Marcello
Rosa, trombonista, compositore, arrangiatore, scrittore di testi,
ideatore e conduttore di programmi radiotelevisivi, è nato ad Abbazia il
16 giugno 1935 e risiede a Roma. La sua lunghissima carriera (ha debuttato
nel 1954) è densa di avvenimenti positivi. Il suo stile profondamente
ispirato al jazz tradizionale, spazia verso concezioni originali che gli
hanno valsa l'ammirazione di tanti illustri colleghi, contribuendo in
maniera decisiva alla diffusione del jazz in Italia.
Ha fatto parte della Roman New Orleans Jazz Band e della "Seconda
Roman". Ha suonato con Trummy Young, Peanuts Hucko,
Earl Hines, Albert Nicholas, Bill Coleman, Milton
Jackson, Lionel Hampton, Slide Hampton e molti altri.
Innumerevoli sono i concerti e i festival a cui ha partecipato, con i suoi
gruppi o come solista ospite, in Italia e all'estero dove ha rappresentato
il nostro Paese in numerose manifestazioni internazionali. Ha partecipato ad alcuni importanti festival del jazz, tra i quali quello internazionale di
Comblain - La Tour (per quattro anni consecutivi), dove è stato l'unico esponente del jazz tradizionale italiano ad essere invitato come solista (1965). Ha fatto il dj alla RAI ed anche il collaboratore a programmi radiofonici di jazz.
Nel 1984 ha ricevuto il
premio RAI Radiouno "30 anni di jazz". Nel '92 ha fatto
parte della Grande Orchestra Nazionale di Jazz e nel '93 ha
ricoperto la carica di presidente dell'Associazione Nazionale Musicisti
Jazz.
Premio Colonna Sonora '87 "Ente dello Spettacolo";
Premio Personalità Europea '97 (Centro Europeo per il Turismo).
Tratto da "Essere jazzista in Italia" - Blu
Jazz n. 29 - 1993
...Avevo
cinque anni (1940) quando mi schiaffarono davanti ad un pianoforte e nella mia
sana ingenuità non lo reputai un castigo, anzi. Lo studiai abbastanza seriamente
per sette anni fino a quando, per una improvvisa crisi di rigetto (la mia
bravissima insegnante era molto esigente e severa e, forse, troppo anziana per
me) piantai tutto; non volevo più studiare. Tutto quello che riguardava la
musica però continuava ad affascinarmi: dalle vetrine dei negozi con gli
strumenti in mostra, agli spartiti, ai dischi che trovavo a casa, la radio, i
libri di storia della musica, andare al Teatro dell'Opera, i film
biografico-musicali (uno su Schumann mi sconvolse addirittura), ecc. Si trattava
sempre di musica classica, ma qualcosa cominciava subdolamente a serpeggiare.
Cominciarono ad arrivare quegli ormai mitici film-rivista con le orchestre di
Tommy Dorsey, Harry James, Xavier Cugat, Glenn Miller,....beh, non me ne perdevo
uno.
Sempre grazie a dei film fui poi conquistato dalla musica negra.
Due pellicole furono fondamentali: STORMY WEATHER e HELZAPOPPIN', con la famosa
scena della jam session e relativo balletto. Fu poi la rivelazione; ero ormai
avido di qualsiasi cosa avesse un sapore jazzistico e pur non sapendo in pratica
niente di niente mi riprese una prepotente voglia di suonare. Riesumai un
classico pezzetto da principiante, "Pupa Ride", uno di quelli da
suonare a quattro mani col maestro; scoprii che potevo accompagnarmi da solo
facendo con la sinistra gli accordi (Do e Sol7) e che, anche se mi capitava di
cambiare qualche nota, tenevo il tempo e arrivavo lo stesso benissimo alla fine;
in pratica ero quadrato. Comunque, osando sempre di più, un po' steccando e un
po' abusando di "appoggiature", scoprii anche che suonando certe note
veniva fuori, in qualche modo, quel particolare "suono" che tanto mi
intrigava; avevo scoperto, senza neanche sapere che si chiamavano così, le blue
notes. Quando poi, ma ci volle un bel po' di tempo - riuscii a riprodurre
con la sinistra il classico movimento del boogie woogie al posto dell'ingenuo
um-pa um-pa, mi sembrò di toccare il cielo con un dito, o meglio con tutte e
dieci le dita!
Ma ci fu un altro fattore fondamentale che contribuì alla mia
personale, sentita e assolutamente non guidata, scoperta e scelta della musica
jazz: mi appassionai alla musica sud-americana. La colonna sonora di SALUDOS
AMIGOS, per esempio, la trovavo (ed è= eccezionale. Mio fratello, un po' più
grande di me, comprava per le sue festicciole da ballo, 78 giri di rumbe, sambe
e mambi, tutta roba originale che conservo ancora gelosamente e che allargò
ulteriormente i miei orizzonti musicali. Mi tornò la voglia di studiare la
musica e mia madre mi affidò ad un vero concertista di chitarra: Giambattista
Noceti. Per un paio di anni la chitarra classica mi assorbì completamente fino
a che arrivò il momento magico. Per i miei sedici anni mia madre mi regalò il
"Savoy Blues" di Kid Ory (trombone, 1886 - 1973), tratto dal
Dixieland Jubilee del '47 (il
Savoy Blues più swingante mai registrato); in un colpo solo capii che il
"mio" definitivo strumento, costasse quel che costasse (non in termini
economici), sarebbe stato il trombone e che la "mia" musica era il
Jazz. Fu la conferma della sincerità della mia passione; con tutto il rispetto
per l'altra musica, il jazz aveva vinto! Tutto quello che fino allora avevo
studiato, assorbito e cocciutamente cercato era servito a farmi comprendere e
sentire intimamente quella musica: i suoni e i "colori" del jazz, il
blues, lo swing, la possibilità di esprimersi autonomamente, mi erano orami
altrettanto familiari e indispensabili quanto il caffelatte la mattina e da
allora il jazz è diventato la mia vita e da allora è cominciata una bellissima
e pericolosa avventura al cui confronto la Parigi-Dakar diventa una
passeggiatina a Via Condotti.
Marcello Rosa |
L'incontro
con Marcello Rosa, uno dei decani del trombone jazz in Italia, si
può subito condensare nella breve ma efficace considerazione effettuata da Laudenzi:
"un puro ai margini, una creatura francescana" nel senso della
non accettazione di compromessi.
Vive e lavora prevalentemente a Roma e un tempo era anche molto presente,
non solo come musicista, ma anche come arrangiatore, nelle varie occasioni
radiofoniche e televisive:
"oggi
praticamente suono e basta perché non ci sono più, per nessuno, collaborazioni radiofoniche
e televisive"
Il motivo, manco a
dirlo, è da ricercare negli interessi che il grosso pubblico riserva oramai ad
altro genere che il jazz:
"secondo i 'burratinai' il Jazz non è una cosa che interessa il grosso
pubblico e siccome qui si va soltanto a solleticare il finto, così, più becero,
non c'è spazio per niente che abbia un qualcosa, un significato un po' più
culturale."
Come
già detto, Marcello Rosa ha a lungo partecipato ai programmi televisivi e
radiofonici pertanto può essere considerato un addetto ai lavori. A tal
proposito è già abbastanza emblematico il racconto sul suo ingresso in RAI.
