Roberto Bonati e i Sacred Concerts di Ellington
Conservatorio Boito, Parma, giugno 2007
di Marco Buttafuoco foto di Piero Bandini
Ellington diceva che i Sacred Concerts, l'opera cui dedicò buona
parte della sue ultime energie di compositore, erano il suo lavoro più importante.
In effetti sono un vero e proprio riassunto dell'arte del Duca. Forse si potrebbero
definire la ripresa e la conclusione di quella "Black, Brown and beige suite"
che secondo molti storici è il capolavoro del genio di Washington e una delle opere
più importanti di tutto il Novecento musicale.
I concerti sono però di difficile esecuzione.
Richiedono infatti un organico vastissimo (una big band, due cori, quattro cantanti
solisti) questo ha fatto sì che ben pochi siano stati i musicisti le istituzioni
in grado di affrontare l' impegno artistico ed economico di riproporli.
L' ultimo è stato Roberto Bonati, in una sera caldissima e umida
di fine giugno, nel cortile del Conservatorio "Boito" di Parma. La big band era
formata dai suoi allievi della classe di jazz dello stesso istituto, per i quali
il concerto costituiva il saggio di fine corso. Un insegnante del livello di
Alberto Mandarini ne rinforzava la sezione delle trombe. Il Boito forniva anche
uno dei due cori e le voci soliste.
Il secondo ensemble vocale era quello della civica scuola di jazz di Milano.
A dirigere questa insolita (per un concerto di jazz) numerosa e magmatica
compagnia era ovviamente lo stesso Bonati.
La
fatica dell'impresa è stata, diciamolo subito, compensata da un risultato artistico
di livello veramente superiore.
L'orchestra ha restituito quella "sonorità imprecisa, africana, quello
strano colore viola della musica del Duca, dato dai fiati non perfettamente intonati":
carattere essenziale della musica di Ellington, secondo Bonati. Ma
il vasto ensemble, nel suo complesso, ha fatto sentire quel mix indicibile di spiritualità
e sensualità, quel superamento della scissione fra arte e vita, fra danza e preghiera,
fra religione e quotidianità proprio dell' arte africana prima e afro americana
poi.
Un esempio, per tutti. La riproposizione di "Come
Sunday" il gospel tratto da "Black Brown and beige" reso immortale
da Johnny Hodges nella versione della suite del
1941 e da Mahalia Jackson poi. Ad un certo punto i due cori lo
hanno riproposto con un tempo molto più breve rispetto alla letture abituali, con
uno swing che faceva trattenere il respiro, ma con grande dolcezza e morbidezza.
Mentre i solisti dell'orchestra improvvisavano a turno, interagendo con il coro,
è entrato in gioco il danzatore Andrea Centi con una lunghissima sequenza
di tip tap: preghiera e danza, atmosfera da locale da ballo e di chiesa. Da nodo
alla gola.
Ma è solo, appunto, un esempio, il più facile da ricordare, delle tante
emozioni di questa serata ellingtoniana In realtà la qualità complessiva del concerto
è stata davvero elevata. La tensione emotiva non è mai venuta meno nell' orchestra,
nei solisti, nei cori.
Un ripasso affascinante della grande lezione musicale del Duca. Un occasione
per riflettere su quanto il jazz abbia dato alla cultura musicale dei nostri giorni,
in termini di rinnovamento dei linguaggi.
Sarà purtroppo difficile risentire questa edizione dei Concerts. Lo sforzo
organizzativo ed economico per mettere insieme un ensemble tanto vasto è davvero
soverchiante. Eppure una pagina tanto importante della storia dell'arte afro-americana
(e non solo) non dovrebbe restare dimenticata. Possibile che non possa trovare spazio,
in qualche buona rassegna, in mezzo a tante pletoriche esibizioni di star strapagate
e di proposte ripetitive e risapute?
Invia un commento
© 2000 - 2024 Tutto il materiale pubblicato su Jazzitalia è di esclusiva proprietà dell'autore ed è coperto da Copyright internazionale, pertanto non è consentito alcun utilizzo che non sia preventivamente concordato con chi ne detiene i diritti.
|
Questa pagina è stata visitata 5.150 volte
Data pubblicazione: 29/02/2008
|
|