Il Jazz a Torino
di Gian Carlo Roncaglia
I grandi concerti allo "Swing"
Gli anni Settanta furono in ogni senso anni ruggenti per Torino, e lo Swing Club
divenne un richiamo irresistibile in quella autentica età dell'oro per i torinesi amanti del jazz. I Settanta furono in ogni senso anni ruggenti per Torino. Lo
Swing Club, con la sua piccola lanterna rossa sull'uscio al 18 di Via Botero, a due passi dalla centralissima Piazza Solferino, era ogni sera un richiamo al quale era difficile resistere per chi amava il jazz in anni in cui le canzonette terzinate dilaganti nei programmi televisivi d'intrattenimento obnubilavano sempre più i cervelli. Il jazz, comunque, aveva trovato nelle cantine di Via Botero una stabile dimora, offrendo persino il suo particolare premio – lo "Swing d'Argento" – a un violinista francese allora poco noto, e che non aveva ancora le fluenti chiome con le quali lo si sarebbe visto di lì innanzi perché era reduce da pochi giorni dal servizio militare che, anche nella patria di Marianna, agiva senza pietà sui capelli dei suoi soldati.
Aveva pochi riccioli,
Jean-Luc Ponty (già, proprio lui), ma idee da vendere, e l'inconsueto strumento scelto non gli creò alcuna difficoltà, tanto da essere soprannominato "il Coltrane del violino". Era simpatico e di compagnia e non ebbe difficoltà, una sera, a seguire la compagnia ed approdare in una piola (c'erano ancora, allora…) di Corso Casale, e gustare avidamente la polenta che in quella occasione era l'unico piatto passato dal convento (cioè dalla cuoca della piola medesima).
Poi ci furono momenti indimenticabili. Arrivò da Amsterdam Don Byas
con il suo cappottone di pelo e una bottiglia di vodka comprata al Duty Free di Caselle, e già pressoché vuota. All'arrivo, da
tombeur des femmes incallito, prese subito a corteggiare un soggetto per lui interessante; poi, resosi conto che qualcosa non funzionava, appellò chi era andato a riceverlo all'aeroporto con "Jean, c'est ta femme?", e alla risposta affermativa la sua reazione fu assolutamente uguale a quella del generale Cambronne quando gli intimarono la resa. Quindi, si concentrò nuovamente sulla bottiglia. Il concerto, comunque, fu superbo ed ebbe una coda alla Rai di Via Montebello con Adriano Mazzoletti a presentare. Dove gli spettatori rimasero non poco frastornati quando il presentatore, alla fine del primo set, disse: "Ringraziamo Don Byas che ci lascia, ma che riascolteremo la prossima settimana" – cioè, nel secondo set del concerto.
Uno dei trucchi di Mamma Rai venne così svelato, ma così andavano le cose, allora come oggi. Ci fu persino, all'Auditorium Rai di Via Rossini, un maxiconcerto organizzato da
Toni Lama, figlio dell'allora Provveditore agli Studi di Torino, che con il "Memorial Lama" commemorava il fratello, prestigioso pianista tragicamente scomparso da due anni. La prima, improvvisata edizione venne seguita, nella primavera del 1970, da un concerto a conclusione di un ciclo di "Lezioni sul Jazz" tenute alla Galleria d'Arte Moderna da critici e studiosi
affermati. Protagonisti
Dizzy Gillespie, con Red Mitchell, Jean-Luc Ponty (ancora con le chiome relativamente corte), Franco Cerri e Nicola Arigliano e l'orchestra milanese dello "Studio 7" diretta dal suo manager
Tito Fontana i protagonisti dell'avventura. Dizzy, particolarmente di buon umore, con uno scarponcino da alpino donatogli a Bergamo da dove proveniva, diceva a Ponty che le loro musiche avevano ogni diritto di convivere: "Il Jazz ha sempre attinto a piene mani nei patrimoni musicali, popolari e no. L'importante è che nella musica non manchi mai il feeling. Poi… tutto è buono".
"… Torino, da alcuni anni, sembra essere diventata la New York italiana: mangiare polenta dando di gomito a
Ponty e farsi versare Barbera da Aldo Romano è normalissimo, come non dà quasi più alcuna emozione brindare con
Don Byas o disquisire di diete yoga con Lou Bennett (che grazie allo yoga era uscito dal giro della droga) o ancora, gustare con
"Slide" Hampton quella particolare salsiccia che naturalmente doveva essere accompagnata da quel certo Dolcetto che guarda caso Gianni Basso aveva tirato fuori dal baule della sua auto, non soddisfatto dal vino trovato nel locale dove doveva suonare…" venne scritto a quell'epoca. Non era un gratuito millantare: allo Swing erano arrivati i musicisti già ricordati, ma non pochi altri li avevano preceduti e seguiti. Fra essi vanno ricordati Mal Waldron, già compagno di
Billie Holiday, Lou Bennett con il suo mastodontico organo Hammond,
"Slide" Hampton sempre elegantissimo nel suo Principe di Galles, e poi ancora la
Dixieland band di Barry "Kid" Martin, e il grande trombettista giamaicano
Dizzy Reece. Ma non basta: sul palco (si fa per dire: era poco più di una piccola pedana) erano approdati anche il flautista francese
Michel Roque, che "Jazz Hot" aveva proclamato miglior solista del 1970, il pianista
Charlie Beal, per anni compagno di Louis Armstrong;
Phil Wood con il suo sassofono e la sua European Rhythm Machine formata da
George Gruntz, Henry Texier e Daniel Humair; e Art Farmer, con la sua tromba seducente.
