Lo "Swing" compie 10 anni
Ci fu, addirittura, il "decentramento culturale" messo in pista dagli allora notissimi Comitati di Quartiere, che al Teatro Cupola (un tendone, di fatto) del quartiere Vallette, una delle più tristi periferie di Torino, organizzarono un concerto con protagonista un trombettista torinese che ormai s'era stabilito oltreoceano trovando un'acconcia collocazione: Enrico Rava.
Chioma nerissima, baffi spioventi alla Gengis Khan, due compagni statunitensi come
Bruce Johnson al contrabbasso e "Chip" White alla batteria, Enrico arrivò con notevole ritardo all'appuntamento, giustificandosi con parole che suscitarono l'ilarità generale: "Pur essendo torinese manco da molti anni, così mi sono perso per le strade di Torino…". Sulle sedie pieghevoli e sulle panche con cuscini (i "posti di lusso") attorno al centro del tendone, il pubblico che aveva sborsato le 300 lire del biglietto fu ampiamente soddisfatto della musica proposta, che era jazz, anche se all'ingresso un cartello scritto col pennarello parlava di un concerto di "pop jazz". Ma era il jazz, quello vero, che aveva preso stabile dimora sulle rive del Po. E non solo allo Swing o negli altri luoghi rammentati. Dalle parti della Fiat Mirafiori, per iniziativa di un personaggio incredibile,
Alfonsino, aveva aperto i battenti il "Good Music", le cui pareti erano letteralmente tappezzate con gigantografie di personaggi come
Dizzy Gillespie e Duke Ellington, Miles Davis e Gato Barbieri, Louis Armstrong e Lionel Hampton e persino, proprio all'ingresso, un enorme affresco su tela in cui era riconoscibilissimo Sidney Bechet. Come se non fosse bastato, accanto al clarinetto di Sidney, una inequivocabile scritta: "Il jazz, questo sconosciuto", nella quale, guarda guarda, il termine "jazz" era quello della testata di "Musica jazz".
Irio De Paula con il suo
Balanço, Dollar Brand al pianoforte, i Nucleus di Ian Carr ed il quartetto di Slide Hampton e via via sino al nuovo quartetto di Enrico Rava con un giovanissimo, geniale sassofonista poco noto che rispondeva al nome di Massimo Urbani, questo sinteticamente il cartellone del
Good Music, mentre lo Swing Club, per il suo decimo anniversario, offriva a giornalisti ed amici una pantagruelica cena anziché il consueto cocktail party, e aveva fatto arrivare da Parigi il chitarrista
Jimmy Gourley, un solista che camminava sui sentieri tracciati da Charlie Christian con calore luminosissimo. Si continuava sulla strada imboccata, e ci si augurava che
Nini non cedesse dinanzi alle enormi fatiche che si sobbarcava. Era grazie a lei che Torino aveva vissuto e stava vivendo la sua epoca d'oro jazzistica. Dalla Nini, Gato Barbieri era di casa prima di diventare una star dello spettacolo musicale grazie alla fama ottenuta con la colonna sonora di "Ultimo Tango a Parigi" e, in campo jazzistico, grazie ai dischi
Impulse con i suoi vari "Chapter". Attendeva con ansia la sera, perché il suo unico pasto durante il giorno consisteva in un cono gelato da cento lire, mentre in Via Botero faceva provvista anche per il giorno dopo… Il gruppo più prestigioso, col quale Gato rimase a Torino un paio di settimane, fu quello in cui figuravano, oltre a
Nanà, il francese J. F. Jenny-Clark, il batterista Marvin Patillo
e, soprattutto, Lonnie Liston Smith al piano. Descrivere la musica di Gato e dei suoi amici senza aver mai potuto gustarla dal vivo è impossibile. La sua presenza a Torino, però, è un ricordo incancellabile anche per via della verve di sua moglie Michelle, che una sera aveva rivolto questa domanda alla moglie dell'amico di Gato: "Come va, qui da voi, il movimento femminista?" trovando l'interpellata piuttosto interdetta – non si parlava ancora molto dell'argomento, in Italia. "Ma come
– aveva proseguito Michelle – noi a New York (i due vivevano ormai nella città statunitense)
facciamo le nostre manifestazioni sfilando con cartelli su cui c'è scritto 'C… fascista!'"… Poi, Michelle e Gato ripartirono, e non tornarono più a Torino. Anzi, no, lui tornò all'inizio del nuovo millennio con la tristezza sul viso. Era morta, Michelle, e lui non aveva il coraggio di aprire le ante dell'armadio con i suoi vestiti…
Arrivò anche, sotto la Mole, un trombettista afroamericano che, come non pochi altri, aveva scelto di vivere in Europa, per la precisione a Vienna in Potsdamlerstrasse (!) dopo aver dato vita al leggendario "Jazztet" con Curtis Fuller, Benny Golson ed aver sostituito, chez
Gerry Mulligan, Chet Baker. Art Farmer ottenne un grosso successo, così come lo ottenne il pianista sudafricano
"Dollar" Brand.
In una chiacchierata con l'autore di queste note, egli aveva spiegato che il particolare soprannome gli era rimasto da quando, giovane pianista nelle bettole del porto di Città del Capo, chiedeva "a dollar" ai marinai che gli ordinavano di suonare questo o quel pezzo. E quello, a poco a poco, era diventato il suo nome, nonché quello dato ad un suo trio che incise addirittura un disco con Duke Ellington, "il Bach della musica moderna", nella definizione dello stesso Brand. Qualche tempo dopo, il pianista abbandonò il suo nome –
Adolph Johannes – per quello musulmano di Ibrahim Abdullah. La musica Kwela, dalle profonde radici africane, che per anni caratterizzò il suo sound, aveva per lui un valore assoluto.
Poi fu la volta, allo Swing, di tre inglesi – John Surman,
Mike Osborne e Alan Skidmore – che si presentarono con l'insegna "S.O.S." offrendo musica nella quale l'elemento essenziale era l'improvvisazione basata sull'interplay fra i tre sassofoni imboccati dai protagonisti che in quell'occasione tennero anche un concerto nel teatro di una chiesa di Borgo San Paolo, quella di San Bernardino. In una pausa delle prove i tre, scesi nello scantinato che fungeva anche da camerino collettivo, avevano lamentato il freddo che permeava il locale, e auspicato un bicchiere di "red Italian wine" come surrogato al riscaldamento assente. Il solito amico torinese che li accompagnava domandò se avessero qualche preferenza, e la risposta di Surman fu, netta: "Lembruscou!". Stupore del torinese, che si rese però conto del fatto che i tre amici arrivavano da Bologna, dove era stato loro offerto, ovviamente, il vino locale, per l'appunto il Lambrusco. Da una vicina bottiglieria arrivarono così un paio di bottiglie di Barbaresco, la cui degustazione da parte dei britannici fu accompagnata da sonori "Very kind! Very nice! Very good!" convinti e soddisfatti...