Pat Metheny Group "The Songbook Tour" Roma Auditorium Parco della Musica - Cavea - 17 luglio 2010
di Alceste Ayroldi foto di Musacchio & Ianniello
C'è l'osso duro del PMG, quello che nel 1977 vedeva Egan
e Gottlieb, e naturalmente Lyle Mays, ed oggi Steve Rodby e Antonio
Sanchez. Il quartetto che, nel corso del tempo, si è arricchito di un ecumenico
ventaglio di sonorità per mezzo di Richard Bona, Pedro Aznar, Nanà Vasconcelos,
Gregoire Maret, Cuong Vu, Nando Lauria, Paul Wertico, David Blamires, giusto per
citarne – a casaccio – alcuni. Si può parlare di PMG "roots", perché il valore aggiunto
dei sopra citati si è fatto sentire ed ha riscaldato ancor di più gli animi dei
numerosi fans metheniani, anzi accrescendo la fama del chitarrista del Missouri
e consentendogli di raggiungere un pubblico sempre più vasto e variegato. Metheny
è reduce da un defatigante ed impegnativo tour con il progetto "Orchestrion",
presentato in ogni angolo del mondo ed evocativo dei suoni del PMG "d.o.c.". Senza
interruzione alcuna, torna ad imbracciare le sue chitarre con un trio di amici (forse,
vista la sua inquietante assenza al tavolo del ristorante dove sedevano i suoi tre
compagni di viaggio) e musicisti di vaglia.
E' caldo a Roma, anche nella Cavea ed è forse la patina di umidità
che fa scivolare il dito di Metheny dalla corda della "sua" Ibanez Natural PM 120
al secondo brano, ingannandolo. Il quartetto parte in sordina, fatta eccezione per
Lyle Mays e Antonio Sanchez in grande spolvero fin dalle prime battute.
Si avverte una sensibile mancanza di interplay, di empatia. Il gioco è più strutturato
sulla profonda conoscenza dei brani, ben assimilati da tutti, che da quel trascinante
pathos che Metheny ed il suo gruppo era capace di trasmettere. Prova ne è la versione
down-tempo di This Is Not America poco convincente, alla ricerca di un suono
nuovo che non restituisce brividi.
Lyle Mays sfodera con particolare tenacia tutto il suo
repertorio e appare – ove ciò fosse possibile – ancor più maturo con staccati e
frasi interrotte degne della migliore avantgarde. Perle che alterna ad un
tocco classico, inebriante e di ampio respiro. Anche Sanchez fa la differenza:
è trascinante, potente nella scansione ritmica e sempre opportunamente calibrato.
Palesa una incredibile varietà linguistica, sempre raffinata, generando impasti
timbrici fuori dal comune. Rodby è metronomico e cuce le sezioni senza varcare
mai la soglia dell'ovvietà.
Pat Metheny
passa in rassegna tutte le sue chitarre, dalla Roland Synth alla Pikasso Guitar
di Linda Manzer. Lo fa con una certa stanchezza, seppur il pubblico della Cavea
dell'Auditorium lo infiammi, tanto da suonare per circa due ore. Lascia molto spazio
a Lyle Mays, ad Antonio Sanchez ed anche a Steve Rodby che elargiscono assolo ben
eseguiti. E giù, quindi, con Phase Dance, Have You Heard, James,
Are You Going With Me (sempre emozionante), fino a Song For Bilbao.
Il songbook del grande Metheny è servito, con tutta la sua maestria nell'emozionare
il pubblico, più per ricordo che per l'esecuzione ed il concerto in sé stesso. Non
convince la proposta apparsa piuttosto raffazzonata e palesemente "estiva", più
voluta dagli astuti manager che dallo stesso quartetto. Alcune sonorità abbisognavano
di un lavoro di arrangiamento e di scrittura per essere adeguatamente rilette in
quartetto. L'assenza del "vero" PMG si è sentita. Il pubblico, comunque, era entusiasta.
Con buona pace di tutti, anche di chi scrive.