"nel '63, entrai alla radio con la qualifica di maestro
programmatore attraverso un concorso nazionale, e
tanto d'esame scritto e orale, di carattere musicale, ma ad un livello
d'idiozie che ti facevano sentire un disco e ti chiedevano: 'questo e'
un fox-trot o una samba?'. Io su questo risultai brillantemente fra
i primi e mi piazzai. I posti erano quattro e i vincitori di questo concorso
nazionale eravamo io, Arbore e altri due che poi hanno
fatto altre cose. E tra i bocciati a questo concorso ci fu anche Boncompagni
che però fu ripescato perché i posti erano quattro e poi diventarono
cinque…"
Questa qualifica
fu creata proprio perchè già all'epoca in RAI c'erano stati dei problemi di
mazzette pertanto fu creata la figura del cosiddetto "programmatore
esterno" per essere al di sopra della critica. L'obiettivo
primario che Marcello Rosa si pose fu ovviamente quello di divulgare il
jazz, inventando, per primo, veri e propri programmi innovativi:
"Cominciammo a lavorare cercando di svecchiare quella che era la
RAI dell'epoca. In parte ci riuscimmo, poi Arbore
trovò la sua strada -
Bandiera Gialla etc., etc., io riuscii a fare nel '68, senza nessun
riferimento, il primo programma di un discjockey jazzistico che si chiamava
'Jazz Jockey'"
Quello che si cercava
di fare era di presentare il jazz nelle sue varie forme, senza pregiudizi,
ospitando chi lo rappresentava e differenziandosi fortemente da ciò che, fino
ad allora, era stato fatto.
"Fino
ad allora i programmi erano sempre di carattere pallosissimo
cultural-divulgattivo, ma nel senso 'palloso', io invece programmavo quello che
c'era sul mercato, e una 'vecchia volpe' della radio, forse tu te lo ricorderai,
che si chiamava Renzo Nissim,
mi disse: è un idea così semplice ma è geniale. In effetti io ogni settimana
nel mio programma, che durava mezz'ora, se parlavo di una riedizione di King
Oliver (cornetta, 1885 - 1938) coglievo l'occasione
di parlare del vecchio Jazz, e così se parlavo dell'ultima novità di Davis (tromba,
1926 - 1991) veniva fuori il cool, mentre invece fino ad allora era stato fatto
qualcosa del tipo: 'Il jazz comincia nel 1900...'. A me di questo non me ne
fregava niente, invece così c'era sempre la possibilità di essere aggiornati
passando di 'palo in frasca' ma sempre di jazz in jazz, senza prevaricazioni. E
con questo sistema io sono andato avanti quasi trent'anni, e nei miei programmi
sono passati tutti anche quelli dell'avanguardia da Schiano
a Vitturini,
Gaslini etc., ho dato spazio…"
Ma poi qualcosa
cominciò a cambiare e qualcuno pensò il programma di Marcello Rosa doveva
essere cambiato perchè il Jazz era sinonimo di fascismo:
"...pensa che il programma
'Jazz
Jockey' durò con quel titolo un anno poi Piccioni, che all'epoca era
Piccioni, una persona di cultura, appassionatissimo di Jazz, però così
appassionato da essere anche un po' snob, mi chiamò e mi disse: «non si
può chiamare Jazz Jockey perché la gente quando sente la parola Jazz cambia
canale» e mi obbligarono a cambiare il titolo e diventò
'Un Certo
Ritmo'. Poi
dopo cambiò ancora, insomma alla fine si doveva cercare sempre un modo per
contrabbandare il jazz. Pensa che alla fine i giornali alla fine
insorsero dicendo: «Ah, la parola Jazz, sono tornati i fascisti…»,
pensa un po' i fascisti, il programma lo facevo io, che con i fascisti non avevo
avuto mai a che fare. Io ero diventato il vessillo della rivoluzione! Poi, due anni dopo
mi cominciavano a dire che io ero fascista, insomma,
certe cose…."
Sono i primi segnali di un cambiamento che
influenza un po' tutte le scelte che ruotano intorno alla musica jazz in Italia.
Il jazz, ma si potrebbe dire l'arte in genere, venne anche utilizzato come
simbolo politico, come strumento di messaggio di una certa politica di cui cominciò a
seguirne pure le mode e le tendenze.
"A
un certo punto anche la rivista scoprì il Jazz ed è cambiato tutto,
perché giustificò tutte quelle cose terrificanti che sono state fatte in nome
di questa musica che non era più Jazz. Pensa che bastava che uno qualsiasi
prendeva un pezzo Blues e non lo doveva intitolare Blues in Sib, come farei io e come ho fatto
io, tu dovevi scrivere, cioè fare lo stesso blues in Sib, suonato bene, male o a cazzo,
ma lo dovevi chiamare 'Ballata
per un compagno che ha avuto il motorino ammaccato durante la carica della
polizia mentre protestava per il popolo palestinese' hai capito?
Allora dicevano: 'ah, cazzo, questo
sì che è bello'. E con questo equivoco non si è andati avanti solo nell'ambiente di straforo,
quello degli appassionati, dei passionari,
tanto è vero che lo stesso Polillo
uscì su Epoca - mi ricordo, mai fatto un
servizio a colori a grandi pagine - con un articolo chiamato 'Ritmo
tricolore per dire no'.
Pensa che titolo, è di una retorica
allucinante e in questo articolo, finalmente su Epoca per cui un giornale a
grande tiratura, a larghissima diffusione, venivano fatti i nomi di Schiano, di
Gaslini. E da lì è cominciata la cosa che il Jazz si
identifica con 'quella cosa lì'. E noi? Io che facevo i programmi? Mi dicevano:
'ma
lei maestro fa questo genere che fa battere il piedino, è una cosa obsoleta'.
Quando Mazzoletti
aveva la trasmissione e ogni
tanto faceva suonare pure me, mi diceva: 'Oh mi
raccomando, tu fai degli standard non suonare i tuoi pezzi che non gliene frega
niente a nessuno". Ma Adriano, dico, il lavoro mio è quello
del musicista non me ne frega niente di suonare 'Bye Bye Blackbird',
fammi fare i pezzi miei. Quello invece era il pedaggio per
essere presenti in radio. Poi però lasciava 'liberi'
musicisti come Mazzon, per
dire uno di questi creativi, no? Una volta stavo lì e per tre quarti
d'ora questo andava avanti facendo delle cose osé e si beccavano pure dei
bei
diritti d'autore con questa cosa. Allora tu hai uno spazio radiofonico così e
lo rovini con dei 'rumori'. Uno accende la radio e non capisce niente e pensa
che si è sintonizzato male. Perché guarda che c'è stato un momento in cui la musica era
veramente incredibile, no? Più era agghiacciante e più era riverita".
Oggi è ancora
peggio, il jazz in televisione è sparito del tutto e i grandi contenitori non
vengono utilizzati per dare spazio, anche se per poco, a questa musica.
"...non ci sono gli
spazi. A
Domenica in che dura sette o otto ore, si
potrebbero trasmettere
due minuti di un jazzista che possa divulgare la musica facendo anche cose un
po' più leggere. Non dico che l'artista deve prostituirsi, ma è chiaro che se io vado a parlare
in una scuola elementare chiamato dal preside, non mi rivolgo ad un ragazzino
leggendogli una poesia di Ungaretti, gli leggo una cosa più semplice, no?
