare l'ENPALS per cinque persone, chi porta la batteria, chi i microfoni...Lui invece è un personaggio e gli danno i soldi. Il manager, anche se prende il 20% su quindici milioni, è una cifra. Su di me, che prendo 200.000 quanto ti prende il manager, 40.000? Ma dai, manco il fax se ripaga!"

Questa situazione chiaramente non è generalizzata, nel senso che c'è sempre qualcuno che, bontà sua, riesce ad emergere...

"il problema è che, finita quella pochissima fonte di guadagno che poteva essere la partecipazione ogni tanto ad un programma radio o alla televisione, è finito, perchè qui non si rendono conto che invece di buttare trenta miliardi a lustrini vari potrebbero far lavorare un po' tutti.
Pensa che è venuto fuori un casino da parte di musicisti qualificatissimi (
Trovajoli...) che avevano capito che come diritti d'autore, uno come ad esempio Paolo Ormi che faceva le siglette con la tastierina guadagnava 600.000.000 a semestre e Trovajoli che mi diceva:
«Ma tu capisci, io faccio tutta la musica al Sistina, e quando mai li guadagno seicento milioni?». Infatti hanno poi equiparato un po' le quote. Inoltre tu mi fai fare un programma a settimana, io campo, e sto bene. Invece no, chi riesce ne fa 2000 e guadagna un miliardo però devi fare un tipo de musica che...lasciamo perdere. Se non esce qualche persona illuminata che ti fa lavorare va a finire proprio male...
Ma per noi musicisti poi è sempre stato così. Una volta facevamo i programmi cosiddetti decentrati, dalle sedi
periferiche (Torino, Trieste ecc...). E, non ti faccio il nome, una volta andammo a Torino e prendemmo l'aereo, che ovviamente dovetti anticipare. Poi alla fine della trasmissione io avevo il treno all'una per rientrare. E invece questo personaggio mi fa: «Ma scusa andiamo a mangiare a Genova, sai dove ha mangiato Frank Sinatra», e io dico «sì, ma chi paga?». Lui invece era in un albergo da 560.000 a notte e aveva l'aereo la mattina alle 5, perciò non capisco che cosa dormiva in questo albergo. E io invece devo fare i conti."

"I cosiddetti 'soliti' invece guadagnano bene perchè il giro che hanno gruppi come l'
Instabile, con Schiano, Bruno Tommaso, Paolo Damiani che è diventato direttore dell'Orchestra Nationàle a Parigi è notevole. L'anno scorso andai a Milano alla Ca' Bianca a fare tre serate con Mario Rusca. Chiamo a Musica Jazz e il direttore: «Ah, carissimo come va?». E io dico: «Sa, vengo a Milano, volevo sapere se c'è la possibilità di fare una recensione". «E che fa a Milano?». «Devo suonare alla Ca' Bianca». «Ah, be' ma noi non facciamo più le recensioni su queste cose». Allora dico: «Magari posso venire lo stesso, vi vengo a trovare in redazione». «E per che cosa?». «Così, tante volte, un piccolo scambio, un'intervista.». «No sa, non è previsto nel palinsesto». Hai capito? Però il servizio su Trovesi e Coscia è sempre pronto. E io? Non te ne frega niente? Ma se ti occupi di jazz almeno na' paginetta ogni tanto me la vuoi dare? Puoi anche dire, ma chi la legge? Non lo so, ma ignorare completamente non è bello.  Se dicessero: 'Marcello Rosa è una pippa allucinante!', e beh, se è vero, come sali sul palcoscenico, così devi scendere, devi accettare, nel bene e nel male. Invece niente, non c'è più Marcello Rosa, non lavora più! Addirittura, una volta sono andato a Chieti, al posto di Pistocchi, perchè lui fece il mio nome e mi disse che erano meravigliati, dicevano: «Ma come, suona ancora?». Capito? Allora io dico, il Corriere della Sera mi può ignorare ma Musica Jazz, almeno quello, ogni tanto.
Poi prendi anche il referendum Top Jazz. Trovesi quante volte si è piazzato?
Fresu
? Rava?"

