ENRICO PIERANUNZI TRIO:
Enrico Pieranunzi: piano
Marc Johnson: contrabbasso
Marcello Di Leonardo: batteria
Gli artisti
Cominciamo dal leader, il romano Enrico Pieranunzi, classe 1949.
Pianista, compositore di fama internazionale, forse uno dei pochi, se non
l'unico italiano, ad aver suonato con i più grossi nomi del panorama jazzistico
mondiale. All'estero è riconosciuto come un pianista dal tocco trai più
raffinati e degno erede/successore di un grande come Bill Evans. Già, proprio
Bill Evans, questo fantasma che, come afferma lo stesso Pieranunzi
nell'intervista è un punto di partenza con cui qualunque pianista,
coscientemente o meno, ha dovuto fare i conti. (n.d.r. ha presentato, il 7
luglio 2000, a Villa Celimontana (Roma), la terza edizione del suo libro
dedicato a Bill Evans). Ha suonato con grandi nomi, dicevamo, proviamo ad
elencarne qualcuno: Charlie Haden, Billy Higgins, Marc Johnson, Paul Motian,
Joey Baron, Chet Baker, Jim Hall, Lee Konitz, Phil Woods, Art Farmer, Johnny
Griffin e chi più ne ha più ne metta! Il suo merito non è tanto derivante dal
fatto che abbia suonato con questi nomi, bensì dal fatto che oramai Pieranunzi fa
parte di questi nomi. Ad impreziosire il medagliere ci sono esibizioni in
tutto il mondo, l'elezione come miglior musicista nel referendum Top Jazz del
1989 e l'inclusione di due sue composizioni nel noto volume The New Real Book
II. La sua discografia è talmente ampia che non è possibile citarla in
quest'articolo, ricordiamo il NAIMA, MY FUNNY VALENTINE e LITTLE GIRL BLUE con
Chet Baker, SILENCE con Billy Higgins, Charlie Haden e Chet Baker, ISIS con Art
Farmer, DEEP DOWN con Marc Johnson e Joey Baron, FIRST SONG ancora con Billy
Higgins, Charlie Haden, FLUX AND CHANGE con Paul Motian, NAUSICAA con Rava e gli
ultimi DEADALUS WINGS in duo col pianista tedesco Bert van den Brink (ha
accompagnato Dee Dee Bridgewater), e DON'T FORGET THE POET con Bert Joris (Flugelhorn,
Trumpet), Hein Van DeGeyn (Bass) e Hans VanOosterhout (Cymbals, Drums).
Marc Johnson non credo che abbia bisogno di particolare presentazione
dato che a 19 anni ha iniziato la sua carriera accompagnando proprio Bill
Evans nel suo ultimo trio. E' come diventare campione del mondo a 19 anni,
dopo non puoi più deludere. E Bill Evans aveva visto ovviamente bene, perchè
Marc Johnson non ha più deluso. E' un contrabbassista molto raffinato,
virtuoso, che ha dato un grosso contributo all'innovazione jazzistica negli
ultimi 15/20 anni. Basti pensare a formazioni come i Bass Desires (Bill Frisel,
John Scofield, Peter Erskine) fino ad arrivare ai giorni nostri con un album
eccezionale come "The Sound Of Summer Running". Johnson è il leader
di una formazione micidiale: Pat Metheny, Bill Frisell e Joey Baron. Tutte
personalità fortissime e difficili da mantenere equilibrate eppure Marc
Johnson, alla regia, è riuscito in questo miracolo; tutti i suoni sono
totalmente integrati e complementari tra loro pur non trascurando proprio le
individualità che emergono chiare e forti. Anche Johnson, oltre a quella con
Bill Evans, ha collaborazioni di altissimo livello come: Stan Getz, Paul
Motian, Jack De Johnette, Joe Lovano, Michael Brecker, Gary Burton, Elain
Elias, Lee Konitz, Bill Frisell e Pat Metheny appunto e...Enrico Pieranunzi.