Allora in televisione devi sapere gestire quello spazio che ti danno, da un
punto di vista spettacolare, del contenuto della cosa insomma, devi saperci
fare. Invece qui non si fa assolutamente nulla. E anche quando è stato
fatto qualcosa in televisione, quando io avevo gli spazi, mi davano la squadra
più scarsa che c'era…io mi ricordo che c'era un regista a cui i cameramen gli
dicevano: oddio a me mi fa male la testa con questa musica! Allora, ma come
puoi riprendere? Mi dicevano mettiti così con sto' microfono…altrimenti sei
all'ombra…, e che me ne frega dell'ombra si deve sentire il suono! E allora vedevi la gente che suonava e non si sentiva
niente. Mi ricordo
una volta un concerto in diretta dell'orchestra di Clark Terry, 18 persone
e non
si sentiva niente. E' chiaro che poi la gente cambia
canale! Invece senti all'epoca
i Rokes che erano in tre
e si sentiva chissà che, anche perché era tutto finto, in
playback."
Una specie di degenerazione che ha
inglobato anche chi il jazz non lo ha fatto mai come i rappresentanti vari della
musica cosiddetta commerciale.
"Sì, c'e'
stata una degenerazione, però il danno è stato fatto e quelli che sono saliti sul gradino, sul piedistallo,
ci stanno ancora e
degli altri non gliene frega niente a nessuno. Adesso poi li vedi che recuperano tutto e
fanno l'omaggio a questo e fanno l'omaggio a quello, ripescano pezzi,
facendo delle cose di una ingenuità bieca, perché a sentire 'In a mellow
tone' fatto dai cosiddetti ex-avanguardisti,
cioè quelli che prima erano gli avanguardisti, è una cosa davvero deludente e ti accorgi
proprio anche dei limiti. Qui in Italia siamo arrivati all'assurdo che quando il Jazz lo suonavamo noi, non lo
potevamo suonare perché era una cultura che non ci apparteneva, poi però quando
addirittura Zucchero si
è messo a fare il blues, allora va bene! Ma non si
percepisce il distacco tra il jazz come lo intendiamo noi e quello di adesso
perciò se tu fai il blues e suoni il blues con swing passi per uno che fa il
rockettaro, hai capito? Si sono impadroniti di tutto quello che era giusto e
swingante per farne una cosa commerciale e oggi, chi fa quella musica lì,
automaticamente è out da un punto di vista jazzistico e infatti per essere
jazzista devi rompere i…hai capito?"
"Adesso per far parlare non devi suonare jazz bene, devi suonare un'altra
cosa, perché altrimenti i critici non ti considerano e per loro quello è jazz.
Noi che facciamo un certo tipo di
jazz, e alla fine forse un po' bene lo facciamo pure noi, non veniamo calcolati perché noi invece copiamo, noi siamo
gente che vive sugli allori, che rispolvera i cadaveri, hai
capito? Allora io non mi posso mettere a fare, la 'Monferrina', perchè non me ne frega niente, non
mi piace, e perché non è la mia cultura. Dovrei stare 40 anni nelle langhe e forse mi entra dentro, siccome però non mi
piace manco la fonduta non me ne frega niente, mentre mi piace il riso coi
gamberi, suono il jazz di New Orleans ma come lo penso io,
adattato al mio modo di suonare. Ma comunque non voglio fare delle etichette che poi diventano dei paradossi.".
E questo porta ad un circuito ristretto che offre possibilità sempre ai
soliti nomi.
"E poi sono sempre i soliti che prendono i premi, sono
sempre quelli che hanno gli articoli. Se io avessi avuto il 10% delle
pagine di pubblicità che hanno avuto questi magari starei in America. E invece loro
sono su un piedistallo e non
li sposta più nessuno, oramai, sono anni, decenni, D'altra parte sulle riviste specializzate
si fa di tutto per
ignorare quello che fanno quelli che fanno il Jazz, perché fare il Jazz, è diventata una
cosa...bisogna essere strani, bisogna essere
Trovesi, Coscia. A me non me ne frega niente della
'Monferrina', capito?, non me ne frega niente, sono anche divertenti e sono dei bravi musicisti,
ottimi musicisti, ma dicono: tu non lo devi fare il jazz, ma cazzo! Io sono 50 anni che sto a seguire, ad
inseguire il blues, ti pare che non mi sono impadronito di un certo tipo di linguaggio?"
E' evidente che Rosa
si sia indubbiamente impadronito di tale linguaggio. Ma la storia di questi
musicisti in Italia ha contribuito anche ad un aspetto più folkloristico
diventato poi noto anche grazie al cinema. In particolare mi riferisco a quel famoso episodio al
"Rugantino" di Roma, nel '58...
"...al
Rugantino c'era
la Roman, la gloriosa Roman che tanto ha avuto, tanta importanza e anche tanto
demerito e che purtroppo io ci ho passato sette anni con loro e con il nome
che avevano e che ancora hanno riescono sempre ad essere molto seguiti. Anche se
è roba di 40 ani fa, oggi se vado a suonare a, a,
a "Tagliacozze", la Roman la conoscono e questo un po' causa un
ignoramento di tutto quello che uno ha fatto quarant'anni dopo; ma
comunque sono stati i primi e giustamente bisogna dargli onori. Comunque, c'era Riccio
al clarinetto, Borghi alla tromba,
Cesari al piano che suonava con noi ma c'entrava come 'il cavolo a
merenda' perché Cesari stava su un altro pianeta, sulla luna. Lì è stato
fisso, pensa un po'; poi c'era Pintino alla batteria,
Pino Liberati al basso, e
in più Battistelli
aggiunto al vibrafono. Faceva degli intervalli con Riccio, swing."
E l'atmosfera che si respirava era
quella dei night club in cui oltre ad ascoltare i famosi cantanti dell'epoca
c'era anche un po' di jazz...da ballo.
"Poi si suonava pure alle
'Grotte del
Piccione' che era all'epoca un famosissimo night dove ci alternavamo con
Marino Barreto che a quell'epoca era il massimo del commerciale, notevole
interprete di un certo tipo di musica. Però la gente che andava al night poteva
sentire la canzone suadente, vagamente latina, e poi anche il jazz nostro, perché all'epoca il ballo, il ritmo ballabile era quello lì. Adesso
purtroppo la differenza è molto più marcata per cui se vai a suonare il jazz
non balla più nessuno. Ma di questo tutto sommato non ho nostalgia. Oggi
il jazz si può suonare e bene, in altri ambienti, nei club, che una volta
invece non c'erano. Una volta
suonavi nel night perché andava benissimo se tu dovevi fare un un 'fox
trot' e suonavi 'Body and Soul' o 'Baciami Piccina' era la stessa cosa,
insomma, tanto il ritmo era quello."
Il tutto era sempre legato da una grande
passione e dedizione al mestiere di musicista grazie forse a quello spirito
romantico che ha notato Laudenzi
nel suo racconto.
"Sai, prima ci vedevamo a fare le prove, ci mettevamo ad ascoltare i dischi
perchè prima c'erano solo quelli. Li ascoltavamo centinaia di volte per capire
che accordo mettere, che note fare, non c'erano libri, manuali, niente. Oggi hai
tutto, ci sono molti spartiti, scritti anche male, ma c'è una base da cui
partire. Però prima si viveva con un'emozione interna. Mi ricordo che andavo
col tram a Velletri per provare, adesso non se ne parla di provare, si pensa
solo a quant'è il compenso. Prima non si parlava d'altro che di suonare.
