Ai Confini fra Sardegna e Jazz 2020 XXXV Edizione 31 agosto-6 settembre 2020 S. Anna Arresi di Aldo Gianolio foto di Luciano Rossetti,
Pietro Bandini, Agostino Mela
In emergenza Covid
19 la ripresa dei festival jazz nel mondo è stata oltremodo problematica, con
rassegne annullate (in Europa quella storica di Willisau) oppure notevolmente
ridimensionate (il Jazz em agosto di Lisbona e il festival di Saalfelden; in
Italia i cartelloni, quando si è riusciti ad allestirli, sono stati solo di
musicisti italiani). Basilio Sulis, il direttore artistico di "Ai confini tra
Sardegna e Jazz", il festival che nel piccolo comune dell'incantevole Sulcis
Iglesiente di Sant'Anna Arresi porta da trentacinque anni i massimi musicisti
mondiali di jazz sperimentale e comunque meno convenzionale, era orgoglioso di
avere ancora una volta allestito un cartellone di alta qualità differente dagli
altri italiani, contemplando jazzisti "sperimentatori" delle più diverse
nazionalità scelti fra quelli residenti o semplicemente di passaggio in Europa
(impossibile, per tutti, averne provenienti direttamente dall'America).
Impreviste, ci
sono state però alcune defezioni che avrebbero messo in grande difficoltà
qualsiasi organizzazione: infatti, per pura e semplice paura del Covid 19, della
cui presunta diffusione in Sardegna era girata ampia notizia anche all'estero
perché coinvolgente famose persone del jet set, aveva dato forfait tutta la
parte di musicisti provenienti dai paesi scandinavi, in primis il sassofonista
Mats Gustafsson con i componenti del suo quartetto MTMT (la sassofonista
Mette
Rasmussen, il contrabbassista Ingebrigt Håker Flaten e il batterista
Will
Guthrie); inoltre la cantante della Fire! Orchestra Sofia Jernberg
e il virtuoso
di elettroniche Christof Kurzmann. Grazie alla disponibilità di alcuni altri
musicisti già presenti in loco perché in cartellone, soprattutto il batterista
Hamid Drake e il pianista Alexander Hawkins (praticamente trasformati in
"resident artist"), si sono pensate e attuate performance sostitutive che di
certo hanno mantenuto, grazie alla bravura dei sostituti, la medesima forza
creativa e proposta qualitativa di quelle che dovevamo vedere protagonista
Gustaffson e compagnia.
Proprio Hamid
Drake con la sola batteria ha sostituito Gustafsson per il concerto d'apertura a
Masainas. Fatto inedito perché, come ha spiegato lo stesso artista prima
dell'esibizione, la sua concezione della musica è quella dell'insieme, della
collaborazione fra musicisti, non concependo, per ragioni sociali, politiche e
filosofiche, la performance in completa solitudine. Drake ha dimostrato però di
conoscere bene il modo di condurre gli assolo dei grandi batteristi, da Big Sid
Catlett a Elvin Jones, da Jo Jones a Max Roach, ai quali nella sua lunga
solitaria esibizione ha fatto esplicito riferimento con molteplicità di
soluzioni e dinamiche (in particolar modo a una delle prime composizioni
jazzistiche per solo batteria, "The Drum Also Waltzes" di Max Roach, che ha
scandito uguale nota su nota, con poche personali variazioni), confermandosi uno
dei più creativi, sensibili, tecnici, versatili ed espressivi drummer in
attività. Come bis, altrettanto toccante, un brano cantato con implicanze
africaneggianti dove s'è accompagnato con il tamburo a cornice.
Drake, il giorno
dopo, si è unito con la batteria proprio al maestro sommo del tamburo a cornice,
oltre che della tammorra: Alfio Antico. In tre, con l'aggiunta del chitarrista
Alberto Balia, hanno sciorinato una lunga serie di canti folklorici o a essi
ispirati dove gli svariati timbri e fioriture ricavati dalle percussioni di
Antico sono stati come potenziati dagli interventi sempre pertinenti e adeguati
di Drake alla batteria, costruendo intrecci sapienti ed elegantemente vigorosi.
La stessa attenta
partecipazione Drake ha usato entrando nel mondo musicale del pianista inglese
Alexander Hawkins, nell'inedito duo che ha sostituito il quartetto di
Gustafsson. Entrambi, pur operando nell'ambito della contemporaneità più
avanzata, conoscono a menadito la tradizione, e da un certo punto di vista se ne
fanno forza, anche per questo trovandosi benissimo con felici corrispondenze,
pronte risposte a specifiche chiamate, l'insinuarsi di uno nel corpus (poetico)
dell'altro facendo un tutt'uno coeso, ma al contempo riccamente dettagliato,
cangiante e differenziato (hanno ricordato il duo di Cecil Taylor con Max Roach,
che sono fra i loro principali ispiratori).