Erano di casa anche gli italiani, allo Swing. Gianni Basso e
Oscar Valdambrini con Renato Sellani il quale, dopo aver constatato come il vecchio pianoforte fosse irrimediabilmente scordato, si era rivolto al pubblico e, con la sua espressione alla Mac Roney (un fantasista televisivo allora assai in voga), aveva chiesto: "Non ci sarebbe una fisarmonica?", provocando clamorose risate, cui fece seguito la sua performance strumentale letteralmente da manuale. Più il genovese
Lucio Capobianco con la sua swingante band, Glauco Masetti al clarinetto e al sax e, naturalmente, la coppia
Dick Mazzanti-Emilio Siccardi a riproporre il loro jazz marca Kansas City.
Ma l'elenco diventerebbe troppo lungo, mentre non si può non rammentare la particolarissima cucina dello Swing, alla quale l'onnipresente
Nini dedicava non poca attenzione. Per due motivi: prima dei concerti, nella sala arrivavano i frequentatori con maggiori possibilità economiche, che cenavano con gli amici prefissando il posto nella saletta del concerto, agli inizi addirittura arredata con vecchi banchi di scuola, quelli col foro per il calamaio. Ma soprattutto per la frequentazione post-concerto (dalle due o giù di lì e sino all'alba) da parte della "Turin la nuit", con le sue "cantoniere" e relativi protettori. Non facevano questione di prezzo, questi personaggi, tanto, sapevano che la sera successiva l'incasso sarebbe nuovamente arrivato. Nini non era entusiasta della situazione, ma gli incassi notturni le consentivano di far quadrare i conti, visto che il reddito jazzistico quasi mai dava un bilancio non deficitario: infatti, molti non solo non pagavano l'ingresso, ma neppure consumavano al bar. Comunque, questa attività notturna – peraltro pressoché sconosciuta ai comuni mortali – non degradò la fama del locale dal livello di cave parigina a quello di un qualsiasi
Chat qui pêche; anzi, alla città della Mole lo "Swing" era sempre più invidiato dagli altri appassionati italiani.
Si potevano anche fare le ore piccole dividendo l'ultimo sandwich disponibile con Kenny Clarke, che al pomeriggio era stato protagonista, al teatro Stabile di Via Rossini, di un concerto per studenti organizzato dall'Assessorato Provinciale alla Cultura, un clamoroso successo. "Conferenze, dibattiti, audizioni discografiche, cicli di lezioni hanno creato solide basi per la diffusione del jazz, e l'attenzione dei giovani ne è la dimostrazione", venne scritto in quell'occasione. Ma è il dopo-concerto la parte più succosa di quella presenza del grande drummer a Torino, che ebbe comunque varie repliche nelle quali Kenny divenne un amico indimenticabile. Dopo il concerto per gli studenti, il batterista era stato protagonista di due set serali alla Rai. Chi lo accompagnava, preoccupato della sua evidente stanchezza, gli domandò se voleva andare in albergo. La risposta fu: "Sai, potremmo andare allo Swing, dove sta suonando Robin…", perché Robin Kenyatta era stato scritturato per una settimana intera. Il suo vero nome era (ed è)
Prince Roland Nayes, era nato nel South Carolina ventinove anni prima ed aveva cambiato il proprio nome, mutuando "Robin" da Robin Hood e "Kenyatta" dal leader keniano, "Perché loro sono per me simboli della libertà", aveva spiegato, indicando la pallottola da mitragliere appesa al collo con una striscia di cuoio e datagli dal fratello, combattente con l'OLP in Palestina. Kenny, forte della sua ultra-decennale appartenenza all'Europa parigina, abitante in una graziosa villetta a Montreuil Sur Bois, si esprimeva in un francese caldo, familiare. Robin, timidamente, riconobbe di non conoscere tale lingua, chiedendo alla martinicana Chris, amorevole, dolce compagna, di fargli da interprete "Non solo delle mie parole, ma anche del mio pensiero, che conosci bene…", come indicava chiaramente il disco che aveva appena inciso, "The Girl from Martinica". Raccontare della conversazione a più voci non è scopo di queste note, ma il rammentare assieme Kenny Clarke, borghese afro-francese, e Robin Kenyatta, militante dei
Black Muslims americani, è cosa da collocare fra i ricordi più coinvolgenti di quella ricca, appassionante, emozionante stagione d'oro del jazz a Torino.
12/12/2018 | Addio a Carlo Loffredo, tra i padri del Jazz in Italia: "Ho suonato con Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Django Reinhardt, Stephan Grappelli, Teddy Wilson, Oscar Peterson, Bobby Hachett, Jack Teagarden, Earl "father" Hines, Albert Nicholas, Chet Baker, i Four Fresmen, i Mills Brother, e basta qui." |
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Data ultima modifica: 05/01/2008
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