Non parliamo poi della pensione che a fine carriera si riesce ad ottenere. Purtroppo i contributi sono quelli che sono e i risultati...

"Oggi ho la pensione dell'ENPALS di 720.000, come un extracomunitario. Pensa che una volta ho chiesto a uno che lava i vetri qua sotto quanto prendeva e lui mi fa:
«100, 150 mila al giorno!»."

Umberto Cesari, grazie all'interessamento di un amico, è riuscito ad avere la minima e ora sua moglie prende circa 600.000 lire. Mio padre (Aldo Masciolini) prendeva 1.100.000, e questi purtroppo sono dati inconfutabili.
A tutelare la categoria hanno provato varie volte alcune associazioni come l'AMJ di cui Rosa stesso è stato presidente.

"Quando fui presidente dell'AMJ (Associazione Musicisti Jazz) la prima cosa che feci fu quella di andare all'ENPALS per parlare col direttore generale. E gli dissi che c'era qualche problema sul fatto che non venivano versati i contributi. E lui mi suggerì di fare una denuncia. Gli dissi:
«senta, io non posso denunciare il proprietario di un locale che non mi paga i contributi perchè voi sapete benissimo che non è così che si può fare. Non è una ripicca mia, è un fatto generalizzato in tutto il territorio». Mi disse che loro non avevano la possibilità di fare un'indagine a tappeto e mi liquidò dicendo: «caro maestro, qui bisogna cambiare le leggi!». E così si arenava tutto perchè questo discorso a chi interessava? 200 persone, la maggiorparte degli altri, colleghi anche di nome, se ne fregavano perchè tanto avevano le serate. C'è chi ha 3 milioni e mezzo di pensione perchè magari da ragazzino si è segnato sempre tutto, ha messo il timbro ecc...Io 700.000 perchè risulta che per 47 anni non ho fatto niente! Non è mai stato considerato questo problema, pensa che recentemente ho letto di un 'grande' accordo per i lavoratori da night club in cui il minimo sindacale è stato portato da 80.000 a 82.000! 
Poi la continuità non c'è, fai una serata e poi stai fermo. Qui il musicista quando non lavora non guadagna, non esiste un sussidio, mentre persino a Praga sono previste queste cose.
Ma tu lo sai che il piano bar, nobilissimo lavoro, ma è quanto di meno artistico che ci sia, ha una percentuale SIAE fortissima. Cioè un pianista di piano bar che si segna i suoi pezzi riceve bei compensi. Se io segno i miei pezzi sai quanto mi da la SIAE? Ma manco 150 lire a pezzo per ogni volta che è suonato! Inoltre i posti deputati per fare la cosiddetta arte sono tassati in maniera allucinante. Come presidente dell'AMJ scoprii questa cosa incredibile. Da un cineclub, dove fanno i film di cassetta, la SIAE prende il 2% degli incassi perchè gli si riconosce una programmazione culturale. Il jazz club, che è equiparato al night club, paga il 22%! E certo che se a un gestore, su 1 milione di incasso gli levi 220.000 che invece potrebbe dare a me se pagasse il 2%, che deve fare? E anche questo è rimasto così. Mi dicevano: «Sì, sì, lei ha perfettamente ragione»
. Basta, non si andava avanti."