Sempre in duo,
questa volta con l'alto sassofonista Jason Yarde (facente parte della band di
Anthony Joseph che ha sostituito l'assente sassofonista Mette Rasmussen),
Hawkins ha rinvigorito la propria offerta musicale, anche stuzzicato da
Yarde che ha un suono potente, un timbro abrasivo ed enfasi visceralmente
declamatoria. Qui si sono messi in un angolo le rarefazioni, le pause, le prese
di respiro, come se dei due si fosse impossessato una specie di horror vacui che
li ha fatti procedere riempiendo ogni spazio con espansi volumi di suoni, spesso
tendenti alla saturazione, con una immediata e naturale intesa, derivata
probabilmente dall'esperienza di suonare assieme nel gruppo del batterista
sudafricano Louis Moholo.
Tre giorni prima
Hawkins si era esibito in solo (senza la cantante Sofia Jenberg che doveva con
lui duettare): chissà se è stato un bene; di certo non un male, perché il
pianista ha potuto così dare sfoggio a tutto campo delle sue eccelse qualità,
senza dover tenere conto di alcun contrappeso "frenante", come sarebbe
senz'altro stato con la vocalist. Rispetto ai duo precedentemente descritti, ha
tenuto maggiormente conto di costrutti classico-novecenteschi, in particolare di
Leos Janácek, per l'uso della ripetizione nella rielaborazione del materiale
sonoro; John Cage, per l'uso, in una parte del set, del piano "preparato",
riguardante solo la zona centrale della tastiera; Alban Berg, per una
articolazione formale densa e complessa che tende al caos e al disfacimento,
controbilanciato da un ampolloso ordine tardo romantico alla Sergej
Rachmaninoff. Altresì, si palesano i richiami jazzistici soprattutto, oltre a Cecil Taylor, di Marilyn Crispell e Mal Waldron, il tutto contribuendo a creare
un fascinoso ed emozionante mondo di figure sussultanti e passaggi labirintici
che contrastano con insolite rarefatte astrazioni, riuscendo a mantenere una
costante coerenza narrativa.
Oltre a Hawkins,
presenti al festival sono stati altri due pianisti europei, il francese (di
adozione, ma nato a Berlino e formatosi a New York) Jacky Terasson e l'italiano
Franco D'Andrea
(entrambi esibitisi sia in trio che in solo), corrispondenti a
tre modi completamente differenti di intendere il jazz.
Terasson è il più "ortodosso", legato alla tradizione moderna del filone di
Ahmad Jamal, ma che ha
saputo elaborare uno stile molto personale, mescolando, e questo avviene sia al
piano solo che in trio, tracimante esuberanza ed estrema eleganza, alternando
improvvisi forte con altrettanti improvvisi piano, così costruendo
una narrazione drammatica che conferisce un senso di instabilità conturbante.
Vario e complesso è il suo approccio armonico (è stato il pianista di Betty
Carter e Cassandra Wilson, cantanti piuttosto esigenti), precisa e swingante la
diteggiatura di fraseggi
particolarmente articolati pieni di rubato, e citazioni, in un repertorio
di famosi standard ("Lover
Man", "Caravan", "Smile", "You Don't Know What Love Is" e "Over the rainbow" che
fa confluire in "Come Together").
Franco D'Andrea è
il più stilisticamente omnicomprensivo (i suoi agganci col passato arrivano sino
al ragtime e allo stride, attraversando le polifonie neworleansiane, il jazz
classico, il be bop, il cool, da Morton a Monk, da Tristano a Taylor), rimanendo
al contempo organicamente unitario, personale, riconoscibile. Di tutti questi
timbri, suoni, ritmi e stili, quello che prevale è il cool, un po' asettico,
eseguito con aplomb. Nella sua performance al piano solo D'Andrea è
particolarmente pensoso e distaccato, ma si sente che dentro di sé ha un
rimestio che lo scalda e lo traduce in sghemba articolazione e andamento
tristaniano, costeggiando Ellington e Monk in modi e soluzioni sempre
imprevedibili, smontando e ricomponendo "Naima", "Let's Fall In Love", "Saint
Louis Blues" e "Half The Fun".