A Marcello Di Leonardo il compito di sostenere ritmicamente questi due
campioni. E' un giovane batterista di Pescara (classe 1969) che, dopo studi
classici e vari seminari di perfezionamento, si trasferisce a Roma. Lì
effettua importanti collaborazioni con Maria Pia De Vito, Enzo Pietropaoli e
Rita Marcotulli nel gruppo "Nauplia", Si esibisce in Spagna e
Portogallo con Rick Margitza, Steve Slagle, Ed Neumeister e Phil Markowitz.
Poi partecipa al progetto Banda Sonora, diretto dal chitarrista Battista Lena,
con Enrico Rava,, Enzo Pietropaoli, Gabriele Mirabassi e Gianni Coscia. Con
questo ensamble, oltre a registrare un disco nel 1996 per l'etichetta francese
Label Blue, si esibisce in Francia, Germania e Cina.
Sempre con Battista Lena ha inciso il CD Mille Corde per la Egea. Collabora
con il compianto Massimo Urbani, Tony Scott, Paolo Fresu, Danilo Rea, Stefano
Di Battista, Salvatore Bonafede e Pieranunzi.
Il concerto
Vento! Molto vento!
Il posto è molto suggestivo ma il vento ha un po' alterato la
performance di questi grandi musicisti.
L'inizio è comunque esplosivo con un Autumn Leaves a grande ritmo. Marc
Johnson galoppa l'armonia con un walkin impeccabile e metronomico consentendo a
Pieranunzi di liberare un pianismo che lascia presagire una serata d'eccezione.
Anche Di Leonardo risponde egregiamente agli stimoli di Johnson e Pieranunzi che
riescono persino ad inventare degli obbligati ritmici all'unisono. Dico persino
perchè non è cosa immediata se si pensa che Johnson era appena arrivato da New
York quindi non vi era stato il tempo materiale di accordarsi neanche sulla
scaletta. Infatti tutta la serata prosegue sull'esecuzione di standards, tra cui
citiamo Someday My Prince Will Come, All the Things You Are con il
tema esposto da Johnson, On Green Dolphin Street in versione latin e I
Hear A Rapsodhy. Fin qui il concerto, a dire il vero, è andato un po'
calando; i musicisti si sono attestati su un livello di performance
qualitativamente ineccepibile ma senza particolari picchi emotivi e tecnici. Al
termine di questo primo gruppo di brani Pieranunzi annuncia che, nonostante il
vento, cercheranno di eseguire qualche ballad. Lo fanno partendo da I Can't
Get Started proseguendo poi fino a un gradevole Blue In Green eseguito
in versione latin in cui il tocco di estrazione classica di Pieranunzi si
avverte tutto. La serata comunque continua con un Johnson che, purtroppo, si
spegne sempre più anche quando eseguono Parker prima di concludere. Bis d'obbligo
su Stella By Starlight. Ecco qui, non mi sento di dire altro, perché la
serata è stata impostata su un repertorio improvvisato, eseguito ovviamente
bene - sono grandi musicisti questi! - ma personalmente avrei gradito qualche
bella composizione di Pieranunzi e/o Johnson. Forse nelle prossime serate di
questo trio sarà così dato che Trani ha sancito l'inizio del tour. In seguito
hanno suonato il 9 (ancora in trio) e il 10 luglio a Pomigliano d'Arco con
l'aggiunta di Gabriele Mirabassi al clarinetto e di Antonio Onorato alla
chitarra, Maria Pia De Vito alla voce e Gianni Coscia alla fisarmonica. Poi
vanno a Umbria Jazz (il 15 luglio).
L'intervista
Incontriamo
dopo il concerto il maestro Enrico Pieranunzi. Disponibile e cordiale
riusciamo a trovare all'interno del Monastero una stanza finalmente senza
vento in cui poter chiaccherare un po'. Purtroppo Marc Johnson, distrutto
dal fuso orario e dalle condizioni atmosferiche, si è scusato e ha
salutato tutti.