"Quando ho cominciato io, abbandonando architettura per dedicarmi professionalmente alla musica, tutto sommato ho avuto anche il mio spazio perchè di suonatori di trombone non ce n'erano, tranne
Dino Piana. Adesso ce ne sono tanti. Negli ultimi cinque o sei anni ne sono nati tanti e sono tutti uno meglio dell'altro perchè c'è Mazzoni, un maestro che non è un jazzista, ma ti imposta molto bene, è bravissimo. Pensa che io andai a lezione da uno che suonava a S. Cecilia e che era stato fatto prigioniero in Africa e aveva conosciuto Tommy Dorsey (trombone, 1905 - 1956) che faceva i dischi per le truppe. E diceva che era più bravo lui di Dorsey a fare gli esercizi! Pensa, era uno di estrazione bandistica che suonava tremendo, col sistema vecchio da conservatorio italiano ottocentesco. Invece gli americani tirarono fuori il sistema no-press. Erano due scuole differenti. Infatti tutti i suonatori di ottoni americani, cominciano a suonare e sembrano fallosi, entro certi limiti, poi, man mano che si scaldano suonano sempre meglio. Invece i nostri attaccano benissimo e dopo mezz'ora non ce la fanno più. Perchè il muscolo si scalda. E questo vale per tutti gli ottoni, anche per la tromba. Infatti senti Gillespie (tromba, 1917 - 1993) che comincia che fa due note, poi però, dopo tre ore, lo senti e dici: «Cazzo!! Ma come fa? Io so' morto e lui ancora no?».

Con gli strumenti a bocchino, se premi, controlli bene il buchetto del labbro, ma ne risente il muscolo del labbro poichè il sangue non passa più, i denti che non ti sostengono ecc...quindi finchè sei fresco suoni bene, ma quando ti stanchi non suoni più. Gli americani trovarono questo sistema col cuscino d'aria sulle labbra. E' molto più difficile, ma se riesci a controllare questo cuscinetto non ti stanchi facilmente. Oramai anche nei conservatori insegnano il metodo americano perchè si è affermato in tutto il mondo. Ma ora ti leggo testualmente cosa dice il vecchio metodo: «atteggiare le labbra al sorriso, onde evitare essenziali rigonfiamenti delle gote. Porsi davanti allo specchio...premere fortemente il bocchino ecc...»
. Pensa te, a questo aggiungi che all'epoca l'età media era di 35 anni, invece c'è gente che a 80 anni suona ancora bene. Gillespie ha suonato fino alla fine..."
 
Soluzioni? E' difficile trovarne di effettive ma il pensiero va sempre ai media, a chi fa televisione, radio, i giornali.