Tornavi a casa che eri distrutto dalla fatica però dicevi: «Ammazza! Siamo riusciti a
fare il tema di...». Ed eri contento. Adesso è tutto più facile e tutto
più difficile perchè non gliene frega niente più a nessuno. Poi quello che si
faceva all'epoca non c'era in giro, la gente non lo sentiva. Oggi nell'orecchio
hai tutto, che è un bene, però se vuoi fare qualcosa di più tradizionale,
niente, non si può fare. E tu scrivi materiale su materiale, metti su i gruppi
e poi magari fai due serate all'Alexander Platz, poi butti tutto. Qualsiasi
americano che fa una cosa ci fa minimo una tourneè estiva, dischi..."
I dischi, altra nota dolente rilevata da Marcello.
"adesso i
dischi si fanno, basta però che uno paga al produttore e dice: «voglio fare
questo disco». Ne compri tremila copie, te le vendi durante le serate. Poi
c'è qualche fortunato, tipo, che so', Gatto,
Giovanni Tommaso e altri, che sono
riusciti ad incidere per la Sony. Mah, non so, ci sarà qualche ragione in più
che non so. Mi hanno detto che questa strombazzata di trasferta che hanno fatto
per fare Rugantino Jazz non è stata un granchè. Dice che non è servita
assolutamente a niente, ha avuto successo ma perchè anche i telegiornali ne
hanno parlato. Però finisce lì, perchè non credere che agli americani
gliene fregasse qualcosa. Una cosa pilotata perchè oramai Umbria Jazz è
diventata un'industria tale, gemellaggi ecc..."
Oggi
Marcello suona spesso all'Alexander Platz con gruppi di varia dimensione a
seconda delle disponibilità, anche queste dettate da una logica commerciale.
"suono qui a Roma all'Alexander Platz
che è
l'unico posto rimasto con una programmazione giornaliera di jazz, che è tipo
una cave dove si mangia e si ascolta. Suono con uno dei miei quattro gruppi.
Quando hanno soldi porto il
sestetto, quando ci sono meno soldi vado in quartetto, certe volte mi allargo e
diventiamo otto, ma sempre a discrezione loro. Poi il bello è che se suoni di
giovedì hai una paga se suoni il sabato ne hai un'altra, poi di mercoledì costa di meno perché poi c'è la
partita allora non ci va nessuno. Tutte queste cose terrificanti…pensa un po',
c'è la partita, ma chi se ne frega, però anche questo condiziona. Una volta sono andato a Praga e ho visto che lì i gruppi hanno le locandine
fatte per bene, la programmazione curata. Qui i gestori non ci credono, non
fanno niente, ti scrivono il nome sulla lavagnetta accanto al menù!"
Oggi i musicisti sono tutti un po' manager di se stessi e si ingaggiano tra di
loro a seconda dei progetti che ognuno riesce a promuovere. E spesso, esauriti i
nomi di propria conoscenza, diventa poi difficile trovarne. A questo va aggiunto
che il livello retributivo è veramente ai minimi consentiti.
"Infatti non è affatto facile trovare musicisti. Una volta ero a casa di
Tony Scott (sax,
clarinetto) e gli dissi che non riuscivo a
trovare qualche musicista per suonare. Allora lui mi prese un librone che
conteneva tutti, dico tutti, i musicisti di New York. E meno male che erano solo
quelli di New York! Allora mi fa, a titolo provocatorio, s'intende: «scegli, chi vuoi?». Io allora aprii il libro e alla voce trombone ce
n'erano tanti. Vedi, lì c'è più organizzazione. Inoltre in America mors
tua vita mea, nel senso che c'è anche ricambio, mentre qui per uno che
eccelle si crea subito il vuoto, o c'è lui o niente.
Poi qui non ci sono agenti non perchè non ci vogliono essere, ma
semplicemente perchè non ci sono i margini anche per loro. Per esempio, una
volta ho fatto una convention per i tassisti, all'Holiday Hinn. Pagavano una
miseria eppure c'era uno sponsor internazionale, era una cosa in
grande, con grande budget. Invece, se per queste cose vai a chiamare,
che so, Little Tony, tanto per dirne uno, a lui quindici milioni glieli danno,
solo a lui. Io invece devo andare lì, devo fare l'ENPALS per cinque persone,
chi porta la batteria, chi i microfoni...Lui invece è un personaggio e gli
danno i soldi. Il manager, anche se prende il 20% su quindici milioni, è una
cifra. Su di me, che prendo 200.000 quanto ti prende il manager, 40.000? Ma dai,
manco il fax se ripaga!"
Questa situazione chiaramente non è generalizzata, nel senso che c'è
sempre qualcuno che, bontà sua, riesce ad emergere...
"il problema è che, finita
quella pochissima fonte di guadagno che poteva essere la partecipazione ogni
tanto ad un programma radio o alla televisione, è finito, perchè qui non si
rendono conto che invece di buttare trenta miliardi a lustrini vari potrebbero
far lavorare un po' tutti.
Pensa che è venuto fuori un casino da parte di musicisti
qualificatissimi (Trovajoli...) che avevano capito che come diritti d'autore,
uno come ad esempio Paolo Ormi che faceva le siglette con la tastierina
guadagnava 600.000.000 a semestre e Trovajoli che mi diceva: «Ma tu
capisci, io faccio tutta la musica al Sistina, e quando mai li guadagno seicento
milioni?». Infatti hanno poi equiparato un po' le quote. Inoltre tu mi fai
fare un programma a settimana, io campo, e sto bene. Invece no, chi riesce ne fa
2000 e guadagna un miliardo però devi fare un tipo de musica che...lasciamo
perdere. Se non esce qualche persona illuminata che ti fa lavorare va a finire proprio male...
Ma per noi musicisti poi è sempre stato così. Una volta facevamo i programmi cosiddetti decentrati, dalle sedi
periferiche
(Torino, Trieste ecc...). E, non ti faccio il nome, una volta andammo a Torino e prendemmo
l'aereo, che ovviamente dovetti anticipare. Poi alla fine della trasmissione io avevo il
treno all'una per rientrare. E invece questo personaggio mi fa: «Ma scusa andiamo a mangiare
a Genova, sai dove ha mangiato Frank Sinatra», e io dico «sì, ma chi
paga?». Lui invece era in un albergo da 560.000 a notte e aveva
l'aereo la mattina alle 5, perciò non capisco che cosa dormiva in questo
albergo. E io invece devo fare i conti."
"I cosiddetti 'soliti' invece guadagnano bene perchè il giro che hanno
gruppi come l'Instabile, con
Schiano, Bruno
Tommaso, Paolo Damiani che è diventato
direttore dell'Orchestra Nationàle a Parigi è notevole. L'anno scorso andai a
Milano alla Ca' Bianca a
fare tre serate con Mario Rusca.
Chiamo a Musica Jazz e il direttore: «Ah,
carissimo come va?».
E io dico: «Sa,
vengo a Milano, volevo sapere se c'è la possibilità di fare una
recensione". «E
che fa a Milano?». «Devo
suonare alla Ca' Bianca». «Ah,
be' ma noi non facciamo più le recensioni su queste cose».
Allora dico: «Magari
posso venire lo stesso, vi vengo a trovare in redazione». «E
per che cosa?». «Così,
tante volte, un piccolo scambio, un'intervista.». «No
sa, non è previsto nel palinsesto».