Maestro, so che ieri (7 luglio 2000) ha presentato a Roma la
terza edizione del suo libro su Bill Evans. Com'e'
andata?
Bene, non c'era molta gente, dato che a Celimontana gli eventi principali sono i concerti, comunque bene. E' la terza edizione, questa volta è stato tradotto anche in inglese da una bravissima traduttrice. Nell'ambito di queste imprese sempre eroiche a cui è abituato il jazz, è una cosa di cui sono veramente felice, forse ci sarà la prefazione di Ira Gitler (famoso critico americano n.d.r) che l'ha letto e gli è piaciuto molto.
Sai, è una gran fatica per me questo lavoro, perché non è la mia attività principale quella di scrivere libri. E' una grossa soddisfazione. Ci saranno due CD allegati di un concerto tenuto a giugno dedicato a Bill Evans, nuove foto, insomma un gran lavoro di cui sono soddisfatto, felice.
Quanto e in che forma è presente oggi Bill Evans in Pieranunzi sia come background culturale che nell'impostazione musicale?
Il fantasma di Bill Evans è sempre presente! Mah sai, Bill Evans è presente in ogni pianista, è un punto di riferimento. Per arrivare a scrivere un libro su di lui vuol dire che in qualche modo lo si considera presente nella propria cultura. Ma comunque tutti i pianisti non possono non considerare Evans, anche fenomeni come Corea, Jarrett, Miller, non ci sarebbero stati se non ci fosse stato Evans. Qualunque pianista dagli anni '60 in poi, coscientemente o meno, ha dovuto fare i conti con Bill Evans. Tutti i pianisti con uno studio classico alle spalle, un certo tocco, non possono non riferirsi a Evans, proprio perché Bill Evans è stato il primo ad avere un background colto e a suonare jazz. E' come dire che chi suona sax jazz non fa riferimento a Coltrane. E' impossibile. Poi ognuno ha la propria identità. Prende un proprio percorso, c'è chi ci riesce meglio e chi meno, ma questi sono punti di riferimento indispensabili proprio per meglio comprendere quello che può diventare il proprio linguaggio.
Che strada sta prendendo il jazz?
Rispondendo con una frase di Monk potrei dire: "Il jazz va dove gli pare". Dove va il jazz? Il jazz segue l'evoluzione dei popoli, è sempre stato lo specchio del tempo in cui viene suonato. Oggi è molto meno facile dire cosa è jazz e cosa non lo è. Negli anni 60 si individuava il jazz in base ad un certo modo ben preciso di suonare, mentre oggi no perché c'è molta più unione di popoli, etnie, influenze di generi musicali diversi, folk. Il jazz,mi sembra di poter dire comunque, rimane l'approccio più umano alla musica. È un'opinione personale, s'intende.
Che ruolo ha la melodia in questo? C'è ancora spazio per una ricerca melodica?
La melodia è uno degli aspetti del jazz che oggi è ancora di più rivalutato. Nella musica leggera, nella musica dei giovani, la melodia è quasi totalmente sparita pertanto il jazz ha riassunto il ruolo di far cantare melodie, è diventato anche più cantabile. Se consideriamo che nella musica moderna, prima con il rap, che è parlato ed è prettamente ritmico, poi con la techno che ha freddi suoni computerizzati e privi di melodia, tranne alcuni casi, la melodia è totalmente assente. Quindi l'esposizione melodica nel jazz assume ancora più valore.
Come vede, in questo senso, le numerose sperimentazioni attualmente in voga nel jazz italiano, che in alcuni casi sono chiamati "rumori" in altri "effetti sonori".
Li vedo bene, la ricerca è estremamente importante e il jazz è un genere che permette ricerca pertanto va fatta. Ben vengano questi festival caratterizzati da modelli sonori legati alla ricerca. Lasciamo strada alle sperimentazioni, perché alla fine il jazz è sempre stato una ricerca continua e non nutriamo pregiudizi nell'accostarci alla musica. E poi la melodia è anche nella ricerca, Garbarek fa ricerca, ma ha una grossa componente melodica.
