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Bologna Jazz Festival 2008
Herbie Hancock
Teatro delle Celebrazioni – 7 novembre 2008
di Giuseppe Rubinetti
foto di Achille Serrao

L'apertura della terza edizione del festival jazz di Bologna, che si è svolto tra il 7 e il 15 novembre, è affidata al quintetto di Herbie Hancock. Ad accompagnare il pianista afro-americano, Terence Blanchard (tromba), James Genus (contrabbasso e basso elettrico), Kendrick Scott (batteria) e infine, in una maniera piuttosto inusuale, Gregoire Maret (armonica a bocca). I membri della formazione sono tutti musicisti navigati. A partire dal trombettista Terence Blanchard, noto al pubblico cinematografico per le colonne sonore composte e arrangiate per svariati film di Spike Lee, tra cui Miracolo a Sant'Anna, La venticinquesima ora, Summer of Sam e altri.



I
l quintetto propone una scaletta tradizionale, ripercorrendo tappe cardinali per la storia e l'evoluzione del pianista afro-americano. L'inizio è affidato ad Actual proof, seguito poi da Speak Like A Child, V. (di Wayne Shorter), Seven teens (del chitarrista africano Lionel Loueke), lo standard Cantaloupe Island e, infine, Chamaleon.

La retrospettiva offerta da Hancock è comunque interamente rivisitata. I brani, anche quelli più noti e tradizionali, vengono riarrangiati e piegati ad una duplice esigenza: quella dettata dalla configurazione strumentale del quintetto e quella, prioritaria, dell'evoluzione e della risistemazione stilistica di un linguaggio. Il pianista di Chicago, giunto all'apice di una carriera coronata da decine di premi e riconoscimenti (tra cui un Oscar per la colonna sonora del film Round midnight e svariati Grammy), conferma la sua proverbiale attenzione ad un continuo rinnovamento, quella necessità, divenuta nel tempo il tratto distintivo della sua produzione, di osare anche a costo di reinventare e stravolgere i propri lavori più istituzionali, al fine di misurarne la forza e l'attualità. E tuttavia, a fianco di questa esigenza sperimentatrice, il pianista ne mostra un'altra: quella del musicista maturo che ripercorre la propria storia cercando di trarne un bilancio. Un'esigenza, questa, che si era già manifestata a partire dall'ultimo album, Then and Now. The Definitive Herbie Hancock, lavoro che riepiloga quarant'anni di evoluzione artistica e che ha fruttato al pianista il suo ultimo premio Grammy.

Al teatro delle Celebrazioni Hancock, alle prese con una formazione più tradizionalmente jazzistica, pare volersi porre faccia a faccia con se stesso, escludendo da questo autoritratto gli episodi più occasionali e commerciali che lo hanno visto spesso impegnato negli ultimi vent'anni di carriera. Un doppio esame a cui il pianista sottopone non soltanto un passato divenuto storia, ma anche il presente, il proprio attuale, rinnovato approccio musicale. La spinta verso il nuovo, verso l'esplorazione di inedite possibilità espressive, diviene così la cifra di una retrospettiva che non appare mai semplicemente autocelebrativa, ma che piuttosto offre al pianista la possibilità di esercitare sulla propria vicenda storica e musicale quella stessa ansia creativa che, nei decenni, lo ha portato a rimaneggiare i materiali musicali più disparati. Allo stesso tempo, il confronto con il passato fornisce la misura della distanza percorsa, dei cambiamenti a cui il linguaggio jazzistico è andato soggetto, e permette di ricostruire una continuità che consiste proprio nella propensione, sempre tangibile nella produzione del pianista, a superare i risultati di volta in volta raggiunti. Hancock, nella sua duplice veste di standard e original, di jazzista entrato nella storia e di infaticabile sperimentatore, reinventa la propria biografia artistica, restando funambolicamente fedele a se stesso.

Speak Like A Child è stravolta. Di Cantaloupe Island non resta che il tema rapidamente esposto. Poi un'improvvisazione graffiante, atonale, distruttiva, in cui il linguaggio di Hancock si espande nel segno di una contaminazione radicale, al cui interno diventa ormai irriconoscibile la presenza di un idioma principale. Il pianista mostra il proprio universo servendosi di un materiale sterminato ma pienamente padroneggiato, di un sincretismo stratificato e pirotecnico. Jazz, Fusion, Funk, ma anche tradizione europea: ogni ceppo si concede all'altro in un'oceanica messa in scena musicale. Quella di Hancock è una poetica della complessità, l'evocazione di un «villaggio globale» musicale che non si semplifica in un'assimilazione jazzistica di altri materiali, ma che muove piuttosto dalla ricerca di un terreno comune, dalla definizione di un orizzonte di intesa che si situa oltre le distinzioni di genere.

E l'intesa – aperta, plurale, democratica –, mezzo e fine di una musica che aspira a farsi globale, costituisce allo stesso tempo l'ideale che sorregge una conduzione quasi orchestrale del quintetto. Nascosto tra pianoforte, tastiere e computer, Hancock dirige senza imporre; lascia suonare gli altri componenti del quintetto, adattandosi alla loro personale inventiva.

Per quanto riguarda il solismo del pianista, le sue improvvisazioni, non troppo numerose (solo su Speak like a child e Seven teens), non lasciano tuttavia delusi. Liberato dai ceppi armonici e melodici del tema, l'assolo procede gradualmente dall'esposizione di frammenti motivici che si sviluppano, in un crescendo di tensione, sulla scorta di accordi ascendenti e irrisolti. Verso la fine del concerto, Hancock si concede anche una parentesi di piano solo, probabilmente improvvisato, in cui non mancano felici riferimenti al novecento europeo. È questo, forse, uno dei momenti migliori di tutto il concerto.







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Data pubblicazione: 01/01/2009

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