Hai capito? Però il servizio su Trovesi e Coscia è sempre
pronto. E io? Non te ne frega niente? Ma se ti occupi di jazz almeno na'
paginetta ogni tanto me la vuoi dare? Puoi anche dire, ma chi la legge? Non lo
so, ma ignorare completamente non è bello. Se dicessero: 'Marcello Rosa
è una pippa allucinante!', e beh, se è vero, come sali sul palcoscenico, così
devi scendere, devi accettare, nel bene e nel male. Invece niente, non c'è più
Marcello Rosa, non lavora più! Addirittura, una volta sono andato a Chieti, al
posto di Pistocchi,
perchè lui fece il mio nome e mi disse che erano meravigliati, dicevano: «Ma
come, suona ancora?».
Capito? Allora io dico, il Corriere della Sera mi può ignorare ma Musica Jazz,
almeno quello, ogni tanto.
Poi prendi anche il referendum Top Jazz. Trovesi quante volte si
è piazzato? Fresu?
Rava?"
Non parliamo poi della pensione che a fine carriera si riesce ad ottenere.
Purtroppo i contributi sono quelli che sono e i risultati...
"Oggi ho la pensione dell'ENPALS di 720.000,
come un extracomunitario. Pensa che una volta ho chiesto a uno che lava i vetri
qua sotto quanto prendeva e lui mi fa: «100, 150 mila al giorno!»."
Umberto
Cesari, grazie all'interessamento di un amico, è riuscito ad avere la
minima e ora sua moglie prende circa 600.000 lire. Mio padre (Aldo
Masciolini) prendeva 1.100.000, e questi purtroppo sono dati inconfutabili.
A tutelare la categoria hanno provato varie volte alcune associazioni
come l'AMJ di cui Rosa stesso è stato presidente.
"Quando fui presidente dell'AMJ (Associazione Musicisti Jazz)
la prima cosa che feci fu
quella di andare all'ENPALS per parlare col direttore generale. E gli dissi che
c'era qualche problema sul fatto che non venivano versati i contributi. E lui mi
suggerì di fare una denuncia. Gli dissi: «senta, io non posso
denunciare il proprietario di un locale che non mi paga i contributi perchè
voi sapete benissimo che non è così che si può fare. Non è una ripicca mia,
è un fatto generalizzato in tutto il territorio». Mi disse che loro non
avevano la possibilità di fare un'indagine a tappeto e mi liquidò dicendo: «caro
maestro, qui bisogna cambiare le leggi!». E così si arenava tutto perchè
questo discorso a chi interessava? 200 persone, la maggiorparte degli altri,
colleghi anche di nome, se ne fregavano perchè tanto avevano le serate. C'è
chi ha 3 milioni e mezzo di pensione perchè magari da ragazzino si è segnato
sempre tutto, ha messo il timbro ecc...Io 700.000 perchè risulta che per 47
anni non ho fatto niente! Non è mai stato considerato questo problema, pensa
che recentemente ho letto di un 'grande' accordo per i lavoratori da
night club in cui il minimo sindacale è stato portato da 80.000 a 82.000!
Poi
la continuità non c'è, fai una serata e poi stai fermo. Qui il musicista
quando non lavora non guadagna, non esiste un sussidio, mentre persino a Praga
sono previste queste cose.
Ma tu lo sai che il piano bar, nobilissimo lavoro, ma è quanto di meno
artistico che ci sia, ha una percentuale SIAE fortissima. Cioè un pianista di
piano bar che si segna i suoi pezzi riceve bei compensi. Se io segno i miei
pezzi sai quanto mi da la SIAE? Ma manco 150 lire a pezzo per ogni volta che è
suonato! Inoltre i posti deputati per fare la cosiddetta arte sono tassati in
maniera allucinante. Come presidente dell'AMJ scoprii questa cosa incredibile.
Da un cineclub, dove fanno i film di cassetta, la SIAE prende il 2% degli
incassi perchè gli si riconosce una programmazione culturale. Il jazz club, che
è equiparato al night club, paga il 22%! E certo che se a un gestore, su 1
milione di incasso gli levi 220.000 che invece potrebbe dare a me se pagasse il
2%, che deve fare? E anche questo è rimasto così. Mi dicevano: «Sì, sì,
lei ha perfettamente ragione». Basta, non si andava avanti."
"Quando
ho cominciato io, abbandonando architettura per dedicarmi professionalmente alla
musica, tutto sommato ho avuto anche il mio spazio
perchè di suonatori di trombone non ce n'erano, tranne
Dino
Piana. Adesso ce ne sono tanti. Negli
ultimi cinque o sei anni ne sono nati tanti e sono tutti uno meglio dell'altro
perchè c'è Mazzoni, un maestro che non è un jazzista, ma ti imposta molto
bene, è bravissimo. Pensa che io andai a lezione da uno che suonava a S.
Cecilia e che era stato fatto prigioniero in Africa e aveva conosciuto Tommy
Dorsey (trombone, 1905 - 1956) che faceva i dischi per le truppe. E diceva che era più bravo lui
di
Dorsey a fare gli esercizi! Pensa, era uno di estrazione bandistica che suonava
tremendo, col sistema vecchio da conservatorio italiano ottocentesco. Invece gli
americani tirarono fuori il sistema no-press. Erano due scuole differenti.
Infatti tutti i suonatori di ottoni americani, cominciano a suonare e sembrano
fallosi, entro certi limiti, poi, man mano che si scaldano suonano sempre
meglio. Invece i nostri attaccano benissimo e dopo mezz'ora non ce la fanno
più. Perchè il muscolo si scalda. E questo vale per tutti gli ottoni, anche
per la tromba. Infatti senti Gillespie (tromba,
1917 - 1993) che comincia che fa due note, poi però,
dopo tre ore, lo senti e dici: «Cazzo!! Ma come fa? Io so' morto e lui
ancora no?».
Con gli strumenti a bocchino, se premi, controlli bene il buchetto del labbro,
ma ne risente il muscolo del labbro poichè il sangue non passa più, i denti
che non ti sostengono ecc...quindi finchè sei fresco suoni bene, ma quando ti
stanchi non suoni più. Gli americani trovarono questo sistema col cuscino
d'aria sulle labbra. E' molto più difficile, ma se riesci a controllare questo
cuscinetto non ti stanchi facilmente. Oramai anche nei conservatori insegnano il
metodo americano perchè si è affermato in tutto il mondo. Ma ora ti leggo
testualmente cosa dice il vecchio metodo: «atteggiare le labbra al sorriso,
onde evitare essenziali rigonfiamenti delle gote. Porsi davanti allo
specchio...premere fortemente il bocchino ecc...». Pensa te, a questo
aggiungi che all'epoca l'età media era di 35 anni, invece c'è gente che a 80
anni suona ancora bene. Gillespie ha suonato fino alla fine..."
Soluzioni? E' difficile trovarne di effettive ma il pensiero va sempre ai
media, a chi fa televisione, radio, i giornali.
