Ancora stelle allo "Swing"
Raccontare di tutti quelli che arrivarono sotto le volte della cave di Via Botero è impossibile. Non ricordare però il "Summit" guidato da Dusko Goykovich o gli "Incontri con il Jazz"
che inaugurarono, con chiacchierate su questa musica e concerti di vario stile, il Piccolo Regio per iniziativa dell'Assessorato alla Cultura del Comune non è davvero possibile. Allo stesso modo, sarebbe profondamente ingiusto non riconoscere la sempre più significativa presenza dei jazzmen italiani, spazianti fra la tradizione e l'avanguardia, dai torinesi
Neworleans Blues Blowers ai milanesi della Bovisa New Orleans Jazz Band
(nella quale svolgevano un ruolo non marginale i torinesi Beppi Zancan
e Gigi Cavicchioli), ai gruppi con Eraldo Volonté o, addirittura, agli spericolati quattro amici dell'Art Studio
che facevano della ricerca creativa una evidente ragion d'essere.
All'Alfieri arrivò persino
Stan Kenton con la sua grande orchestra, davanti a un teatro strapieno. Alla fine del concerto il leader e i musicisti vennero accompagnati a cenare allo Swing, a quattro passi da Piazza Solferino. Nel locale era stato nuovamente invitato Robin Kenyatta, che si pensò bene di invitare ad unirsi alla tavolata. La sua risposta fu un perentorio "No!". "Why not?" gli chiese l'amico che l'aveva invitato, e che era stato testimone del già rammentato incontro con Kenny Clarke. "Because he's a fascist!" fu la sferzante risposta. Già: Kenton, in quei tempi, era presidente del comitato elettorale del superfalco
Barry Goldwater, candidato alle presidenziali americane, e che aveva promesso, in caso di elezione, di lanciare una serie di bombe atomiche sulla Cina…
Le proposte jazzistiche, comunque, continuarono a fioccare, in città e fuori. A Bra, per iniziativa di un gruppo di appassionati capeggiati da
Angelo Testa, era nato il Village Jazz Club, inaugurato col quintetto
Basso-Valdambrini, seguito da concerti prestigiosi e da una serie di incontri-lezioni-audizioni dedicate ai giovani e durante le quali una mostra fotografica avrebbe dato colto ai personaggi storici del jazz. Chi scrive non potrà dimenticare l'avventura occorsagli la notte successiva all'ultimo di tali incontri. Caricati nel bagagliaio dell'auto i pannelli fotografici e partito per Torino, l'ignaro venne fermato nella località detta "Bandito" (potenza dei nomi!), da una pattuglia di carabinieri che gli chiese di aprire il baule. Mentre s'interrogava il malcapitato (erano ormai le due di notte), si fu interrotti dal carabiniere preposto all'esame del bagaglio che con voce rotta dall'emozione, esclamò: "Marescià, ci stanno i quadri!". Equivoco presto chiarito, ma ennesimo ricordo da aggiungere al già cospicuo bagaglio di aneddotica del protagonista.
Era arrivata, dopo l'avventura invernale braidese, la primavera, e con essa il consueto concertone al Palasport. Stavolta il nome di spicco era quello di Chick Corea presentato da Franco Cerri il quale, un po' seccato dai non simpatici commenti sul suo conto per via del celebre spot televisivo che aveva fatto di lui "l'uomo in ammollo", si risolse, con la consueta signorilità, a dire a chiare lettere che lui in ammollo non c'era mai stato, ma che si era trattato di un effetto speciale realizzato con un gioco di specchi.
Naturalmente lo Swing continuava imperterrito, facendo arrivare a Torino personaggi di spicco come il sassofonista
Byard Lancaster (poi presente anche a Valenza e ad Aosta per i rispettivi Jazz Club), poi l'allora celebre "Perigeo" con
Fasoli, Tommaso, D'Andrea e Biriaco, ed il loro jazz à la page come lo era quello dei "Dedalus": pop jazz, insomma. Ma l'epoca era quella che era. Il jazz, quello più attuale, arrivò comunque con il sassofono di Noah Howard, un neworleanista trentenne esponente della NYMO (New York Musicians Organization) di cui facevano parte Ornette Coleman, Sun Ra, Sam Rivers e altri della stessa levatura.