"Ci vorrebbe qualche produttore televisivo, e parlo di televisione perché è quella che si porta appresso tutto quanto, l'appassionato di un certo tipo di musica che ti desse un minimo di spazio. Conosco tutti e nonostante tutto mando gli inviti e non ti rispondono, gente come
Rispoli: quelli che fanno 'Luna Italiana', tutta questa gente che come però parli di altre cose si sciolgono immediatamente, si scappellano, come parli di jazz, siccome l'ignoranza purtroppo è dilagante, si chiudono. Allora se ci fosse invece che Ciampi, Clinton che suona il sassofono, forse qualcuno direbbe: «aho, facciamo un po' de jazz anche in televisione».
Dobbiamo sperare in un mecenate illuminato,  che non si chiama Berlusconi. Costanzo poi, impone le sue cose, non ti da la parola. Poi musicalmente lui è insensibile, ogni tanto prende un sax, ma fa finta. Una volta chiamai
Sgarbi e gli portai una lettera al Majestic. Era l'epoca in cui ero presidente dell'AMJ e gli dissi che non volevo niente, volevo solo parlargli della situazione artistica del jazz in Italia e gli avevo anche allegato l'annuario dei jazzisti dell'epoca che conteneva, bene o male, 700 nomi e quindi era una realtà che non si può ignorare.
Torno a casa, erano le tre del pomeriggio, squilla il telefono: «Pronto, sono Sgarbi.». Io rimasi un po' così, e gli dissi che non me l'aspettavo e lui invece mi invitò alle quattro a Mediaset prima del suo programma accettando di parlarmi. Andai di corsa e quando lo incontrai mi disse che si aspettava che fossi più giovane! Ci andiamo a prendere un gelato e ho provato a parlargli e a capire che potevo fare per sensibilizzarlo. Ma lui mi ascoltava come se uno mi parlasse di cibernetica. E mi disse: «Ma lei perchè insiste tanto col jazz, perchè pensa che se ne dovrebbe parlare in televisione».  Dissi: «Magari, sa, si dovrebbe fare un programma dove magari c'è lei, e invece del solito complessino di musicisti vestiti da marinaretti magari si potrebbe promuovere un po' di jazz». Ma vidi che lui non condivideva, perchè poi purtroppo musicalmente è completamente staccato. E così rimase anche un po' deluso perchè non poteva fare niente per me. E così un po' tutti. Poi ci sono i filtri. Mica si può parlare con Berlusconi, prima devi passare i vari filtri e se vado io e mi presento, manco mi conoscono. Poi spiego che faccio e annuiscono e niente più.
L'altro giorno leggo sul giornale 'Jazz Time: il martedì di Villa Brasini', una villa che è qui in via Flaminia dove una volta c'era un famosissimo ristorante. E' un palazzetto di tre piani e sembra di entrare nella casa di Dannunzio, sembra il Vittoriale. Insomma una cosa lussuosa, tutto affrescato, finto, ma fatto bene. Vado là, saloni bellissimi, mi presento e l'organizzatore mi dice: «Ah, salve, sì io la conosco, anzi se lei mi potesse dare dei consigli». Capirai, io ero andato lì per vedere di fare una serata. E mi fa: «Sa, perchè io per fare questa prima scaletta di martedì sono andato alla scuola del Testaccio ed ho messo addirittura un avviso su Porta Portese». Porta Portese è un giornale di annunci distribuito qui a Roma. Dico: «e che ha scritto?», «Cercasi jazzisti per jam session». «Ma come, lei ha un posto in un castello che uno entra e si dovrebbe mettere lo smoking e non ha indicazioni», «no, sa, io non ho contatti, io non sapevo come rintracciarla...». E questo è un imprenditore, uno che comunque non è uno sprovveduto. Gli dico: «ma lei avrà delle conoscenze, delle possibilità. Può fare una programmazione di prestigio e poi magari anche delle jam session.», e mi chiede: «ma come fa l'Alexander Platz?», «Ma l'Alexander Platz sono vent'anni che nel bene o nel male ha insistito sul jazz e adesso la gente sa che va lì anche per sentire jazz.»
. Per cui, quando trovi uno che magari ha anche l'entusiasmo scopri che è completamente sprovveduto.
Poi quando c'è l'opportunità, ti invitano sempre quelli che fanno la cosiddetta avanguardia. E li vedi che ti fanno per tre quarti d'ora certi pezzi! Io, che sono appassionato, chiudo, immagina la gente.  Questo non vuol dire che io devo andare a fare 'Nel blu dipinto di blu' fatta a jazz, altro sbaglio che la RAI ha spesso fatto, tu devi fare il jazz normale, presentato da Pippo Baudo, dopo un balletto, dopo un quiz, ma ti pare che la gente chiude? Due minuti di un pezzo normale, fatto con musicisti, un assolo di batteria spettacolare. Io invece devo vedere, che so', i Pooh, con ottantamila tamburi che non ci fanno niente ed è tutto finto, col fumo! Ma dai!

Un altro esempio. L'orchestra di Demo Morselli con Costanzo. Addirittura hanno trovato uno che almeno fa fare un chorus, un refrain, una volta gli ho sentito fare anche
Hello Dolly, Satin Doll, ma dovevi sentirli, pa-pa-ra-pa-pa-pa-bum! Finito! Ma scusa, hai una sezione di trombe, di cui la prima, eccezionale, che si chiama Fernando Brusco, che suonano benissimo, con delle possibilità tipo Sandoval. Ma insomma, fagli fare un solo, una cosa che lo evidenzi. Io mi rifiuto di pensare che alla gente non piacerebbe. Allora, una volta fai fare una cosa alla tromba, una volta al sassofono, un solo di batteria. Automaticamente io penso che la massa dei giovani potrebbe rimanere affascinata da questa cosa qui. Invece devi vedere questi che devono fare più o meno finta.