"Ci vorrebbe qualche produttore
televisivo, e parlo di televisione perché è quella che si porta appresso tutto
quanto, l'appassionato di un certo tipo di musica che
ti desse un minimo di spazio. Conosco tutti e nonostante tutto mando gli inviti e non ti rispondono, gente come
Rispoli: quelli che
fanno 'Luna Italiana', tutta
questa gente che come però parli di
altre cose si sciolgono immediatamente, si scappellano, come parli di jazz,
siccome l'ignoranza purtroppo è dilagante, si chiudono. Allora se ci fosse
invece che Ciampi, Clinton che
suona il sassofono, forse qualcuno direbbe: «aho, facciamo un po' de jazz anche in televisione».
Dobbiamo sperare in un mecenate illuminato, che non si chiama Berlusconi. Costanzo poi, impone le sue cose, non
ti da la parola. Poi
musicalmente lui è insensibile, ogni tanto prende un sax, ma fa finta. Una volta chiamai
Sgarbi e gli portai una lettera al
Majestic. Era l'epoca
in cui ero presidente dell'AMJ e gli dissi che non volevo niente, volevo solo
parlargli della situazione artistica del jazz in Italia e gli avevo anche
allegato l'annuario dei jazzisti dell'epoca che conteneva, bene o male, 700 nomi
e quindi era una realtà che non si può ignorare.
Torno a casa, erano le tre del pomeriggio, squilla il telefono: «Pronto,
sono Sgarbi.». Io rimasi un po' così, e gli dissi che non me
l'aspettavo e lui invece mi invitò alle quattro a Mediaset prima del suo
programma accettando di parlarmi. Andai di corsa e quando lo incontrai mi disse
che si aspettava che fossi più giovane! Ci andiamo a prendere un gelato e ho provato a
parlargli e a capire che potevo fare per sensibilizzarlo. Ma lui mi ascoltava
come se uno mi parlasse di cibernetica. E mi disse: «Ma lei perchè insiste
tanto col jazz, perchè pensa che se ne dovrebbe parlare in
televisione». Dissi: «Magari, sa, si dovrebbe fare un programma
dove magari c'è lei, e invece del solito complessino di musicisti vestiti da
marinaretti magari si potrebbe promuovere un po' di jazz». Ma vidi che lui
non condivideva, perchè poi purtroppo musicalmente è completamente staccato. E
così rimase anche un po' deluso perchè non poteva fare niente per me. E così
un po' tutti. Poi ci sono i filtri. Mica si può parlare con Berlusconi, prima
devi passare i vari filtri e se vado io e mi presento, manco mi conoscono. Poi
spiego che faccio e annuiscono e niente più.
L'altro giorno leggo sul giornale 'Jazz Time: il martedì di Villa Brasini',
una villa che è qui in via Flaminia dove una volta c'era un famosissimo
ristorante. E' un palazzetto di tre piani e sembra di entrare nella casa di
Dannunzio, sembra il Vittoriale. Insomma una cosa lussuosa, tutto affrescato,
finto, ma fatto bene. Vado là, saloni bellissimi, mi presento e l'organizzatore
mi dice: «Ah, salve, sì io la conosco, anzi se lei mi potesse dare dei
consigli». Capirai, io ero andato lì per vedere di fare una serata. E
mi fa: «Sa, perchè io per fare questa prima scaletta di martedì sono
andato alla scuola del Testaccio ed ho messo addirittura un avviso su Porta
Portese». Porta Portese è un giornale di annunci distribuito qui a
Roma. Dico: «e che ha scritto?», «Cercasi jazzisti per jam
session». «Ma come, lei ha un posto in un castello che uno entra e
si dovrebbe mettere lo smoking e non ha indicazioni», «no, sa, io
non ho contatti, io non sapevo come rintracciarla...». E questo è un
imprenditore, uno che comunque non è uno sprovveduto. Gli dico: «ma lei
avrà delle conoscenze, delle possibilità. Può fare una programmazione di
prestigio e poi magari anche delle jam session.», e mi chiede: «ma
come fa l'Alexander Platz?», «Ma l'Alexander Platz sono vent'anni
che nel bene o nel male ha insistito sul jazz e adesso la gente sa che va lì
anche per sentire jazz.». Per cui, quando trovi uno che magari ha anche
l'entusiasmo scopri che è completamente sprovveduto.
Poi quando c'è l'opportunità, ti invitano sempre quelli che fanno la
cosiddetta avanguardia. E li vedi che ti fanno per tre quarti d'ora certi pezzi! Io, che
sono appassionato, chiudo, immagina la gente. Questo non vuol dire che io
devo andare a fare 'Nel blu dipinto di blu' fatta a jazz, altro sbaglio che la RAI
ha spesso fatto, tu devi fare il jazz normale, presentato da Pippo Baudo, dopo
un balletto, dopo un quiz, ma ti pare che la gente chiude? Due minuti di un
pezzo normale, fatto con musicisti, un assolo di batteria spettacolare. Io
invece devo vedere, che so', i Pooh, con ottantamila tamburi che non ci fanno
niente ed è tutto finto, col fumo! Ma dai!
Un altro esempio. L'orchestra di Demo Morselli con Costanzo. Addirittura hanno
trovato uno che almeno fa fare un chorus, un refrain, una volta gli ho sentito
fare anche
Hello Dolly,
Satin Doll, ma dovevi sentirli, pa-pa-ra-pa-pa-pa-bum!
Finito! Ma scusa, hai una sezione di trombe, di cui la prima, eccezionale, che
si chiama Fernando Brusco, che suonano benissimo, con delle possibilità tipo
Sandoval. Ma insomma, fagli fare un solo, una cosa che lo evidenzi. Io mi
rifiuto di pensare che alla gente non piacerebbe. Allora, una volta fai fare una
cosa alla tromba, una volta al sassofono, un solo di batteria. Automaticamente
io penso che la massa dei giovani potrebbe rimanere affascinata da questa cosa
qui. Invece devi vedere questi che devono fare più o meno finta.
Eh, purtroppo il jazz piace tantissimo a pochi e pochissimo a molti. Per
alcuni può anche essere una ragione di vita ma sai, molti potrebbero farne
tranquillamente a meno. Visto però che lo spazio ci sarebbe volendo dare un po'
a tutti l'opportunità, non vedo perchè quando uno può, questa opportunità
poi non la da, fanno gli snob. Ad esempio, Leone
Piccioni, grande appassionato di
musica, grande amico di Mazzoletti, era un po' snob! Glielo dissi pure. Lui era
direttore generale della RAI all'epoca. Piero Piccioni, il fratello, è un musicista, ho
suonato varie volte con lui, un gran casinaro ma con una bellissima vena
musicale. La famosa sigletta di Alberto Sordi, è la sua. Sono 300
sovrapposizioni! Apparentemente tutte sballate. Tanto è vero che provai a
dirgli: «Maestro, ma qui, io dovrei suonare questa nota...». E lui:
«Tu non ti preoccupare, suona». In effetti poi andavi a
sentire tutto
l'insieme e c'era un senso, suonava bene."
La passione, quella non manca mai, è senza età, e forse è proprio
grazie alla passione che Marcello riesce a mantenere un impegno e una qualità
sempre elevate nelle sue performance, nella sua musica.