Non pensa che ci si possano "nascondere" competenze a volta un po' dubbie?
Mah sai, chiunque può bluffare, anche nella melodia, ma prima o poi salta fuori. Il pubblico avverte se chi sta suonando sta bluffando, certo in un ambito di ricerca è meno evidente, ma solo in apparenza, anzi a volte è addirittura più evidente. E poi tutti un po', chi più chi meno, ogni tanto bluffano, anche Pat Metheny, pur essendo un grandissimo musicista, ogni tanto ha fatto delle cose più leggere (in tono ironico n.d.r.).
Qual è il livello delle scuole italiane e che impressione ha dei musicisti italiani?
Le scuole italiane hanno raggiunto un ottimo livello così come i musicisti. Abbiamo giovani musicisti che sono senza dubbio i migliori in Europa. Rosario Giuliani, Stefano Bollani, Luca Bulgarelli, Di Battista, Mirabassi, e tanti altri. Questi sono ragazzi fortissimi, veramente in gamba, dei talenti. Giro molto in Europa, Francia, Germania, Olanda, e posso sicuramente dire che non ci sono a livello europeo talenti come questi. E credo che le scuole di conseguenza abbiano elevato molto il loro livello didattico. Io poi non credo che il jazz si possa insegnare più di tanto. Ritengo, forse un po' troppo romanticamente, che l'approccio al jazz sia più un rapporto allievo-discepolo come gli apprendisti di Leonardo o Michelangelo che prima facevano i garzoni di bottega e poi pian pianino imparavano e assumevano una propria identità.
Si può partire da un modello d'insegnamento precostruito, quello Berkliano per intenderci, ma poi inevitabilmente bisogna misurarsi con se stessi e imparare il jazz partendo da ciò che si è o si vuole essere. L'approccio Berklee permette in tempi relativamente brevi a molti di capire come funziona il meccanismo di questa musica e poi, ripeto, se uno vuole può e deve misurarsi con se stesso e costruirsi una propria identità. Il jazz è in ognuno di noi. Dipende molto dagli insegnanti, e il livello degli insegnanti italiani mi sembra elevato.
Per chiudere, un piccolo gioco. Tre cose che farebbe se fosse ministro della musica!
Questa è una bella domanda. Che responsabilità, ministro della musica! Mah sai, terminerei le opere che stentano a completarsi come l'auditorium della mia città, quindi gli spazi; porterei la musica anche alle elementari, quella vera, non quella dei cantanti, con tutto il rispetto, anche facendo suonare strumenti, tutti, non il solito flautino. Un sogno, ma che se fossi ministro tenterei di realizzare, è quello di documentare il jazz italiano. Il jazz in Italia, dal dopoguerra ad oggi, è un fenomeno musicale di estrema importanza. Kramer, Trovajoli, Polillo, sono loro che hanno consentito di creare i primi ponti con la musica di Ellington. Mi piacerebbe creare un grosso archivio sonoro del jazz italiano. A Siena c'è qualcosa, ma il resto è sparso un po' in tutta l'Italia.
A tal proposito mi viene in mente il suo bellissimo CD fatto con Ada Montellanico ("Ma l'amore no", Soul Note, 1997) , con brani come Amore fermati, Ma l'amore no.
Grazie, ti ringrazio per averlo citato, lì è stato fatto un lavoro di riarrangiamento proprio di queste musiche assolutamente preziose e imperdibili.
Un'ultima cosa che farei se fossi ministro, forse impossibile. Riporterei il jazz in televisione e alla radio. E' sparito del tutto e non so se un ministro possa influenzare la programmazione dei media all'interno dei consigli di amministrazione, ma forse può dare delle indicazioni. Eh sì, bisognerebbe trasmettere molto più jazz.
Trani, 8 luglio 2000
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