Eh, purtroppo il jazz piace tantissimo a pochi e pochissimo a molti. Per alcuni può anche essere una ragione di vita ma sai, molti potrebbero farne tranquillamente a meno. Visto però che lo spazio ci sarebbe volendo dare un po' a tutti l'opportunità, non vedo perchè quando uno può, questa opportunità poi non la da, fanno gli snob. Ad esempio,
Leone Piccioni, grande appassionato di musica, grande amico di Mazzoletti, era un po' snob! Glielo dissi pure. Lui era direttore generale della RAI all'epoca. Piero Piccioni, il fratello, è un musicista, ho suonato varie volte con lui, un gran casinaro ma con una bellissima vena musicale. La famosa sigletta di Alberto Sordi, è la sua. Sono 300 sovrapposizioni! Apparentemente tutte sballate. Tanto è vero che provai a dirgli:
«Maestro, ma qui, io dovrei suonare questa nota...». E lui: «Tu non ti preoccupare, suona». In effetti poi andavi a sentire tutto l'insieme e c'era un senso, suonava bene."


La passione, quella non manca mai, è senza età, e forse è proprio grazie alla passione che Marcello riesce a mantenere un impegno e una qualità sempre elevate nelle sue performance, nella sua musica.

"Guarda, il bello è che, nonostante tutto, quando vai a suonare ci sono vecchi nostalgici e giovanissimi. Il jazz arriva a chiunque non è un fatto generazionale c'è gente giovanissima che suona benissimo adesso il jazz tradizionale che sembra una cosa assolutamente impensabile. E questo perchè l'uomo non è uno stronzo, ognuno ha il suo desiderio di approfondire, di cultura etc., etc., e trovi davanti gente che ti apprezza che ha venti anni e altri che ne hanno settanta. Io ho messo su un gruppo con gente che suona in maniera modernissima, il titolo del gruppo è Dixie My Dear e dove, insomma se uno ha un minimo di cultura, capisce, perché il dixie per me è dentro al mio cuore, però non mi verrebbe mai in mente, anzi mi farebbe schifo, di suonare come si suonava settanta anni fa. Anche perché quelli di settanta anni fa magari adesso userebbero il computer, il basso elettrico. 

PESCARA JAZZ FESTIVAL 1969:
ALBERT NICHOLAS & NEW DIXIELAND SOUND 

Albert Nicholas,
clarinetto
S. Subelli,
tromba
Marcello Rosa,
trombone 
F. Forti,
clarinetto
T. Torquato,
piano
Giorgio Rosciglione,
contrabbasso
Gegè Munari,
batteria

"Jazz di classe e luna al Festival di Pescara"
Pienamente riuscita la prima manifestazione, la rassegna, pur tra qualche difficoltà, ha saputo tenersi su un ottimo livello.

Pescara ha chiuso in bellezza la sua prima esperienza in fatto di Festival di jazz: ha conosciuto qualche difficoltà, come sempre avviene in queste rassegne, ma le ha superate molto brillantemente e, soprattutto, ha saputo tenersi ad un livello ottimo. 

Anche i particolari sono stati curati dagli organizzatori che hanno predisposto persino un notevole numero di televisori per consentire al pubblico di seguire le vicende dell'Apollo 11. Tanti sacrifici meritavano una ricompensa e noi ci auguriamo che l'affluenza di pubblico, l'interesse della stampa specializzata, l'intervento della RAI-TV abbiano già convinto l'organizzazione a programmare la manifestazione tra quelle insopprimibili. 

La serata conclusiva ha visto anche la partecipazione di un complesso tradizionale, il New Dixieland Sound di Marcello Rosa e, anche se notoriamente preferiamo il jazz moderno, troviamo doveroso che la musica jazz delle origini, quella che ha reso possibile la nascita del jazz moderno, abbia il giusto riconoscimento in ogni rassegna jazzistica. 