"Guarda, il bello è che, nonostante tutto, quando
vai a suonare ci sono vecchi nostalgici e giovanissimi. Il jazz arriva a
chiunque non è un fatto generazionale c'è gente giovanissima che suona
benissimo adesso il jazz tradizionale che sembra una cosa assolutamente
impensabile. E questo perchè l'uomo
non è uno stronzo, ognuno
ha il suo desiderio di approfondire, di cultura etc., etc., e trovi davanti
gente che ti apprezza che ha venti anni e altri che ne hanno settanta. Io ho messo su un gruppo con gente che suona in maniera
modernissima, il titolo del gruppo è Dixie My Dear e dove, insomma se uno ha un
minimo di cultura, capisce, perché il dixie per me è dentro al mio cuore, però
non mi verrebbe mai in mente, anzi mi farebbe schifo, di suonare come si
suonava settanta anni fa. Anche perché quelli di settanta anni fa magari adesso
userebbero il computer, il basso elettrico.
PESCARA
JAZZ FESTIVAL 1969:
ALBERT NICHOLAS & NEW DIXIELAND SOUND
Albert Nicholas, clarinetto
S. Subelli, tromba
Marcello Rosa, trombone
F. Forti, clarinetto
T. Torquato, piano
Giorgio Rosciglione, contrabbasso
Gegè Munari, batteria "Jazz di classe e luna al Festival di Pescara"
Pienamente riuscita la prima manifestazione, la rassegna, pur tra qualche difficoltà, ha saputo tenersi su un ottimo livello.
Pescara ha chiuso in bellezza la sua prima esperienza in fatto di Festival di jazz: ha conosciuto qualche difficoltà, come sempre avviene in queste rassegne, ma le ha superate molto brillantemente e, soprattutto, ha saputo tenersi ad un livello ottimo.
Anche i particolari sono stati curati dagli organizzatori che hanno predisposto persino un notevole numero di televisori per consentire al pubblico di seguire le vicende
dell'Apollo 11. Tanti sacrifici meritavano una ricompensa e noi ci auguriamo che l'affluenza di pubblico, l'interesse della stampa specializzata, l'intervento della RAI-TV abbiano già convinto l'organizzazione a programmare la manifestazione tra quelle insopprimibili.
La serata conclusiva ha visto anche la partecipazione di un complesso tradizionale, il
New Dixieland Sound di Marcello Rosa e, anche se notoriamente preferiamo il jazz moderno, troviamo doveroso che la musica jazz delle origini, quella che ha reso possibile la nascita del jazz moderno, abbia il giusto riconoscimento in ogni rassegna jazzistica.
Tanto più che Marcello Rosa, leader della formazione, non presentava un'orchestra revival, ma suonava invece in stile dixieland, musica moderna, di jazzmen cari alle ultime generazioni. Più tardi la formazione ha accompagnato
Albert Nicholas ed allora si sono riascoltati i motivi sacri di New Orleans, di prima mano, perché ad eseguirli era un musicista che, nato nella culla del jazz, ne ha vissuto l'età più affascinante.
Certo Nicholas non è più il travolgente clarinettista che si esibiva con King Oliver, ma la classe è sempre enorme e lo spirito giovane; il pubblico è rimasto affascinato e gli ha tributato calorosi applausi.
PAESE SERA 21 luglio
1969 Roberto Capasso
ndr. Alcuni
musicisti presenti quell'anno a Pescara: Bill Evans con Eddie Gomez e
Martial Solal, Barney Kessel, Jean Luc Ponty, Philly Joe Jones, Franco
D'Andrea. |
Io mi ricordo quando ho conosciuto
Albert Nicholas
(clarinetto, 1900 - 1973), quarant'anni fa, lui era già vecchio.
Beh, lui era uno che aveva creato il jazz, perché suonava con King Oliver
(cornetta, 1885 - 1938). Una volta andammo a suonare, era nel
'69,
eravamo a Pescara, proprio la notte che ci fu lo sbarco sulla Luna. Suonai a Pescara, al
Festival, e dopo avevano predisposto dei televisori nel
parco dove c'era il Festival e tutti abbiamo aspettato le
cinque della mattina per vedere insomma una cosa un po' che è rimasta storica.
Il giorno dopo lui doveva suonare a Roma e io lo accompagnai perché tornavo
anch'io a casa, e l'accompagnai al Folkstudio, locale celeberrimo all'epoca.
E lì entrò e c'era una band della quale non ti posso fare il nome che stava a
suonare e mi disse: I don't like this Mickey Mouse Band, cioè, a me non piace
questa questa band di Topolino, hai capito? E questi suonavano proprio il dixieland,
mentre lui invece, che il dixieland lo aveva anche inventato, era convinto
di essere moderno e aveva 77 anni, capito?"
Ma che gli italiani sappiano suonare il jazz non è mai stato notato più
di tanto. Nessuno vuole negare le radici culturali e sociali che legano questa
musica al mondo afro-americano, ma il mondo è grande e non è detto che se non
si nasce genio del jazz, il jazz non lo si possa suonare, e anche bene.
"ma certo, il
problema è che qui c'è stato sempre quest'equivoco che il jazz è di
derivazione afro-americana. Va bene, però, quanti italiani in America
sono diventati dei grandissimi personaggi del jazz? Non diciamo che sono stati
i creatori, per carità. Se fra 2000 anni ci sarà il dizionario, alla voce jazz
ci sarà: Parker, Armstrong, Ellington. E sono questi tre che racchiudono tutto
e guarda caso sono tutti e tre negri. Armstrong (cornetta 1901? - 1971) perché che vuoi dì, il solismo
che ha Armstrong, no? Ellington (piano,
orchestra 1899 - 1974) ha inventato il suono dell'orchestra, per cui ha aperto altri orizzonti,
Parker (sax alto 1920 - 1955) che ha fatto? E' andato al di là sugli accordi, semplicissimi, lui non ha
composto niente, cioè, ha fatto delle improvvisazioni che poi diventavano
pezzi… però ha suonato in maniera tale che ha dato la struttura addirittura
alla musica più attuale fino al Free. E loro, a mio avviso, sintetizzano quello
che è il jazz, però…se tu mi dici Carl Fontana
(trombone, 1928), ma non è un jazzista? Ma insomma
Frank Rosolino (trombone, 1926 - 1978)
ma che non è un jazzista? Ma non stiamo mica parlando di
tromboni! Poi purtroppo, in Italia ci si è messi in testa che il jazz deve
essere una cosa d'arte, allora chi fa il jazzista pensa di essere chissà chi,
deve porsi
su un piedistallo. Non è vero! Il jazzista è un artigiano. Io ho fatto il
trombonista e stavo per fare l'architetto. Stavo all'Università facevo
architettura, ma se io fossi diventato architetto, perché ad un certo punto ho
smesso perché volevo fare il musicista,
avrei avuto sulla targa 'architetto' ma mica sarei diventato Michelangelo, però un architetto riverito
probabilmente sì. Avrei fatto
il mio lavoro, faccio una casa che sta in piedi, che non crolla. Poi una volta
ogni 10.000 architetti viene fuori Aalto, Le Courbusier, Michelangelo,
Bernini, no? E così c'è Armstrong e poi ce ne sono 3.000 che non saranno mai
Armstrong però sono veri, autentici.
Invece qui…fatti applaudire, senza tirarti giù i calzoni, applaudire perché sai
suonare, perché sei un artigiano che sa lavorare, che sa fare il suo
mestiere. Poi se ti viene una volta un'idea geniale sarai
riverito, un vero artista. Qui pare che fanno tutti le cose definitive…"
Marcello, tra le altre cose, si è anche cimentato nel giornalismo
specializzato, partecipando ad un'avventura breve legata al giornale Blu Jazz,
nei primi anni '90,
diretta da Adriano Mazzoletti. Non è entusiasta di quella esperienza,
non tanto per il fatto di scrivere in sè, quanto per gli scarsi risultati
ottenuti in termini di cambiamento delle cose essendosi trovato sempre da solo a
cercare di far capire. I critici finivano col dargli ragione ma senza esporsi
mai.