Il Jazz "classico" venne però offerto, in quegli anni, dalla chitarra di Barney Kessel, che in occasione del suo concerto (che inaugurava la sua tournée piemontese) a
Valenza Po vide, sorridendo alla cosa, Franco Cerri seduto in prima fila con un mastodontico registratore in grembo. Quanti (presuntuosi) musicisti saprebbero essere così modesti, pur se privi della sconfinata esperienza di Franco? Arrivò persino, ancora al Palasport, Duke Ellington con la sua grande orchestra, simpatico e disponibile ad essere fotografato in ogni momento: lungi da lui atteggiamenti divistici oggi ben diffusi.
All'Alfieri era arrivato
Stan Getz con il suo quartetto e, allo Swing, Chet Baker, seppur evidentemente provato dalla sua situazione esistenziale, aveva suonato (e soprattutto cantato) da par suo, così come aveva fatto Johnny Griffin, sempre signore del suo sax tenore.
All'Alfieri era anche arrivato, per la sua ultima sortita europea, il King of Swing Benny Goodman, con la sua orchestra. Elegante nel suo smoking mai abbandonato malgrado le mutazioni nel look del mondo dello spettacolo, il clarinettista, che aveva non poco contribuito alla storia del jazz, fu capace di dimostrare una verve e un'aggressività sonora tutte da apprezzare. Ovvio che il pubblico, quella sera, non era quello del concerto tenuto nella stessa sede da Giorgio Gaslini che negli stessi anni caracollava fra "Fabbrica Occupata", il cileno "Canto del Potere Popolare", o "Oriente Rosso", il tema arrivato in Europa dalla "rivoluzione culturale" cinese: eskimo e blue jeans, chiome sparse sulle spalle e collanine di pietra colorate avevano caratterizzato la sua serata.
Pienone e tutto esauritissimo, ai primi di maggio, allo
Swing Club. Nini aveva fatto un altro colpaccio, portando nel suo
Swing nientemeno che Ornette Coleman, con
James "Bloody" Umer alla chitarra. Deus ex Machina della faccenda era stato lo scultore milanese
Guy Arloff, che curava in quell'occasione gli interessi di Ornette in Italia. Il sassofonista, ingrugnatissimo, prima di iniziare girò fra i presenti per sequestrare ogni registratore, non rendendosi conto che sotto l'ampia gonna di una formosa signora seduta in prima fila era stato sistemato l'apparecchio di chi, in quell'occasione, la faceva anche da fotografo e che lo avrebbe recuperato, alla fine del concerto, caldo a un livello ben immaginabile. Ma la faccenda non era finita lì. Nell'intervallo, Ornette fece presente ad Arloff che il cachet concordato – 700 dollari di quei tempi! – non gli bastava, e che se voleva che terminasse il concerto ne voleva altri 400. Scene di disperazione della Nini, veloce consultazione fra i più fedeli tra i frequentatori, colletta immediata e consegna a Coleman del malloppo. La cosa trasformò il suo grugno in un radioso sorriso carpito sul momento dal fotografo e rimasto nel patrimonio iconografico di quell'epoca ribollente del jazz a Torino.
Il concerto colemaniano fu seguito dall'esibizione di Steve Lacy e dal concerto –per la Rai!- della big band guidata da
Dollar Brand, poi di Don Cherry, col solito furgone Volkswagen stracarico delle tele e delle sete colorate del suo "Organic Music Theatre" che una legione di volontari (il concerto si svolgeva al Palasport durante il Festival de L'Unità) inchiodava, legava, cuciva, sistemava alla bell'e meglio. Il risultato era una "barbarica scenografia" (come l'aveva definita
Polillo in occasione dell'esibizione di Cherry al festival di Alassio) dove il musicista, la moglie, il piccolo Eagle Eye e gli altri partecipanti al rito (compreso Enrico Rava che suonò dietro le quinte al comando di Don) sfornavano un unico set di oltre tre ore davanti a un pubblico che, sfinito, via via si assottigliava mentre Don mugolava la nenia finale e il figlio piazzava le sue pernacchiette con la minuscola trombettina che il padre aveva scovato chissaddove per lui. All'uscita avrebbe voluto andare sulle giostre che aveva ben visto arrivando, ma alle due di notte queste avevano spenti le luci rutilanti, mentre l'ultimo ristoratore, tenuto sveglio a forza, comunicava che a quell'ora tutto quello che poteva offrire era un piatto di spaghetti
ajo, ojo e peperoncino. Tutti d'accordo, e Don, quando gli fu domandato se preferiva "beer or wine", rispose candidamente "Orangeade!", indifferente alle occhiate schifate dei presenti perché già tutto preso dal cullare Eagle Eye che si stava addormentando, e dall'attesa dei suoi spaghetti "ajo, ojo, peperoncino… e orangeade!"