Tanto più che Marcello Rosa, leader della formazione, non presentava un'orchestra revival, ma suonava invece in stile dixieland, musica moderna, di jazzmen cari alle ultime generazioni. Più tardi la formazione ha accompagnato Albert Nicholas ed allora si sono riascoltati i motivi sacri di New Orleans, di prima mano, perché ad eseguirli era un musicista che, nato nella culla del jazz, ne ha vissuto l'età più affascinante.

Certo Nicholas non è più il travolgente clarinettista che si esibiva con King Oliver, ma la classe è sempre enorme e lo spirito giovane; il pubblico è rimasto affascinato e gli ha tributato calorosi applausi. 
PAESE SERA
21 luglio 1969 Roberto Capasso

ndr. Alcuni musicisti presenti quell'anno a Pescara: Bill Evans con Eddie Gomez e Martial Solal, Barney Kessel, Jean Luc Ponty, Philly Joe Jones, Franco D'Andrea.

Io mi ricordo quando ho conosciuto Albert Nicholas (clarinetto, 1900 - 1973), quarant'anni fa, lui era già vecchio. Beh, lui era uno che aveva creato il jazz, perché suonava con King Oliver (cornetta, 1885 - 1938). Una volta andammo a suonare, era nel '69, eravamo a Pescara, proprio la notte che ci fu lo sbarco sulla Luna. Suonai a Pescara, al Festival, e dopo avevano predisposto dei televisori nel parco dove c'era il Festival e tutti abbiamo aspettato le cinque della mattina per vedere insomma una cosa un po' che è rimasta storica. Il giorno dopo lui doveva suonare a Roma e io lo accompagnai perché tornavo anch'io a casa, e l'accompagnai al Folkstudio, locale celeberrimo all'epoca. E lì entrò e c'era una band della quale non ti posso fare il nome che stava a suonare e mi disse: I don't like this Mickey Mouse Band, cioè, a me non piace questa questa band di Topolino, hai capito? E questi suonavano proprio il dixieland, mentre lui invece, che il dixieland lo aveva anche inventato, era convinto di essere moderno e aveva 77 anni, capito?"

Ma che gli italiani sappiano suonare il jazz non è mai stato notato più di tanto. Nessuno vuole negare le radici culturali e sociali che legano questa musica al mondo afro-americano, ma il mondo è grande e non è detto che se non si nasce genio del jazz, il jazz non lo si possa suonare, e anche bene.

"ma certo, il problema è che qui c'è stato sempre quest'equivoco che il jazz è di derivazione afro-americana. Va bene, però, quanti italiani in America sono diventati dei grandissimi personaggi del jazz? Non diciamo che sono stati i creatori, per carità. Se fra 2000 anni ci sarà il dizionario, alla voce jazz ci sarà: Parker, Armstrong, Ellington. E sono questi tre che racchiudono tutto e guarda caso sono tutti e tre negri. Armstrong (cornetta 1901? - 1971) perché che vuoi dì, il solismo che ha Armstrong, no? Ellington (piano, orchestra 1899 - 1974) ha inventato il suono dell'orchestra, per cui ha aperto altri orizzonti, Parker (sax alto 1920 - 1955) che ha fatto? E' andato al di là sugli accordi, semplicissimi, lui non ha composto niente, cioè, ha fatto delle improvvisazioni che poi diventavano pezzi… però ha suonato in maniera tale che ha dato la struttura addirittura alla musica più attuale fino al Free. E loro, a mio avviso, sintetizzano quello che è il jazz, però…se tu mi dici Carl Fontana (trombone, 1928), ma non è un jazzista? Ma insomma Frank Rosolino (trombone, 1926 - 1978) ma che non è un jazzista? Ma non stiamo mica parlando di tromboni! Poi purtroppo, in Italia ci si è messi in testa che il jazz deve essere una cosa d'arte, allora chi fa il jazzista pensa di essere chissà chi, deve porsi su un piedistallo. Non è vero! Il jazzista è un artigiano. Io ho fatto il trombonista e stavo per fare l'architetto. Stavo all'Università facevo architettura, ma se io fossi diventato architetto, perché ad un certo punto ho smesso perché volevo fare il musicista, avrei avuto sulla targa 'architetto' ma mica sarei diventato Michelangelo, però un architetto riverito probabilmente sì. Avrei fatto il mio lavoro, faccio una casa che sta in piedi, che non crolla. Poi una volta ogni 10.000 architetti viene fuori Aalto, Le Courbusier, Michelangelo, Bernini, no? E così c'è Armstrong e poi ce ne sono 3.000 che non saranno mai Armstrong però sono veri, autentici. Invece qui…fatti applaudire, senza tirarti giù i calzoni, applaudire perché sai suonare, perché sei un artigiano che sa lavorare, che sa fare il suo mestiere. Poi se ti viene una volta un'idea geniale sarai riverito, un vero artista. Qui pare che fanno tutti le cose definitive…"