Il trio, i cui
sono coinvolti anche i bravissimi Enrico Terragnoli (chitarrista, manipolatore,
rumorista) e Mirko Cisilino (trombettista), non segue rigide partiture, almeno
così sembra, ma solo appunti, suggerimenti, incipit da interpretare, che siano
nuclei melodico-armonici preparati in precedenza oppure spunti estemporanei in
genere imbeccati da D'Andrea, subito ripresi e rilanciati dai compagni durante
una sorta di contrappunto continuo, tutti avendo la discrezionalità per cambi
repentini, inversioni di rotta, sviamenti di lessico e di genere, con Terragnoli
con funzioni più ritmiche, D'Andrea armoniche e Cisilino melodiche. In questo
impellente continuo scavare e cercare, tra rovelli labirintici e aperture
solari, il trio recupera, trasformandoli con modernità sconcertante, stilemi del
passato prossimo e remoto (addirittura ripresi "Tiger Rag" e "Livery Stable
Blues") con modi calibrati anche nei passaggi più scoppiettanti, come fuochi
d'artificio in bianco e nero.
Anche l'altro
gruppo italiano, Root Magic, s'è confrontato con la tradizione imbastendo un
vero e proprio viaggio culturale che recupera manipolando senza forzature e
aggiornando il blues di Charlie Patton e Skip James attraverso Julius Hemphill, Hamiet Bluiett, Olu Dara ed Henry Threadgill.
Le
ricercate concezioni ritmiche,
contagiate da un groove tortuoso (c'è più groove che swing), di Gianfranco
Tedeschi (contrabbasso) e Fabrizio Spera (batteria) sostengono i progressivi
impasti dei fiati di Alberto Popolla (clarinetti) ed Errico De Fabritiis (sax
contralto e baritono) formati da stretti call and response che si trasformano in
contrappunti, da fraseggi incandescenti, da riff incalzanti, e sostengono i loro
assolo ben costruiti sempre con sanguigno divertissement.
Uno dei massimi
esponenti della musica sperimentale, il settantottenne trombonista Giancarlo
Schiaffini, con Pinocchio Parade ha lasciato un po' perplessi. Probabilmente per
la complessità concettuale, che necessita di una particolare preparazione,
probabilmente anche per il luogo non adatto, un'arena all'aperto è dispersiva,
quando il progetto troverebbe la sua giusta dimensione in spazi più raccolti. Il
video di graphic art di Cristina Stifanic racconta la storia del burattino in
maniera a dire poco criptica e la sonorizzazione di Schiaffini è altrettanto
imperscrutabile, con rare apparizioni del suo trombone dalla bella Voce tersa
nascosta quando non sepolta da un didascalico collage multistrato di vari suoni
e rumori i più disparati, tra elettronica, echi di circo, bande di paese e
sintonizzazioni di radio mal riuscite, tutto confuso, sovrapposto, senza confini
delimitanti. Una performance certo ermetica, ma con un suo innegabile fascino,
che fa pensare a una installazione destinata alla mostra della Biennale di
Venezia.
Il festival,
infine, ha dato modo di far conoscere in due delle sue espressioni più
importanti la new wave del jazz britannico: The Comet Is Coming e il gruppo di
Anthony Joseph, entrambi con in formazione il sassofonista astro nascente
Shabaka Hutchings. Nei suoni avveniristici e trasbordanti del trio The Comet Is
Coming, con Danalogue alle tastiere e Batamax Ohm alla batteria, Hutchings è
rimasto nascosto, come se non esistesse. Le sue frasi corte e assillantemente
ripetute sono state coperte da una musica ad alto volume basata su effetti (i
classici effetti per fare effetto) portati all'ennesima potenza: un continuo
alone di suoni riverberanti spandentesi nell'aria con l'aiuto di
stroboscopiche luci multicolorate
spostantesi a girandola, fra continui riff ripetuti, loop stordenti e magmatici,
sospensioni luccicanti e atmosfere ultragalattiche.
Sono stati equiparati a Sun Ra,
ma di Sun Ra, almeno nel concerto a Sant'Anna, non c'era nemmeno l'ombra del
mignolo.
Tutt'altra storia
con la band del poeta e vocalist originario di Trinidad Anthony Joseph, formata
da Jason Yarde, Colin Webster e l'ospite Shabaka Hutchings ai sassofoni, Thibaut
Remy alla chitarra, Andrew John al contrabbasso e Rod Youngs alla batteria. Qui
il funky è potente, il groove impressionante e il carismatico cantante Anthony
Joseph trascinante, con brani i cui testi sono sue poesie e con un avvincente
sprechgesang molto vicino al poetry reading di Amiri Baraka ricordando la morte
di George Floyd, il Black Panther Party, l'intellettuale marxista C.L.R. James e
il rivoluzionario afroamericano George Jackson. Joseph lascia amplissimo spazio
alle divagazioni lancinanti e belluine dell'ensemble, in ispecie dei tre
sassofonisti che spesso si innalzano in turbinii estatici propri del free più
impervio e infuocato.