"Io ho anche scritto
purtroppo…purtroppo
perché non è servito a niente…perché tutti quanti mi hanno dato ragione e poi
me l'hanno messa…hai capito? Il
direttore era Mazzoletti e
purtroppo ha toppato
con questa rivista perché visto i collaboratori poteva essere una validissima
alternativa a Musica Jazz e invece poi era diventata una Musica Jazz senza la
convinzione di essere Musica Jazz, per cui tutta politicizzata."
"Poi la gente non ha il coraggio di dire
le cose come stanno. Io
mi ricordo che quando ero con Piras a
delle trasmissioni con Mazzoletti in cui
c'erano le discussioni che andavano in diretta che poi comunque non servivano:
la trasmissione era fatta male perché era tutto un parlare, un parlarsi addosso
in quattro o cinque, e così la gente alla fine non capisce, ma questo
era uno sbaglio di impostazione di Mazzoletti. Insomma Piras mi diceva
all'orecchio «sono d'accordo con
te», e io gli
dicevo «ma dillo al
microfono, o vecchio mio!» Perché se lo dico io sembra che sono sempre il solito musicista
frustrato che deve dire una cosa, ma se è avvallato dal critico, allora uno
dice: «sto' Marcello Rosa non è uno stronzo». Perché c'è sempre il fatto che uno
parla 'pro domo sua', capito? Perché io vivo questa realtà dal di dentro,
non ho altro stipendio, io suono e se mi battono le mani mangio, se non battono
le mani tiro la cinta, e tutta questa altra gente che invece fa e disfà,
fa altre cose, e allora dovrebbe stare attenta, dovrebbe essere molto
più riconoscente a quelli che giorno dopo giorno gli fanno trovare la
possibilità e il piatto pronto perché questa gente scrive di chi? Di una
situazione che abbiamo creato noi dal più piccolo, dalla più pippa a quello più
grande, no? Ad esempio un giorno Molendini del Messaggero mi disse: «guarda
hanno fatto Arbore presidente di Umbria Jazz». Io scrissi, nella qualità
ufficiale di presidente dell'associazione musicisti del jazz, che lui farebbe
benissimo a rifiutare questa cosa, questa qualifica, questa onorificenza e
così avrebbe il plauso di tutti gli appassionati del jazz. Perché uno dice:
vedi, Arbore non è uno..è coerente. Quando poi lui, proprio qualche giorno
prima aveva detto a Pippo Baudo: «ah il jazzista, io ho fatto l'orchestra
italiana perché il jazz non è nelle nostre corde».
Nelle tue! Non nelle
mie, parla per te!"
Nelle corde di Marcello
Rosa il jazz c'è, eccome! In quelle di Arbore...se lo dice lui...
Un'altra nota dolente nella sua storia è proprio Umbria Jazz e il suo
direttore artistico Carlo Pagnotta. Rosa vi ha suonato solo una volta e quella
volta è stata davvero una triste e mortificante esperienza anche per l'uomo
Marcello Rosa. Esperienza che delinea il clima che in quel periodo si era oramai consolidato in Italia
intorno a questa musica.
"Pagnotta
una volta era un grandissimo amico. Ora ti racconto un aneddoto. Ero andato a comprarmi un impermeabile,
un Burberry, un impermeabile classico inglese, poichè ha un rispettabile
negozio a Perugia. Mi dice questo
costa tanto…ma scusa, dico io, a via Condotti da Battistoni lo vado a comprare e
costa la metà. E dice: ma quelli non sono veri! Ma come non sono veri! Dico: 'a Pagnotta ma che stai a dì, a via Condotti me danno quello finto e tu hai
quello vero? Me lo faceva pagare di più!…Comunque di fatto io ho suonato una
sola volta ad Umbria Jazz, dimme te!
L'unica volta che ho suonato a Umbria Jazz è stato nel '75, c'era un
cartello con su scritto: 'Pomodori in faccia a Marcello Rosa
fascista'. E questo perchè Zampa (quello che scrive sul Messaggero, ex batterista)
mi fece un'intervista e scrisse, stravolgendo il senso di quello che avevo
realmente detto, che ero uno contrario alla ribalta dei giovani. Quindi ero
raffigurato come un nemico dei giovani e il giorno dopo, quando arrivai a Città
di Castello, mi venne incontro un giovane fotografo che lavorava a Sorrisi e
Canzoni e mi disse: «Ao', ma che sei venuto?». «E certo,
devo sonà!». «No, no, va' via perchè qui tira na' brutta
aria». «Che e' sta brutta aria! Io devo sona'». La scaletta
era: io, Chet Baker (tromba, 1929 - 1988) e
Archie Sheep
(sax tenore, soprano, 1937). Te pare che me permetto de non sona'. E
dice: «Eh, ma lo vedi che c'è scritto?». E c'era uno striscione de
venti metri con scritto appunto "pomodori...". E rimasi un po' male
perchè pensai anche alla premeditazione per tutto quello striscione. Comunque,
ero vestito anche tutto di bianco e suonai. Pensa che con me suonavano: Pieranunzi,
Tony Formichella
che all'epoca era già quasi indiano-metropolitano,
con i jeans col buco, il primo in assoluto. Ci fu un coro che diceva, per tutta
la serata: «Compagno sassofonista, non suonare col fascista».
Poi venne la polizia, uno lo hanno accoltellato. C'erano i compagni del servizio
d'ordine che erano dei gorilla col fazzoletto rosso al collo. Incredibile, a un
concerto jazz! Poi, finita la cosa, i rossi illuminati, addirittura mi
chiamarono per un concerto e mi proposero 800.000, nel '75, aho', so' soldi,
quando io a Umbria Jazz avevo preso 80.000. Ma rifiutai e dissi che sotto le
bandiere non suonavo. E così ho sempre rifiutato questi accostamenti. Ho
suonato con Romano Mussolini
e il 90% delle volte l'associazione col padre
veniva fuori, ma non con le bandiere di un partito. Mai! Dicevo: «se ce
sono le bandiere, non vengo». E invece forse me ne dovevo fottere. C'è chi
non se n'è fregato niente e perlomeno ha suonato.
In fondo, ha detto bene e gli sono grato a Laudenzi
per quel fatto del "francescano". Solo se hai una spinta interiore
vai avanti, se no manderesti a fan culo tutto. In fondo poi mi ritengo fortunato, ogni tanto mi chiamano
e vado a suonare."
Si conclude così
questa testimonianza a tratti amara di Marcello Rosa ma il vedere sempre così
viva la passione per questa musica lascia sempre una piccola ma importante
speranza che certe cose non accadano più.
Fai
click qui per ascoltare il CD HEAVEN di Marcello Rosa
12/12/2018 | Addio a Carlo Loffredo, tra i padri del Jazz in Italia: "Ho suonato con Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Django Reinhardt, Stephan Grappelli, Teddy Wilson, Oscar Peterson, Bobby Hachett, Jack Teagarden, Earl "father" Hines, Albert Nicholas, Chet Baker, i Four Fresmen, i Mills Brother, e basta qui." |
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Data pubblicazione: 17/04/2001
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