Marcello, tra le altre cose, si è anche cimentato nel giornalismo specializzato, partecipando ad un'avventura breve legata al giornale Blu Jazz, nei primi anni
'90, diretta da Adriano Mazzoletti. Non è entusiasta di quella esperienza, non tanto per il fatto di scrivere in sè, quanto per gli scarsi risultati ottenuti in termini di cambiamento delle cose essendosi trovato sempre da solo a cercare di far capire. I critici finivano col dargli ragione ma senza esporsi mai. 

"Io ho anche scritto purtroppo…purtroppo perché non è servito a niente…perché tutti quanti mi hanno dato ragione e poi me l'hanno messa…hai capito? Il direttore era Mazzoletti e purtroppo ha toppato con questa rivista perché visto i collaboratori poteva essere una validissima alternativa a Musica Jazz e invece poi era diventata una Musica Jazz senza la convinzione di essere Musica Jazz, per cui tutta politicizzata."
"Poi la gente non ha il coraggio di dire le cose come stanno. Io mi ricordo che quando ero con Piras a delle trasmissioni con Mazzoletti in cui c'erano le discussioni che andavano in diretta che poi comunque non servivano: la trasmissione era fatta male perché era tutto un parlare, un parlarsi addosso in quattro o cinque, e così la gente alla fine non capisce, ma questo era uno sbaglio di impostazione di Mazzoletti. Insomma Piras mi diceva all'orecchio «sono d'accordo con te», e io gli dicevo «ma dillo al microfono, o vecchio mio!» Perché se lo dico io sembra che sono sempre il solito musicista frustrato che deve dire una cosa, ma se è avvallato dal critico, allora uno dice: «sto' Marcello Rosa non è uno stronzo». Perché c'è sempre il fatto che uno parla 'pro domo sua', capito? Perché io vivo questa realtà dal di dentro, non ho altro stipendio, io suono e se mi battono le mani mangio, se non battono le mani tiro la cinta, e tutta questa altra gente che invece fa e disfà, fa altre cose, e allora dovrebbe stare attenta, dovrebbe essere molto più riconoscente a quelli che giorno dopo giorno gli fanno trovare la possibilità e il piatto pronto perché questa gente scrive di chi? Di una situazione che abbiamo creato noi dal più piccolo, dalla più pippa a quello più grande, no? Ad esempio un giorno Molendini del Messaggero mi disse: «guarda hanno fatto Arbore presidente di Umbria Jazz». Io scrissi, nella qualità ufficiale di presidente dell'associazione musicisti del jazz, che lui farebbe benissimo a rifiutare questa cosa, questa qualifica, questa onorificenza e così avrebbe il plauso di tutti gli appassionati del jazz. Perché uno dice: vedi, Arbore non è uno..è coerente. Quando poi lui, proprio qualche giorno prima aveva detto a Pippo Baudo: «ah il jazzista, io ho fatto l'orchestra italiana perché il jazz non è nelle nostre corde». Nelle tue! Non nelle mie, parla per te!"

Nelle corde di Marcello Rosa il jazz c'è, eccome! In quelle di Arbore...se lo dice lui...
Un'altra nota dolente nella sua storia è proprio Umbria Jazz e il suo direttore artistico Carlo Pagnotta. Rosa vi ha suonato solo una volta e quella volta è stata davvero una triste e mortificante esperienza anche per l'uomo Marcello Rosa. Esperienza che delinea il clima che in quel periodo si era oramai consolidato in Italia intorno a questa musica.

"Pagnotta una volta era un grandissimo amico. Ora ti racconto un aneddoto. Ero andato a comprarmi un impermeabile, un Burberry, un impermeabile classico inglese, poichè ha un rispettabile negozio a Perugia. Mi dice questo costa tanto…ma scusa, dico io, a via Condotti da Battistoni lo vado a comprare e costa la metà. E dice: ma quelli non sono veri! Ma come non sono veri! Dico: 'a Pagnotta ma che stai a dì, a via Condotti me danno quello finto e tu hai quello vero? Me lo faceva pagare di più!…Comunque di fatto io ho suonato una sola volta ad Umbria Jazz, dimme te!
L'unica volta che ho suonato a Umbria Jazz è stato nel
'75, c'era un cartello con su scritto: 'Pomodori in faccia a Marcello Rosa fascista'. E questo perchè Zampa (quello che scrive sul Messaggero, ex batterista) mi fece un'intervista e scrisse, stravolgendo il senso di quello che avevo realmente detto, che ero uno contrario alla ribalta dei giovani. Quindi ero raffigurato come un nemico dei giovani e il giorno dopo, quando arrivai a Città di Castello, mi venne incontro un giovane fotografo che lavorava a Sorrisi e Canzoni e mi disse: «Ao', ma che sei venuto?». «E certo, devo sonà!». «No, no, va' via perchè qui tira na' brutta aria». «Che e' sta brutta aria! Io devo sona'». La scaletta era: io, Chet Baker (tromba, 1929 - 1988) e Archie Sheep (sax tenore, soprano, 1937). Te pare che me permetto de non sona'. E dice: «Eh, ma lo vedi che c'è scritto?». E c'era uno striscione de venti metri con scritto appunto "pomodori...". E rimasi un po' male perchè pensai anche alla premeditazione per tutto quello striscione. Comunque, ero vestito anche tutto di bianco e suonai. Pensa che con me suonavano: Pieranunzi, Tony Formichella che all'epoca era già quasi indiano-metropolitano, con i jeans col buco, il primo in assoluto. Ci fu un coro che diceva, per tutta la serata: «Compagno sassofonista, non suonare col fascista». Poi venne la polizia, uno lo hanno accoltellato. C'erano i compagni del servizio d'ordine che erano dei gorilla col fazzoletto rosso al collo. Incredibile, a un concerto jazz! Poi, finita la cosa, i rossi illuminati, addirittura mi chiamarono per un concerto e mi proposero 800.000, nel '75, aho', so' soldi, quando io a Umbria Jazz avevo preso 80.000. Ma rifiutai e dissi che sotto le bandiere non suonavo. E così ho sempre rifiutato questi accostamenti. Ho suonato con Romano Mussolini e il 90% delle volte l'associazione col padre veniva fuori, ma non con le bandiere di un partito. Mai! Dicevo: «se ce sono le bandiere, non vengo». E invece forse me ne dovevo fottere. C'è chi non se n'è fregato niente e perlomeno ha suonato.

In fondo, ha detto bene e gli sono grato a
Laudenzi per quel fatto del "francescano". Solo se hai una spinta interiore vai avanti, se no manderesti a fan culo tutto. In fondo poi mi ritengo fortunato, ogni tanto mi chiamano e vado a suonare."

Si conclude così questa testimonianza a tratti amara di Marcello Rosa ma il vedere sempre così viva la passione per questa musica lascia sempre una piccola ma importante speranza che certe cose non accadano più. 

Fai click qui per ascoltare il CD HEAVEN di Marcello Rosa







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Data pubblicazione: 17/04/2001

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